La felice espressione “emergenza educativa”, divenuta tanto familiare in questi ultimi tempi dentro e fuori della Chiesa, può risultare particolarmente arricchita se la si legge con un occhio attento alla lezione di un grande filosofo e teologo dell'ottocento italiano, il beato Antonio Rosmini.
del 30 marzo 2010
Istanze educative e questione antropologica
          Sono lieto di essere qui con voi per parlare di qualcosa che non solo ci sta a cuore, ma che sentiamo essere parte del nostro essere persone e credenti. Cioè del nostro essere discepoli del Maestro – il Signore Gesù – che non cessa di educare ad una umanità nuova e piena. Egli continua a parlare all’intelligenza e a scaldare il cuore di coloro che si aprono alla sua verità e al suo amore e accolgono la compagnia dei fratelli per fare esperienza della novità del Vangelo e così annunciare a tutti la gioia e il fascino di un incontro che cambia la vita e che fa fiorire l’umano.
          La Chiesa continua l’opera del suo Signore, e la sua storia bimillenaria è un intreccio di evangelizzazione e di educazione: annunciare la persona di Cristo, vero Dio e vero uomo, significa portare a pienezza l’uomo e quindi creare cultura e civiltà. A volte, a fronte di tante situazioni di violenza vecchie e nuove, al mondo ancora così lacerato da squilibri e ingiustizie, o a forme di involuzione culturale, potremmo chiederci: quanto ha inciso il Cristianesimo nell’elevazione dell’umanità, quanto efficace è stata ed è la predicazione della fede?
          Potremmo risponderci: e che cosa sarebbe stato e sarebbe il mondo senza il Vangelo di Cristo? Senza la presenza della Chiesa con i suoi sacerdoti, i religiosi e le religiose, i laici, i gruppi, le associazioni, i movimenti, le istituzioni di carità e di promozione, di ascolto? Senza il vortice di continua preghiera che si eleva a Dio da ogni parte della terra da secoli e che eleva i cuori di moltitudini, rende la coscienza migliore, la rafforza contro il male? Senza quella rete sterminata di piccole luci che rendono l’universo più luminoso? E dove sarebbe quel popolo immenso sparso sino ai confini della terra fatto di persone umili e buone che fanno la storia vera – quella del bene – con la loro vita riferita a Cristo? Conosciamo i limiti e gli errori della condizione umana, ma ciò non può oscurare l’esperienza secolare della comunità cristiana.
          I Vescovi italiani hanno scelto, come Orientamenti Pastorali per il decennio appena iniziato, proprio la sfida educativa: responsabilità e grazia! Grazia perché significa continuare a “comunicare il vangelo in un mondo che cambia”, e significa declinarlo nella dimensione specifica dell’educazione. Responsabilità perché se educare mai è stato facile, oggi si tratta di accettare la sfida che viene dalla complessità spesso contraddittoria della cultura e della società. Il Santo Padre Benedetto XVI non solo ci esorta a questo con il limpido e puntuale Magistero, ma ci precede sulla via educativa del popolo di Dio, avendo chiaramente nello sguardo e nel cuore ogni uomo, poiché l’umanità piena che si rivela in Gesù, e in Lui si incontra, non esclude nessuno.
          La felice espressione “emergenza educativa”, divenuta tanto familiare in questi ultimi tempi dentro e fuori della Chiesa, può risultare particolarmente arricchita se la si legge con un occhio attento alla lezione di un grande filosofo e teologo dell’ottocento italiano, il beato Antonio Rosmini. La sua prospettiva mi sembra vada ad incrociare punti cruciali emergenti nell’attuale contesto culturale e pastorale.
          E per cogliere tutta la portata del contributo positivo che può venirci dalla prospettiva rosminiana, e che va nella direzione di un arricchimento del senso che all’ “emergenza educativa” ha voluto dare lo stesso Benedetto XVI, torna utile ricordare che le “emergenze”, per loro natura, non fanno parte della vita ordinaria e della storia quotidiana delle persone; esse irrompono tanto improvvise quanto inattese. Mentre né inattesa né improvvisa può essere ritenuta l’esigenza di educare e di educarsi, dal momento che, come scrive il Rosmini, «l’educazione è un affare gravissimo» (Dell’educazione cristiana, Città Nuova ed., Roma 1994, p.47), nel senso di “affare di grande portata”, per il fatto che essa mira a «rendere l’uomo stesso buono con riguardo a tutte le circostanze nelle quali si trova; [rendere l’uomo] capace di usare di esse, e di tutti gli altri mezzi al vero vantaggio di sé e d’altri; e [renderlo] così autore del proprio bene e specialmente della propria virtù e della propria felicità» (Idem, Scritti vari di metodo e di pedagogia, Unione Tipografica Ed., Torino 1883, p.499). E questo, aggiunge Rosmini, appartiene ad ogni uomo, in ogni fase della sua vita, dal momento che a tutti gli uomini è chiesto spendersi per la realizzare il bene.
