Lettera Natalizia del Vescovo di Novara.Arriviamo al Natale avendo in mano un'enciclica dedicata, dalla prima all'ultima pagina, alla speranza. A questa speranza si dà anche un nome: Gesù. Già l'apostolo Paolo, scrivendo al suo discepolo Timoteo, chiamava Gesù con il nome di 'speranza'...
del 19 dicembre 2007
Miei cari,
arriviamo al Natale avendo in mano un’enciclica dedicata, dalla prima all’ultima pagina, alla speranza. A questa speranza si dà anche un nome: Gesù. Già l’apostolo Paolo, scrivendo al suo discepolo Timoteo, chiamava Gesù con il nome di “speranza”. Se il Papa ha scritto questa lettera enciclica, un motivo sta certamente anche nel fatto che ben poca speranza sembra permeare la nostra cultura, e dunque la vita delle persone. Egli porta al centro della scena un tema che – scrive F. G. Brambilla – essersi dileguato dalla riflessione civile e dalla coscienza comune. La liturgia del tempo di Avvento va in controtendenza perché è tutta attraversata dalla speranza. Il Natale stesso è mistero di speranza che si compie. Dio infatti viene in mezzo a noi, condivide tutta la nostra vita, così che tutta la nostra vita venga salvata. Non è il nulla ciò che ci attende, ma una comunione di vita. Questa è la nostra vocazione! Il Signore stesso se ne fa garante. E chi altro, al di fuori di lui, potrebbe esserlo?
 
Trovo molto stimolante che nelle domeniche di Avvento ci vengano proposte pagine del profeta Isaia, tutte ricolme di speranza per la vita dell’uomo, con un accento speciale sul cammino dei popoli. Ne cito qualcuna. “Verranno molti popoli e diranno:  Venite, saliamo al monte del Signore”. Il monte è Gerusalemme. Si dice che da lì “uscirà la parola del Signore”, il quale “sarà arbitro fra molti popoli”. Il frutto di questo arbitrato è meraviglioso: “Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci”. Avverrà dunque che “un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, né si eserciteranno più nell’arte della guerra”.
Si rimane meravigliati di fronte a questo annuncio. Sembra un sogno. Poteva sembrarlo ai tempi di Isaia, diversi secoli prima di Cristo, e può sembrare tale anche a noi, oggi. Siamo infatti spesso schiacciati da immagini non solo diverse, ma trucemente contrarie a questa visione. Eppure questa profezia di pace tra i popoli è un sogno necessario. Ed è significativo che sia già presente nell’Antico Testamento, per esempio là dove si ricordano dei popoli che ancora oggi sono travagliati da forti tensioni: “In quel giorno vi sarà una strada dall’Egitto verso la Siria; l’assiro andrà in Egitto e l’egiziano in Assiria; gli egiziani serviranno il Signore insieme agli assiri; Israele, il terzo con l’Egitto e l’Assiria, sarà una benedizione in mezzo alla terra. Vi benedirà il Signore degli eserciti: Benedetto sia l’Egiziano, mio popolo; l’assiro, opera delle mie mani, e Israele, mia eredità”. Un punto soprattutto colpisce: l’affermazione dell’amore di Dio per tutti i popoli, e non solo per Israele. L’orizzonte scrutato dal profeta è universale. La liturgia assume questa pagina e la fa propria perché Gesù, Verbo di Dio che si fa uomo, è Colui nel quale la profezia può diventare realtà.
A questa profezia di pace si aggiunge una profezia di giustizia. Il tono non cambia e l’attualità del messaggio non è minore. Si legge: “Un germoglio spunterà dal tronco di Jesse. Su di lui si poserà lo Spirito del Signore. Non giudicherà secondo le apparenze, ma giudicherà con giustizia i poveri e prenderà decisioni eque per gli oppressi del paese”. Se nel testo precedente stava in evidenza la pace, qui lo è una premessa assolutamente necessaria perché la pace vi sia, cioè la giustizia, soprattutto nei confronti dei più deboli che non hanno la possibilità di far riconoscere la loro dignità e di far valere i loro diritti. È giusto dunque che, a commento di questo testo, la liturgia faccia emergere le parole del Salmo 71 e che l’assemblea liturgica venga invitata a pregare dicendo: “Vieni, Signore, re di giustizia e di pace”.
 
