Avvento e Natale

Quando i giorni diventano via via più corti, quando, nel corso di un inverno normale, cadono i primi fiocchi di neve, timidi e sommessi si fanno strada i primi pensieri del Natale. Questa semplice parola emana un fascino misterioso, cui ben difficilmente un cuore può sottrarsi.

Avvento e Natale

da L'autore

del 01 gennaio 2002

Quando i giorni diventano via via più corti, quando, nel corso di un inverno normale, cadono i primi fiocchi di neve, timidi e sommessi si fanno strada i primi pensieri del Natale. Questa semplice parola emana un fascino misterioso, cui ben difficilmente un cuore può sottrarsi. Anche coloro che professano un’altra fede e i non credenti, cui l’antico racconto del Bambino di Betlemme non dice alcunché, preparano la festa e cercano di irradiare qua e là un raggio di gioia. Già settimane e mesi prima un caldo flusso di amore inonda tutta la terra. Una festa dell’amore e della gioia, questa è la stella verso cui tutti accorrono nei primi mesi invernali.

 

Ma per il cristiano e in particolare per il cristiano cattolico essa è anche qualcos’altro. La stella lo guida alla mangiatoia col Bambinello, che porta la pace in terra. L’arte cristiana ce lo pone davanti agli occhi in innumerevoli e graziose immagini, mentre antiche melodie, da cui risuona tutto l’incantesimo dell’infanzia, lo cantano.

 

Nel cuore di colui che vive con la Chiesa le campane del Rorate e i canti dell’Avvento risvegliano una santa e ardente nostalgia, e a chi si disseta alla fonte inesauribile della sacra liturgia il grande profeta dell’incarnazione ripete, giorno dopo giorno, le sue grandiose esortazioni e promesse: “Stillate, cieli, dall’alto, e le nubi piovano il Giusto! Il Signore è vicino! Adoriamolo! Vieni, Signore, e non tardare! Esulta, Gerusalemme, sfavilla di gioia, perché viene a tè il tuo Salvatore!”. Dal 17 al 24 dicembre le grandi antifone ‘O’ del Magnificat (O sapienza, O Adonai, O radice di Jesse, O chiave della città di Davide, O Oriente, O rè delle nazioni) gridano con un desiderio e ardore crescente il loro “Vieni a salvarci”. E sempre più cariche di promesse risuonano le parole: “Ecco, tutto è compiuto” (ultima domenica di Avvento) e infine “Oggi saprete che il Signore viene e domani contemplerete la sua gloria”. Sì, quando la sera gli alberi di Natale luccicano e ci si scambiano i doni, una nostalgia inappagata continua a tormentarci e a spingerci verso un’altra luce splendente, fintante che le campane della messa di mezzanotte suonano e il miracolo della notte santa si rinnova su altari inondati di luci e di fiori: “E il Verbo si fece carne”. Allora è il momento in cui la nostra speranza si sente beatamente appagata.

 

 

 'I seguaci del Figlio incarnato di Dio'

 

Ognuno di noi ha già sperimentato una simile felicità del Natale. Ma il cielo e la terra non sono ancora divenuti una cosa sola. La stella di Betlemme è una stella che continua a brillare anche oggi in una notte oscura. Già all’indomani del Natale la Chiesa depone i paramenti bianchi della festa e indossa il colore del sangue e, nel quarto giorno, il violetto del lutto: Stefano, il protomartire, che seguì per primo il Signore nella morte, e i bambini innocenti, i lattanti di Betlemme e della Giudea, che furono ferocemente massacrati dalle rozze mani dei carnefici, sono i seguaci che attorniano il Bambino nella mangiatoia. Che significa questo? Dov’è ora il giubilo delle schiere celesti, dov’è la beatitudine silente della notte santa? Dov’è la pace in terra? Pace in terra agli uomini di buona volontà. Ma non tutti sono di buona volontà.

 

Per questo il Figlio dell’eterno Padre dovette scendere dalla gloria del cielo, perché il mistero dell’iniquità aveva avvolto la terra.