          In altri termini, se è vero che la società contemporanea è attraversata sempre più da deficit preoccupanti di “buona educazione”, è anche vero che una risposta efficace non può venire da una comunità che si limita ad affrontare questo deficit come se si trattasse di una “emergenza” piuttosto che di un “compito” quotidiano.
          E, a richiedere che quello pedagogico venga considerato un compito quotidiano, non sono circostanze episodiche, seppure preoccupanti né il moltiplicarsi dei segnali di cattiva o inesistente educazione. A chiedere che quello pedagogico venga considerato un compito quotidiano è la natura stessa dell’uomo. Tanto che non è affatto azzardato affermare che la “questione pedagogica” (o se si vuole, l’emergenza educativa) va di pari passo con la “questione antropologica”.
          Le circostanze che fecero da sfondo alle pagine pedagogiche del nostro Autore presentano forti analogie con quelle odierne, che stanno chiamando a raccolta le energie più sensibili intorno all’emergenza educativa e, tra queste, la stessa Chiesa italiana.
          È noto l’enorme dispendio di energie messo in campo sia dall’Illuminismo sia dal Liberalismo di fine Settecento inizi Ottocento. Sia l’uno che l’altro non tralasciarono il ricorso a strumenti di propaganda e di formazione che facevano coincidere la razionalizzazione delle attività lavorative e il miglioramento della qualità della vita con un deciso e progressivo allontanamento dalla religione e dall’etica cristiana. La conseguenza più immediata dell’offensiva illuministico-liberale si presentò subito con i caratteri di una evidente frattura tra cristianesimo e società civile e politica, aprendo per la Chiesa un nuovo ed inedito fronte missionario.
          Rosmini, di fronte a questa situazione, non veste né i panni del rinunciatario né quelli dell’ottuso oppositore: la validità della sua impostazione – “apologetica”, nel senso più alto della parola - trova fondamento nello stretto legame tra filosofia, antropologia, pedagogia; legame che, a sua volta, garantisce la consequenzialità tra pensiero teologico ed istanze etiche, politiche e di natura giuridica.
          In questo quadro, l’educazione della persona non si presenta affatto come un compito marginale o comunque da invocare in momenti di “emergenza”, quanto piuttosto come la prosecuzione del “governo divino del mondo” «con cui ordinando e disponendo gli avvenimenti (Dio) educò il genere umano e l’educa di continuo» (Idem, Sistema filosofico, n. 244).
1. La persona umana centro e fine dell’educazione
          La visione antropologica che la Rivelazione ebraico-cristiana consegna all’umanità è tutta centrata sulla persona umana, che non si lascia intrappolare in alcuna idea, categoria, concetto, né ridurre a particolari dimensioni o prospettive. La persona non è il soggetto né l’individuo, non è l’anima né il corpo, non è pensiero né sentimento, ma si dà in tutte queste espressioni e dimensioni consentendoci di rilevare una duplice fondamentale istanza, che risulta particolarmente istruttiva per la questione educativa. Si tratta, in primo luogo, della irriducibilità della persona. In secondo luogo, si tratta della relazione che pure costituisce l’essere personale in maniera non meramente estrinseca o accessoria. Il genio di S. Tommaso d’Aquino, ispirandosi alle grandi formulazioni cristologiche e trinitarie, ha espresso questa realtà, consegnandocela nella formula della relatio subsistens. ( cf S.T. I, q.29, a.4, in c.9). La persona, ogni persona è una relazione sussistente. Senza relazione neppure può originarsi un essere umano, senza una sua profonda sussistenza individuale (Rosmini, seguendo Scoto, dice “incomunicabile”) si perderebbe in una generalità omologante e dissolvente.