Mi trovo spontaneamente a pensare al cantico del “Magnificat” che il Vangelo secondo Luca colloca tra l’annuncio dell’angelo Gabriele e la nascita di Gesù. Lo accompagna un altro cantico, non dissimile, quello del “Benedictus”. Entrambi sono canti di speranza, sviluppati – soprattutto nel “Magnificat” – senza nascondere i problemi, e anzi evocandoli apertamente. Essi sono animati dalla certezza che nel Signore possiamo trovare una fonte di luce e di energia per vincere con il bene il male. Maria dice che il Signore Dio “ha spiegato la potenza del suo braccio; ha disperso i superbi nei pensieri dei loro cuori; ha rovesciato i potenti dai troni; ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote”.
Antonio Rosmini, nel suo commento, si domanda chi è il “braccio di Dio”. E risponde che è “il Figlio perché, come il braccio procede dal corpo, così il Figlio dal Padre. Maria, dunque, glorifica il Padre, a cui appartiene la potenza, nel Figlio. Egli è quasi strumento del Padre per adempiere le grandi cose che egli aveva designato di fare sulla terra in favore degli uomini”. Si chiede pure quale sia il significato delle altre parole del Magnificat e risponde dicendo che “la superbia dei falsi sapienti - che sono dei ciechi che conducono altri ciechi e vengono «dispersi nei pensieri del loro cuore»” - è sostituita dalla sapienza divina, tutta in favore delle nazioni attraverso “la legge della mansuetudine e della fratellanza predicata dal Salvatore”. E inoltre che “la prepotenza dei forti, i quali crudelmente dominano e straziano i deboli”, vede “la carità evangelica prendersi a cuore tutti i poveri e gli infelici”. E infine, “la dissolutezza e la cupidigia dell’avere”, da parte di coloro che pensano solo a se stessi, è sostituita dalla “umanità e carità universale”. “Ecco l’opera del Vangelo”,  conclude il Rosmini, “ecco la riforma del mondo”. Quest’opera è già stata cominciata da secoli, ma non è certo giunta alla sua perfezione. L’accoglienza del Vangelo nel cuore e nella vita diventa lievito di rinnovamento della società umana e motivo di speranza per ogni uomo.
 
Nella sua enciclica Benedetto XVI ricorda alcuni testimoni della speranza. Tra di essi vi è una ragazza africana del secolo XIX. Si chiamava Bakhita. Era nata nel Sudan, più precisamente nel Darfur, terra di grandi dolori e di disperazione anche oggi. All’età di nove anni fu rapita dai trafficanti di schiavi, picchiata a sangue e venduta cinque volte sui mercati del Sudan. Le rimasero per tutta la vita 144 cicatrici di fustigazioni sino al sangue. Venne poi comprata da un mercante italiano, Callisto Legnani, che la portò in Italia.
Qui venne a conoscere, dopo tanti padroni terribili, un Signore del tutto diverso: il Dio vivente, il Dio di Gesù Cristo. Veniva a sapere che il Signore conosceva anche lei, e anzi l’amava e l’attendeva. Veniva a conoscere che questo Signore era stato lui stesso picchiato e ora l’aspettava “alla destra di Dio Padre”. Fu allora che germogliò nel cuore di Bakhita una speranza: non semplicemente quella di poter stare con padroni meno crudeli di quelli precedenti, bensì una grande speranza, scoperta nel Signore Gesù: “Io sono amata e, qualunque cosa mi accada, io sono attesa da questo Amore. E così la mia vita è buona”.
Non si sentiva più schiava, ma libera figlia di Dio. A circa vent’anni venne battezzata. Più avanti volle consacrarsi totalmente al Signore nella comunità delle Suore Canossiane. Spese la sua vita con spirito missionario nei compiti umili di ogni giorno e percorrendo l’Italia per alimentare l’ardore missionario. Voleva che la liberazione da lei sperimentata mediante l’incontro con Dio svelato da Gesù diventasse realtà per il maggior numero di persone possibile. La speranza, che era nata in lei, doveva raggiungere molti; anzi, doveva raggiungere tutti.
 
Lascio a questa ragazza africana di esprimere un augurio di speranza a tutti voi. Il Signore, che ha cambiato la sua vita, è capace di cambiare anche la nostra e di seminare nel nostro cuore il germe di una speranza che non delude.
Buon Natale a tutti
 
Novara, 17 dicembre 2007
 
  
 
 
 
 
 
 
mons. Renato Corti
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