 

Le tenebre ricoprivano la terra, ed egli venne come la luce che illumina le tenebre, ma le tenebre non l’hanno compreso. A quanti lo accolsero egli portò la luce e la pace; la pace col Padre celeste, la pace con quanti come essi sono figli della luce e figli del Padre celeste, e la pace interiore e profonda del cuore; ma non la pace con i figli delle tenebre. Ad essi il Principe della pace non porta la pace, ma la spada. Per essi egli è la pietra d’inciampo, contro cui urtano e si schiantano. Questa è una verità grave e seria, che l’incanto del Bambino nella mangiatoia non deve velare ai nostri occhi. Il mistero dell’incarnazione e il mistero del male sono strettamente uniti. Alla luce, che è discesa dal cielo, si oppone tanto più cupa e inquietante la notte del peccato. Il Bambino protende nella mangiatoia le piccole mani, e il suo sorriso sembra già dire quanto più tardi, divenuto adulto, le sue labbra diranno: “Venite a me voi tutti che siete stanchi e affaticati”. Alcuni seguirono il suo invito. Così i poveri pastori sparsi per la campagna attorno a Betlemme che, visto lo splendore del cielo e udita la voce dell’angelo che annunciava loro la buona novella, risposero pieni di fiducia: “Andiamo a Betlemme” e si misero in cammino; così i rè che, partendo dal lontano Oriente, seguirono con la stessa semplice fede la stella meravigliosa. Su di loro le mani del Bambino riversarono la rugiada della grazia, ed essi “provarono una grandissima gioia”. Queste mani danno e esigono nel medesimo tempo: voi sapienti deponete la vostra sapienza e divenite semplici come i bambini; voi rè donate le vostre corone e i vostri tesori e inchinatevi umilmente davanti al rè dei rè; prendete senza indugio su di voi le fatiche, le sofferenze e le pene che il suo servizio richiede. Voi bambini, che non potete ancora dare alcunché da parte vostra: a voi le mani del Bambino nella mangiatoia prendono la tenera vita prima ancora che sia propriamente cominciata; il mo­do migliore di impiegarla è quello di essere sacrificata per il Signore della vita. “Seguimi”, così dicono le mani del Bambino, come più tardi diranno le labbra dell’uomo adulto. Così dissero esse al giovane amato dal Signore e che ora fa anche parte della schiera disposta attorno alla mangiatoia. E san Giovanni, il giovane dal cuore puro e infantile, lo seguì senza domandare: dove? a che scopo? Abbandonò la barca del padre e andò dietro al Signore su tutte le sue strade fino al Golgota. “Seguimi”, questo invito percepì anche il giovane Stefano. Egli seguì il Signore nella lotta contro le potenze delle tenebre, contro l’accecamento della testarda mancanza di fede; gli rese testimonianza con le sue parole e col suo sangue; lo seguì anche nel suo spirito, nello spirito dell’amore, che combatte il peccato, ma ama il peccatore e intercede per l’assassino davanti a Dio anche in punto di morte. Figure luminose sono quelle che si inginocchiano attorno alla mangiatoia: i bambini teneri e innocenti, i pastori fiduciosi, i rè umili, Stefano, il discepolo entusiasta, e Giovanni, l’apostolo dell’amore; essi seguirono tutti la chiamata del Signore. Di fronte ad essi sta la notte dell’indurimento e dell’accecamento incomprensibile: gli scribi, che sono in grado di da­re informazioni sul tempo e sul luogo in cui il Salvatore del mondo deve nascere, ma che non deducono da qui alcun “Andiamo a Betlemme!”; il re Erode, che vuole uccidere il Signore della vita. Di fronte al Bambino nella mangiatoia gli spiriti si dividono. Egli è il Rè dei rè e il Signore della vita e della morte, pronuncia il suo “Seguimi”, e chi non è per lui è contro di lui. Egli lo pronuncia anche per noi e ci pone di fronte alla decisione di scegliere tra la luce e le tenebre.

 

 

'Il corpo mistico di Cristo'

 

'Essere una cosa sola con Dìo'

Dove il Bambino divino intenda condurci sulla terra è cosa che non sappiamo e a proposito della quale non dobbiamo fare domande prima del tempo. Una cosa sola sappiamo, e cioè che a quanti amano il Signore tutte le cose ridondano in bene. E inoltre che le vie, per le quali il Salvatore conduce, vanno al di là di questa terra.