          Benedetto XVI, nella Caritas in veritate, raccogliendo questa grande tradizione antropologica e situandola nel contesto del villaggio globale, ci offre un riferimento esplicito alla lezione del personalismo comunitario, che il pensiero cattolico del Novecento non ha mancato di accogliere ed articolare: “La verità della globalizzazione come processo e il suo criterio etico fondamentale sono dati dall'unità della famiglia umana e dal suo sviluppo nel bene. Occorre quindi impegnarsi incessantemente per favorire un orientamento culturale personalista e comunitario, aperto alla trascendenza, del processo di integrazione planetaria” (n. 42).
          Ogni processo educativo e formativo non può tralasciare o dimenticare questo duplice binario, che nasce dalla costituzione stessa dell’essere persona che è l’uomo. Con spirito di realistica sapienza né i singoli educatori, né i progetti messi in campo possono arrogarsi il compito di inventare o creare le persone, né di destrutturarle e ricrearle in relazione agli obiettivi che organizzazioni, gruppi o singoli si prefiggono. L’educazione non crea la persona, ma la trova e la riconosce, ponendo una relazione - detta appunto “relazione educativa” - di autentico servizio all’uomo e alle donne cui è destinata. Ma ciò è possibile solo se coloro che sono chiamati ad educare possiedono il senso profondo della loro irriducibilità e capacità di relazione, sapendo cogliere anche nell’esperienza di educatori ulteriori possibilità di crescita e di maturazione per se stessi, oltre che per coloro cui è destinato il loro impegno.
          Se, come il beato Rosmini ricorda nella sua Filosofia del diritto, “la persona umana è il diritto sussistente” (A. Rosmini, Filosofia del diritto, Cedam, Padova 1967-69, IV, 898), allora non solo la giurisprudenza relativa all’educazione (pensiamo alle riforme scolastiche ai diversi livelli), ma la stessa attività educativa non può non tenerne conto. Ma l’inalienabilità della persona umana ci porta ancora oltre questa pur fondamentale considerazione, in quanto ci consente di individuare il soggetto educativo fondamentale non nello Stato o in qualsiasi altra organizzazione strutturale, bensì in quel luogo originario della relazione che costituisce la persona nella sua identità, ossia la famiglia, cui lo Stato ed altre eventuali organizzazioni offrono il loro aiuto e supporto nell’attivazione ed articolazione di itinerari educativi. Questo dato antropologico fondamentale consente il superamento di ogni tentazione idolatrica, cui le ideologie stataliste di ogni colore e di ogni epoca sempre soggiacciono. Si tratta di una visione dell’uomo profondamente liberante e capace di smascherare ogni tipo di violenza anche culturale massificante e mortificante la dignità della persona.
2. L’educazione e le forme dell’essere
          Riconoscere la persona nella relazione educativa significa saper cogliere e seguire-aiutare lo sviluppo armonico delle sue diverse dimensioni strutturali costitutive. In questo senso certamente l’educazione non crea l’essere della persona, ma lo accompagna, quindi ha a che fare con l’essere prima e più che col fare, col sentire e con lo stesso pensare. Oseremmo dire che la questione antropologica e quella educativa ad essa strettamente connessa è una questione metafisica. In questo orizzonte si situa una riflessione sull’uomo e sull’essere che è possibile articolare rosminianamente secondo la dottrina delle tre forme, che nell’uomo trovano unità e compimento: reale, ideale, morale.
          2.a. L’educazione in questa prospettiva antropologica ed ontologica, si riferisce alla realtà e in rapporto ad essa si articola e si sviluppa. Il realismo non è soltanto una teoria della conoscenza, ma, anche in quanto tale, una direzione ed un compito imprescindibile in rapporto alla formazione delle persone. Si tratta di un realismo sapienziale, che nulla ha a che fare con l’acquiescenza o la rassegnazione e tanto meno con la ricerca esclusiva dell’utile e del tornaconto. In questo senso, la dimensione reale dell’esistenza umana ha a che fare, anche se non si esaurisce in essa, con la corporeità, con la carne, con la terra, cui dobbiamo fedeltà come al cielo.
          Processi educativi disincarnati e meramente utopici, oltre che inefficaci, potrebbero di fatto ingenerare atteggiamenti di evasione disumanizzanti. Accanto alla tentazione del materialismo, siamo chiamati, in nome di un’antropologia autentica, oltre che della fede nell’incarnazione, a contrastare con tutte le nostre forze anche la tentazione opposta dello spiritualismo disincarnazionista, spesso ricorrente anche nelle cosiddette nuove forme di religiosità.