 

O scambio mirabile! Il Creatore del genere umano ci conferisce, assumendo un corpo, la sua divinità. Per quest’opera mirabile il Redentore è infatti venuto nel mondo. Dio è diventato un figlio degli uomini,  affinché gli uomini potessero diventare figli di Dio. Uno di noi aveva lacerato il legame della figliolanza divina, uno di noi doveva di nuovo riannodarlo e pagare per il peccato. Ma nessun discendente di questa progenie antica, malata e imbastardita, era in grado di farlo. Su di essa andava innestato un ramoscello nuovo, sano e nobile. Uno di noi egli è divenuto, anzi di più ancora, perché è divenuto una cosa sola con noi. Questa è infatti la cosa meravigliosa del genere umano, il fatto che siamo tutti una cosa sola. Se le cose stessero diversamente, se noi esistessimo liberi e indipendenti gli uni accanto agli altri come esseri singoli, autonomi e separati, la caduta dell’uno non si sarebbe tirata dietro la caduta di tutti gli altri. Dall’altra parte qualcuno avrebbe poi potuto pagare per noi il prezzo dell’espiazione e metterlo sul nostro conto, ma la sua giustizia non sarebbe trapassata nei peccatori e nessuna giustificazione sarebbe stata possibile. Egli invece venne per essere un corpo misterioso con noi: egli il nostro capo, noi le sue membra. Se mettiamo le nostre mani nelle mani del Bambino divino e rispondiamo con un “sì” al suo “Seguimi”, allora siamo suoi, e libera è la via perché la sua vita divina possa riversarsi in noi.

 

Questo è l’inizio della vita divina in noi. Essa non è ancora la contemplazione beata di Dio nella luce della gloria; è ancora l’oscurità della fede, però non è più di questo mondo ed è già un’esistenza nel regno di Dio. Il regno di Dio cominciò sulla terra quando la Vergine santissima pronunciò il suo/taf, ed ella ne fu la prima serva. E quanti prima e dopo la nascita del Bambino profes­sarono la loro fede in lui con le parole e le azioni — san Giuseppe, santa Elisabetta, suo figlio e tutti coloro che circondavano la mangiatoia — entrarono similmente in esso. Tale regno sopravvenne in maniera diversa da come ce lo si era immaginato in base ai salmi e ai profeti. I romani rimasero i padroni del paese, e i sommi sacerdoti e gli scribi continuarono a tenere il popolo povero sotto il loro giogo. Chiunque apparteneva al Signore portava invisibilmente il regno di Dio in sé. Egli non si vide alleggerito dei pesi dell’esistenza terrena, anzi ne vide aggiungere degli altri; ma dentro era sorretto da una forza alata, che rendeva dolce il giogo e leggero il peso. Così avviene anche oggi per ogni figlio di Dio. La vita divina, che viene acce­sa nell’anima, è la luce che è venuta nelle tenebre, il miracolo della notte santa. Chi la porta in sé capisce quando se ne parla. Invece per gli altri tutto quel che possiamo dire al riguardo è solo un balbettio incomprensibile. Tutto il vangelo di Giovanni è un balbettio del genere a proposito della luce eterna, che è amore e vita. Dio in noi e noi in lui, questa è la nostra partecipazione al regno di Dio, che ha nell’incarnazione la sua base.

 

'Essere una cosa sola in Dio'

Essere una cosa sola con Dio: questa è la prima cosa. Ma una seconda ne segue immediatamente. Se nel corpo mistico Cristo è il capo e noi le membra, allora noi siamo membra gli uni degli altri e tutti insieme siamo una cosa sola in Dio, una vita divina. Se Dio è in noi e se egli è amore, allora non possiamo che amare i fratelli. Per questo il nostro amore del prossimo è la misura del nostro amore di Dio. Ma si tratta di un amore diverso dall’amore naturale per gli uomini. L’amore naturale si dirige verso questo o verso quello, verso chi è a noi legato da vincoli di sangue, da affinità di carattere o da interessi comuni. Gli altri sono “estranei”, di essi “non ce ne importa alcunché”, anzi possiamo addirittura provare avversione nei loro riguardi a motivo della loro indole, per cui ci guardiamo bene dall’amarli. Per il cristiano non esiste alcun “estraneo”. Nostro “prossimo” è chi sta via via davanti a noi e ha più bisogno di noi, sia egli o meno no­stro parente, ci “piaccia” o no, sia “moralmente degno” o meno del nostro aiuto. L’amore di Cristo non conosce confini, non viene mai meno, non si ritrae di fronte all’abbiezione morale e fisica. Cristo è venuto per i peccatori e non per i giusti. E se il suo amore vive in noi, allora agiamo come lui e andiamo dietro alla pecorella smarrita.

 

L’amore naturale tende ad avere per sé la persona amata e a possederla nella maniera più indivisa possibile. Cristo è venuto per riportare al Padre l’umanità perduta; e chi ama col suo amore vuole gli uomini per Dio e non per sé. Questa è naturalmente nello stesso tempo la via più sicura per possederli eternamente; quando infatti abbiamo posto in salvo una persona in Dio, siamo con lei in Dio una cosa sola, mentre il desiderio di conquistarla conduce spesso — anzi prima o poi sempre — alla sua perdita. Ciò vale per l’altrui anima come per la propria e per ogni bene esteriore: chi si dedica alle cose esteriori per conquistarle e conservarle, le perde. Chi ne fa dono a Dio, le guadagna.

 

'Sia fatta la tua volontà!'

Tocchiamo così un terzo segno della figliolanza divina. Essere una cosa sola con Dio era il primo. Il fatto che tutti sono una cosa sola in Dio il secondo. Il terzo: “Da questo riconoscerò che mi amate, se osserverete i miei comandamenti”. Essere figlio di Dio si unifica camminare dando la mano a Dio, fare la volontà di Dio e non la propria, riporre nelle sue mani ogni preoccupazione e speranza, non affannarsi più per sé e per il proprio futuro. Questa è la base della libertà e della gioia del figlio di Dio. Quanti pochi anche di coloro che sono veramente pii, anche di coloro che hanno fatto eroicamente l’offerta di se stessi le posseggono! Essi camminano sempre chini sotto il grave peso delle loro preoccupazioni e dei loro doveri. Tutti conoscono la parabola degli uccelli del cielo e dei gigli del campo. Ma quando incontrano una persona che non possiede alcun bene, non ha alcuna pensione e alcuna assicurazione e tuttavia va incontro serena al suo futuro, scuotono il capo come se si trovassero di fronte a un tipo strano. Certo, chi si aspetta che il Padre celeste provvederà sempre al benessere e alle entrate che egli ritiene auspicabili, potrebbe sbagliarsi gravemente. La fiducia in Dio rimane incrollabile solo se essa include la disponibilità ad accogliere qualunque cosa dalla sua mano. Dio solo infatti sa quel che è bene per noi. E se un giorno per noi dovessero esser meglio la miseria e la privazione anziché un reddito sicuro, oppure l’insuccesso e l’umiliazione al posto dell’onore e del prestigio, dovremmo tenerci pronti anche a questo. Se lo facciamo, allora possiamo vivere il presente senza lasciarci turbare dal futuro.

 

Il “sia fatta la tua volontà”, in tutta la sua estensione, deve essere il criterio della vita cristiana. Esso deve scandire la giornata dal mattino alla sera, il corso dell’anno e tutta la vita. E deve quindi essere anche l’unica preoccupazione del cristiano. Tutte le altre

 

Il Signore le prende su di sé. L’unica che ci rimane è questa, fin quando viviamo. Oggettivamente parlando, noi non abbiamo la garanzia definitiva di rimanere sempre sulle vie di Dio. Come i primi uomini poterono perdere la figliolanza divina e allontanarsi da Dio, così ognuno di noi corre sempre sul filo tra il nulla e la pienezza della vita divina. E prima o poi lo sperimentiamo anche soggettivamente. Nell’età infantile della vita spirituale, quando abbiamo appena cominciato ad affidarci alla guida di Dio, sentiamo la sua mano forte e robusta che ci conduce; vediamo con estrema chiarezza quanto dobbiamo fare e tralasciare. Ma la situazione non rimane sempre così. Chi appartiene a Cristo deve vivere tutta la sua vita. Deve maturare fino all’età adulta di Cristo, imboccare un giorno la via della croce, dirigersi al Getsemani e al Golgota. E tutte le sofferenze che provengono dall’esterno sono un nulla a paragone della notte oscura dell’anima, allorché la luce divina non brilla più e la voce del Signore tace. Dio è presente, ma è nascosto e tace. Perché fa così? Siamo qui di fronte ai suoi misteri, misteri che non possiamo penetrare fino in fondo. Un po’ però li possiamo già perscrutare. Dio è divenuto uomo per farci di nuovo partecipare alla sua vita. Partecipazione che era al principio e che è l’ultimo fine.

 

Ma nell’intervallo c’è ancora qualcos’altro. Cristo è Dio e uomo, e chi vuoi partecipare alla sua vita, deve prender parte alla sua vita divina e umana. La natura umana da lui assunta gli diede la possibilità di soffrire e morire. La natura divina, da lui posseduta dall’eternità, conferì alla sua passione e morte un valore infinito e la capacità di compiere la redenzione.