          L’orizzonte realistico dell’educazione, connesso con la dimensione corporea dell’esistenza umana, evoca ed invoca la necessità del riferimento al rapporto uomo-donna come luogo nel quale si esprime, rivelandosi, la relazione sussistente che è la persona. Si tratta di una tematica che oggi presenta una peculiare attualità, anche in relazione alle sfide antropologiche e culturali del contesto in cui si svolge l’azione educativa e formativa. L’educazione alla vita di coppia chiede vigilanza e cura particolari e un accompagnamento attento che non può ridursi alla messa in guardia rispetto a devianze o anomalie che attentano a questa fondamentale dimensione dell’umano. L’attenzione alla sfera affettiva e ai legami che da essa si generano poggia sulla capacità di salvaguardare e formare quel rossiniano “sentimento fondamentale” chiamato a connettere ed armonizzare le diverse dimensioni dell’essere umano ed in particolare la sfera corporea con quella spirituale.
          Avere a cuore le “cose stesse” (come si esprimevano i fenomenologi della prima ora) significa altresì porre attenzione alla res publica e quindi alla cittadinanza nella polis che trova nell’impegno politico la sua più alta forma di espressione. Il sogno di allargare le generazioni dei politici cristianamente ispirati, che siano in grado di rinnovare profondamente questo fondamentale ambito dell’esistenza, passa attraverso la capacità di educare e formare al senso della cittadinanza e dello Stato, della legalità e dell’impegno nella società civile, in cui si vive quella sana laicità cui Benedetto XVI spesso ci richiama. L’appello alla partecipazione e alla passione, merce troppo rara nel nostro attuale contesto, se non vuol essere solo retorico, chiede energie e risorse da destinare all’educazione delle giovani generazioni che, se hanno ricevuto, dandola per scontata, la democrazia, troppo spesso non sembrano in grado di abitarla e viverla in riferimento ai valori fondamentali della giustizia, della libertà e della pace.
          Infine, l’orizzonte del realismo pedagogico chiama in causa l’universo mediatico e l’emergenza in esso del virtuale, spesso vissuto in alternativa al reale, ma che al contrario va pensato e percorso – come ci ricorda l’insegnamento del Papa nella giornata per le comunicazioni sociali - come una risorsa incredibile e inedita per la persona e le sue espressioni. Il Direttorio per le comunicazioni sociali Comunicazione e missione che la Conferenza Episcopale Italiana ci ha consegnato ci offre una lettura profonda e significativa dell’areopago mediatico contemporaneo, suggerendo criteri di discernimento e modalità concrete di utilizzo di questi potenti mezzi per la crescita umana e cristiana di noi tutti.
          2.b. Di fronte e accanto alla dimensione reale dell’essere si situa quella ideale, che fa riferimento all’intelligibilità del mondo, dell’uomo e di Dio. Il carattere caotico che immediatamente traspare allorché guardiamo fuori di noi e in noi stessi non può consegnarci alla rassegnazione e all’irrazionalità. Ad ogni forma del sapere è comunque sottesa la convinzione secondo cui il reale è intelligibile, in quanto custodisce un logos che l’uomo è chiamato a scoprire ed interpretare. Questa scoperta e corretta interpretazione costituisce l’orizzonte di possibilità di un’autentica trasformazione del mondo e di sé cui siamo chiamati. L’azione pedagogica non può non far riferimento al logos-ragione e quindi non interpellare il pensiero, suscitandolo e articolandolo nelle diverse metodologie che gli ambiti del sapere mettono in atto.
          Se “il fatto più preoccupante della nostra epoca è che non ancora pensiamo” (M. Heidegger, Che cosa significa pensare? Chi è lo Zarathustra di Nietzsche, SugarCo Milano 1978, 39), allora l’emergenza educativa sta nell’urgenza di insegnare e imparare a pensare, oltrepassando quella modalità diffusa e superficiale propria non solo di quanti apprendono, ma anche spesso di quanti insegnano, tendente a sostituire il sapere riflessivo con quello assemblativo, nuovo nome del sapere nozionistico del passato. Quella metafisica implicita che ogni percorso di conoscenza racchiude chiede un’operazione maieutica paziente ed efficace, ma soprattutto non rinunciataria e pigra, che caratterizza i veri maestri piuttosto che i semplici professori, i veri discepoli piuttosto che i semplici allievi.