 

La passione e la morte di Cristo continuano nel suo corpo mistico e in ognuna delle sue membra. Ogni uomo deve soffrire e morire. Ma se egli è un membro vivo del corpo di Cristo, la sua sofferenza e la sua morte diventano, grazie alla divinità del capo, redentrici. Questo è il motivo oggettivo, per cui tutti i santi hanno aspirato a soffrire. Non si tratta di un desiderio malsano. Gli occhi della mente naturale lo vedono come una perversione. Ma alla luce del mistero della redenzione esso appare come estremamente ragionevole. E così colui che è unito a Cristo persevera incrollabile anche nella notte oscura della lontananza soggettiva da Dio e dell’abbandono soggettivo da parte sua; forse la provvidenza divina gli impone questo tormento per liberare uno oggettivamente incatenato. Diciamo pertanto: “sia fatta la tua volontà!” anche e proprio, per questo, nella notte più oscura.

 

'Mezzi di salvezza'

Ma possiamo ancora pronunciare questo “sia fatta la tua volontà”, quando non sappiamo più con certezza che cosa la volontà di Dio esige da noi? Possediamo mezzi per rimanere sulle sue vie, quando la luce interiore si spegne? Esistono mezzi del genere e mezzi così potenti che uno sbandamento, per quanto in linea di principio possibile, diventa in realtà infinitamente inverosimile. Dio è infatti venuto per redimerci, per unirci a sé, per rendere la nostra volontà conforme alla sua. Conosce la nostra natura. Ne tiene conto e ci ha quindi fatto dono di tutto ciò che può aiutarci a raggiungere il traguardo.

 

Il Bambino divino è diventato il Maestro e ci ha detto che cosa dobbiamo fare. Per permeare tutta una vita umana di vita divina non basta inginocchiarsi una volta all’anno davanti alla mangiatoia e lasciarsi prendere dall’incanto della notte santa. A questo scopo bisogna stare quotidianamente in contatto con Dio per tutta la vita, ascoltare le parole che egli ha pronunciato e che ci sono state tramandate e metterle in pratica. Prima di tutto bisogna pregare così come il Salvatore ci ha insegnato a fare e ha continuamente e pressantemente raccomandato. “Chiedete e vi sarà dato”. E una sicura promessa di esaudimento. E chi recita quotidianamente di cuore il suo “Signore, sia fatta la sua volontà”, può confidare di non tradire la volontà divina anche quando non ne ha più alcuna certezza soggettiva.

 

Inoltre: Cristo non ci ha lasciati orfani. Ha inviato il suo Spirito, che insegna a tutti noi la verità. Ha fondato la Chiesa, che è guidata dal suo Spirito, e ha istituito in essa i suoi rappresentanti, dalla cui bocca il suo Spirito ci parla in parole umane. In essa egli ha unito i fedeli in una comunità e vuole che ognuno sia responsabile di ogni altro. Pertanto non siamo soli, e dove viene meno la fiducia nel proprio giudizio e anche nella propria preghiera siamo soccorsi dalla forza dell’obbedienza e dalla forza dell’intercessione.

 

“E il Verbo si fece carne”. Ciò è divenuto verità nella stalla di Betlemme. Ma si è adempiuto anche in un’altra forma. “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna”. Il Salvatore, ben sapendo che siamo uomini e rimaniamo uomini quotidianamente alle prese con le nostre debolezze, viene in aiuto della nostra umanità in maniera veramente divina. Come il corpo terreno ha bisogno del pane quotidiano, così anche la vita divina aspira in noi ad essere continuamente alimentata. “Questo è il pane vivo, che è disceso dal cielo”. Chi lo fa veramente il suo pane quotidiano, in lui si compie quotidianamente il mistero del Natale, l’incarnazione del Verbo.

 

E questa è indubbiamente la via più sicura per conserva­re ininterrottamente l’unione con Dio e radicarsi ogni giorno sempre più saldamente e profondamente nel corpo mistico di Cristo. So bene che ciò apparirà a molti un’esigenza troppo radicale. In pratica essa comporta per la maggior parte di coloro che cominciano a soddisfarla, un rivoluzionamen­to di tutta la loro vita interiore e esteriore. Ma appunto così dobbiamo fare! Nella no­stra vita dobbiamo far spazio al Salvatore eucaristico, affinché possa trasformare la nostra vita nella sua: è questa una richiesta esagerata? Abbiamo tempo per tante cose inutili: per leggere ogni genere di libri, riviste e quotidiani futili, per bighellonare da un caffè all’altro e passare quarti d’ora e mezze ore a chiacchierare per la strada, tutte ‘distrazioni’ in cui sprechiamo e disperdiamo tempo e energie. Non ci è proprio possibile riservare ogni mattina un’ora, in cui non ci distraiamo, ma ci raccogliamo, in cui non ci logoriamo, ma accumuliamo energia per poi affrontare col suo aiuto i nostri compiti quotidiani?