          E se il logos-ragione non può certamente ridursi alla forma moderna della razionalità, in quanto include l’intelligenza e con essa la capacità di “leggere-dentro” il mondo e se stessi, allora il mistero costituirà il suo orizzonte più proprio e, di fronte ad esso, l’uomo sarà chiamato ad “allargare la razionalità” (come ci invita a fare Papa Benedetto), educando e lasciandosi educare a quel “pensare in grande” che Rosmini amava spesso evocare di fronte alle piccinerie del proprio ambiente e ai riduzionismi di ogni genere che la cultura diffusa gli offriva e ci offre. Non sembri un salto indebito, o addirittura contraddittorio, affermare che l’orizzonte più proprio della ragione è il mistero: se, infatti, la ragione è in se stessa ordinata non solo a cogliere il come delle cose, ma anche il che cosa e il perché del loro esserci allora ci scontriamo con il senso del reale del quale l’uomo è la punta rovente.
          Si tratta della perenne domanda che oggi si tende ad eludere ritenendola una “questione oziosa” sulla linea di Comte, Marx, Nietzsche: perché l’essere e non il nulla… se ciò che esiste non è necessario nel suo esserci e se – forse ancora più provocatorio e drammatico – se ciò che esiste permette il cancro di un bambino o il lager, cioè il male fisico e il male morale? Non tutto quindi è riducibile a calcolo strumentale, a schema cartesiano, e la ragione non può sottrarsi alla realtà tutta intera rifugiandosi nel perimetro della mera funzionalità. Essa è chiamata dalle cose a farsi contemplativa, possiamo dire “metafisica, e la ragione deve rispondere. Sono le cose stesse che “vogliono” non solo essere usate, ma spiegate, invocano un orizzonte di senso. Tale dimensione costitutivamente responsoriale della ragione incrocia la necessità già richiamata di “allargare gli spazi della razionalità” e, dall’altra parte, di “purificare la ragione” stessa.
          La correlazione originaria del logos con il pensiero e, in esso, con l’intelligenza e la ragione, non può farci dimenticare il nesso logos-parola, che richiama la tematica non solo del linguaggio, ma del verbo che in esso vive e si esprime. In tempi di crisi del linguaggio e della parola, può essere opportunamente rievocata una suggestiva espressione poetico-filosofica, che recita: “Un segno noi siamo, che nulla indica. Senza dolore noi siamo e quasi abbiamo smarrito la lingua in terra straniera” (F. Hölderlin). Ci troviamo di fronte ad una specie di esilio della parola in un mondo disorientato. L’evento della parola chiede sempre di nuovo di essere accolto e pensato, perché si possa intravedere un qualche barlume nella notte del mondo. In questa prospettiva un pensatore caro anche a Joseph Ratzinger come Ferdinand Ebner – il quale, prima che filosofo era maestro elementare e quindi viveva in prima persona la questione educativa - ha riproposto la dimensione spirituale del linguaggio. Il pensatore austriaco giunge alla ripresa della scomoda e certamente controcorrente dottrina dell’origine divina della parola: “La parola doveva ricevere la vita da Dio, poiché la vita non sarebbe di per sé in grado di trovare la strada per la parola, che nell’uomo ha creato e risveglia la vita dello spirito.
          Per capire questo ovviamente l’uomo ha bisogno di credere in Dio; e ciò significa in primo luogo: divenir cosciente nella fede del fondamento spirituale della propria esistenza e del proprio orientamento a un rapporto personale con tale fondamento. Dio è tale fondamento ed egli è anche il vero Tu del vero Io che è l’uomo” (F. Ebner, La parola e le realtà spirituali, Frammenti pneumatologici, san Paolo, Cinisello Balsamo 1998, 150). Riecheggia qui un messaggio che Antonio Rosmini riprende nella sua Teodicea. In ogni caso, si tratta del luogo originario di quella rivelazione primordiale, alla quale la nostra cultura accademica, sia teologica che filosofica, riserva scarso interesse, ma a cui la Dei Verbumfa certamente riferimento quando richiama il dialogo originario di Dio con l’umanità.
          La dimensione dell’intelligibilità del reale richiama l’istanza veritativa che ogni forma del sapere sottintende e sviluppa. Con incredibile assonanza rispetto al tema dell’ultima enciclica di papa Benedetto, Antonio Rosmini ha saputo sviluppare tale orizzonte profondamente veritativo in rapporto alla carità e quindi nella prospettiva di una “metafisica agapica” e “trinitaria”. Verità e Carità risultano inseparabili nella divina sapienza, che ci fa discepoli di Dio stesso. Se il primo termine esprime Dio nella persona del Verbo, 'la nuova parola Carità esprime il medesimo Dio nella persona dello Spirito. I testi giovannei offrono abbondante materia di riflessione a riguardo e Rosmini vi si appoggia costantemente: “Sono dunque due le parole in cui si compendia la scuola di Dio, reso maestro degli uomini, Verità e Carità; e queste due parole significano cose diverse, ma ciascuna comprende l'altra: in ciascuna è il tutto; ma nella verità è la carità come un'altra, e nella carità è la verità come un'altra: se ciascuna non avesse seco l'altra non sarebbe più dessa” (A. Rosmini, Introduzione alla filosofia, Città Nuova-CISR, Roma-Stresa 1979, 181).
          L'alterità reciproca di Verità e Carità dice l'alterità delle divine persone: Verbo e Spirito Santo. L'opera della sapienza cristiana non consiste che nella carità esercitata nella verità, perché l'uomo si faccia discepolo del Maestro divino interiore: “Se il Maestro di cui si tratta, è di una natura così diversa dall'umana, che egli ha la potestà di entrare e quasi assidersi nell'anima stessa del discepolo, e quinci, come un auriga dal cocchio, guidarne tutte le potenze, ed anzi di più, del suo proprio spirito animarle, e di conseguente, se la sapienza de' discepoli non è che la stessa sapienza divina partecipata, lo stesso maestro, che entrato in essi, ivi col loro consenso e colla loro adesione, inabita e li fa vivere di sé, quelle tre cose che noi toccavamo non hanno più alcuna difficoltà ad essere intese; cioè diventa chiarissimo, come all'imitazione di Cristo si riduca la sapienza soprannaturale degli altri uomini e come questa imitazione sia possibile, e possibile in una maravigliosa guisa, riscontrandosi una cotale identità di sapienza. Quale umano intelletto potea mai concepire una maniera così stupenda e così sublime d'effettuare quel precetto, che pure giunse a indicare la stessa filosofia: «Imita Dio!»?” (Ib., 181 s.).
          2.c. Infine, ma solo nella esposizione, la dimensione morale dell’essere, che chiama in causa l’attenzione alla vita e alla libertà. Qui si tocca l’apice dell’universo personale e la possibilità di tenere insieme l’ideale e il reale in un rapporto che metaforicamente potremmo definire sponsale. Senza l'ideale e il reale neppure il morale ha un senso, eppure esso è capace di catalizzare e polarizzare le altre due forme dell'essere. Tutto ciò che è o è persona o va finalizzato alla persona e nella persona si realizza la compresenza delle tre forme dell'essere. Ma la persona si costituisce secondo il proprio fine nell'esercizio della moralità, ossia della libertà orientata verso il bene, perché solo il bene fa bene nel senso che costruisce la persona nella linea dell’essere e del suo dover essere, mentre il male morale può soddisfare ma non fa bene. Si inserisce la tematica della carità in un discorso antropologico, metafisico e teologico, tutto orientato verso la persona. Non si dà persona senza le tre forme dell'essere (ecco l'equivalenza), ma la persona si realizza attraverso scelte morali orientate al bene oggettivo (ecco il primato). La volontà libera è il vertice della persona, il punto di Archimede su cui fa leva tutta l'antropologia rosminiana. La scelta agapica, nella misura in cui celebra l'incontro con la scelta fondamentale di Cristo e della sua pro-esistenza d’amore e di consegna, sia in rapporto al Padre che in rapporto a noi, realizza la persona secondo il progetto di Dio Creatore e Padre.
3. L’unità dell’educazione
          Se il nostro è il tempo della frammentazione e del disorientamento, emergenza educativa non può non significare ricerca dell’unità e capacità di orientamento. Già perfino nell’illuminismo tedesco, un pensatore al di sopra di ogni sospetto come G. E. Lessing aveva messo in campo l’idea secondo cui la Rivelazione rappresenta per l’umanità ciò che l’educazione esprime in rapporto ai singoli. In questo senso la Rivelazione è orientamento, quella “stella” che la Fides ed ratio indica come punto di riferimento imprescindibile in un contesto nomadico come quello attuale.