 

Ma naturalmente ci vuole di più di una semplice ora del genere. Essa deve animare tutte le altre, sì da rendersi impossibile “lasciarci andare”, foss’anche solo momentaneamente. Non possiamo sottrarci al giudizio di colui che frequentiamo quotidianamente. Anche se non dice una parola, sentiamo qual è il suo atteggiamento nei nostri riguardi. Cerchiamo di adattarci al nostro ambiente, e se la cosa non ci riesce, la convivenza diventa un tormento. Così succede anche nei rapporti quotidiani col Salvatore. Diventiamo sempre più sensibili nel discernere ciò che gli piace e gli dispiace. Se prima eravamo tutto sommato molto contenti di noi, ora le cose cambiano. Troveremo che molte cose sono cattive e nei limiti del possibile le cambieremo. E scopriremo alcune cose che non possiamo ritenere belle e buone, e che pur risulta tanto difficile cambiare. Allora diventiamo a poco a poco molto piccoli e umili, pazienti e indulgenti verso le pagliuzze presenti negli occhi altrui, perché abbiamo da fare con la trave presente nei nostri; e infine, impariamo anche a sopportarci nella luce inesorabile della presenza di Dio e ad affidarci alla sua misericordia, che può venire a capo di tutto ciò che si fa beffe delle nostre forze. Lungo è il cammino per passare dall’autocompiacimento del “buon cattolico”, che “compie i suoi doveri”, legge un “buon giornale”, “vota nella maniera giusta” ecc., ma per il resto fa come gli piace, ad una vita che si lascia guidare per mano da Dio ed è caratterizzata dalla semplicità del bambino e dall’umiltà del pubblicano. Chi però l’ha imboccato una volta, non lo rifà più a ritroso.

 

La vita filiale in Dio significa perciò di­venire piccoli e nel medesimo tempo divenire grandi. Vivere eucaristicamente significa uscire spontaneamente dalla meschinità della propria vita e addentrarsi negli am­pi spazi della vita di Cristo. Chi fa visita al Signore nella sua casa, non si occuperà più solo e sempre di sé e delle proprie faccende, ma comincerà a interessarsi delle faccende del Signore. La partecipazione al sacrificio quotidiano ci immerge, senza che ce ne accorgiamo, nella vita liturgica. Le preghiere e i riti dell’altare ripropongono continuamente davanti alla nostra anima, nel corso dell’anno liturgico, la storia della salvezza e ce ne fanno penetrare sempre più profondamente il senso. E l’azione sacrificale ci impregna instancabilmente del mistero centrale della nostra fede, cardine della storia del mondo: del mistero dell’incarnazione e della redenzione. Chi può assistere con spirito e cuore aperto al santo sacrificio senza entrare a sua volta nel suo movimento, senza essere preso dal desiderio di inserire se stesso e la propria piccola vita personale nella grande opera del Redentore?

 

I misteri del cristianesimo sono un tutto indivisibile. Chi ne approfondisce uno, finisce per toccare tutti gli altri. Così la via che si diparte da Betlemme procede inarrestabilmente verso il Golgota, va dalla mangiatoia alla croce. Quando la santissima Vergine presentò il Bambino al tempio, le fu predetto che la sua anima sarebbe stata trafitta da una spada, che quel bambino era posto per la caduta e la risurrezione di molti e come segno di contraddizione. Era l’annuncio della passione, della lotta fra la luce e le tenebre che si era manifestata già attorno alla mangiatoia!

 

In alcuni anni la Candelora e la Settuagesima, la celebrazione dell’incarnazione e la preparazione alla passione, cadono nello stesso giorno. Nella notte del peccato brilla la stella di Betlemme. Sullo splendore luminoso che irradia dalla mangiatoia cade l’ombra della croce. La luce si spegne nell’oscurità del venerdì santo, ma torna a brillare più luminosa, sole di misericordia, la mattina della risurrezione. Il Figlio incarnato di Dio pervenne attraverso la croce e la passione alla gloria della risurrezione. Ognuno di noi, tutta l’umanità perverrà col Figlio dell’uomo, attraverso la sofferenza e la morte, alla medesima gloria.

 

 

[Testo tratto da: La mistica della croce - Scritti spirituali sul senso della vita, Città Nuova 1985, p.64 ss.]

 

Edith Stein

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