          L’epoca del disorientamento presenta come propria componente non marginale e non meramente epistemologica la frammentazione del senso e del sapere che in esso si produce. Come scrive la Fides et ratio: “E da osservare che uno dei dati più rilevanti della nostra condizione attuale consiste nella “crisi del senso”. I punti di vista, spesso di carattere scientifico, sulla vita e sul mondo si sono talmente moltiplicati che, di fatto, assistiamo all'affermarsi del fenomeno della frammentarietà del sapere. Proprio questo rende difficile e spesso vana la ricerca di un senso. Anzi - cosa anche più drammatica - in questo groviglio di dati e di fatti tra cui si vive e che sembrano costituire la trama stessa dell'esistenza, non pochi si chiedono se abbia ancora senso porsi una domanda sul senso. La pluralità delle teorie che si contendono la risposta, o i diversi modi di vedere e di interpretare il mondo e la vita dell'uomo, non fanno che acuire questo dubbio radicale, che facilmente sfocia in uno stato di scetticismo e di indifferenza o nelle diverse espressioni del nichilismo” (FeR, 81).
          In questo contesto di “disperazione epistemologica” e di dispersione antropologica, un messaggio particolarmente illuminante le tenebre della notte del mondo è quello che promana dall’espressione, che Franz Rosenzweig ha adottato come “punto di Archimede” della propria riflessione e Giovanni Paolo II ha incastonato nella Fides et ratio (n. 15): “La Rivelazione cristiana è la vera stella di orientamento per l'uomo che avanza tra i condizionamenti della mentalità immanentistica e le strettoie di una logica tecnocratica; è l'ultima possibilità che viene offerta da Dio per ritrovare in pienezza il progetto originario di amore, iniziato con la creazione. All'uomo desideroso di conoscere il vero, se ancora è capace di guardare oltre se stesso e di innalzare lo sguardo al di là dei propri progetti, è data la possibilità di recuperare il genuino rapporto con la sua vita, seguendo la strada della verità. Le parole del Deuteronomio bene si possono applicare a questa situazione: 'Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da te. Non è nel cielo perché tu dica: Chi salirà per noi in cielo per prendercelo e farcelo udire sì che lo possiamo eseguire? Non è di là dal mare, perché tu dica: Chi attraverserà per noi il mare per prendercelo e farcelo udire sì che lo possiamo eseguire? Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica' (30,11-14). A questo testo fa eco il famoso pensiero del santo filosofo e teologo Agostino: 'Noli foras ire, in te ipsum redi. In interiore homine habitat veritas'.
          Tornando alla formula della Rivelazione-orientamento va richiamata la necessità di cogliere il nesso inscindibile tra persona e verità che il “pensiero rivelativo” riconosce come costitutivo di un’autentica e liberante conoscenza. Tale legame è stato tematizzato dal pensiero contemporaneo in alcune sue figure rappresentative ed efficacemente esposto nelle pagine introduttive dell’importante volume di Luigi Pareyson intitolato, Verità e interpretazione: “quando la libertà cessa di reggere il vincolo originario di libertà e persona, tutto si trasforma. La verità dilegua, lasciando il pensiero vuoto e disancorato, e scompare anche la persona, ridotta a mera situazione storica. L’armonia fra dire, rivelare ed esprimere, si rompe, e tutti i rapporti ne risultano sconvolti e profondamente alterati. (…) senza verità, l’aspetto rivelativo della parola è puramente apparente e si riduce a una razionalità vuota e priva di contenuto; non più riferita alla persona nella sua apertura rivelativa, ma alla situazione nella sua mera temporalità, l’espressione diventa inconsapevole e occulta” (L.Pareyson, Verità e interpretazione, Mursia, Milano 1982, 19).
          Il compito educativo e l’azione pedagogica è possibile solo nella misura in cui la ricerca del vero, del bene e del bello è vissuta in un rapporto interpersonale e dialogico per il quale non sarà mai vano ripetere il monito rosminiano col quale concludiamo questa nostra riflessione: “Solo de’ grandi uomini possono formare altri grandi uomini” (A. Rosmini, Delle cinque piaghe della Santa Chiesa, a cura di N. Galantino, San Paolo, Cinisello Balsamo 1997, n.27, p.48; n.34, p.160).
card. Angelo Bagnasco
Versione app: 3.25.3 (26fb019)