Poco meno di ventotto anni di vita, ma la breve esperienza umana di Benedetta Bianchi Porro rappresenta una delle più luminose testimonianze di fede del nostro tempo. "Io penso che cosa meravigliosa è la vita anche nei suoi aspetti più terribili; e la mia anima è piena di gratitudine e di amore verso Dio per questo."
Poco meno di ventotto anni di vita, ma la breve esperienza umana di Benedetta Bianchi Porro rappresenta una delle più luminose testimonianze di fede del nostro tempo.
Benedetta nasce a Dovadola, piccolo paese in provincia di Forlì, dall'ingegner Guido Bianchi Porro e da Elsa Giammarchi, l'8 agosto 1936. E' la seconda di sei figli. Colpita a pochi mesi da poliomielite, resta con una gambina menomata. I ragazzetti del paese la chiamano "la zoppetta", ma lei non se ne offende: "dicono la verità ".
Allo scoppio della II guerra mondiale la sua famiglia sfolla a Casticciano, presso Bertinoro.
Nel 1944, quando la linea gotica viene travolta dall'avanzata anglo-americana, la Romagna è percorsa dalle truppe tedesche in ritirata. Ma della guerra vi è solo un bagliore riflesso nei diari che la bimba tiene diligentemente aggiornati, fin dai cinque anni, per volontà materna. Si tratta di notazioni rapide, naturalmente rapportate alla sua età, che riguardano più spesso la famiglia, la natura, i giochi, il primo confuso sbocciare dei sentimenti.
Benedetta è una bimba sensibile e delicata, intelligente e volitiva. Gioca festosamente coi fratellini e con gli altri bambini, ma talora si ritrae in pensosi silenzi: sono i momenti in cui Benedetta guarda stupita il miracolo della vita che trionfa in tutte le cose, nei fiori, nei prati pieni di sole, nella sua piantina di ciliegio che innaffia quotidianamente, nell'aurora meravigliosa. Allora confida al suo diario la gioia delle sue scoperte. "C'è l'universo incantevole. Che bello vivere!" Corre a vedere la mietitura del grano, si ferma incantata ad ascoltare il canto degli agricoltori, si confonde nelle aie dei contadini con gli altri bimbi, poi sale sul cipresso: "lassù fra i suoi rami ho formato la mia casina".
Il ritorno alla pace rappresenta per la bimba di nove anni solo un'allegra avventura in più: il trasloco a Forlì dove, eccettuato un breve soggiorno a Brescia, ospite della famiglia Rabotti, Benedetta rimarrà fino al '51.
La vita riprende tranquilla, in compagnia dei genitori e dei fratellini. Ha saltato una classe e studia dalle suore Dorotee. Sono anni sereni quelli trascorsi in Romagna; vita di provincia: le festicciole di compleanno, un po' di catechismo, le lezioni di pianoforte, il vestito bello la domenica.
"Ti ricordi, Manuela, come eravamo felici quando alla domenica la mamma ci portava a San Mercuriale e tutti volevamo stare attaccati a lei, come eravamo felici allora! E non sapevamo di esserlo".
Frequenta a Forlì la scuola media "Biondo Flavio" e il ginnasio. Nel '51 la famiglia Bianchi Porro si trasferisce a Sirmione del Garda. Benedetta parla con entusiasmo della sua villa affacciata sul lago: "bianca, dalle persiane verdi, un terrazzo di legno sul davanti, cancello piccolo a lato le camere ampie e spaziose danno un senso di libertà...". Sirmione e' bella, e alla ragazzina piace vivere nella sua villa tra gli ulivi, così come le piacciono le discussioni coi fratelli, la politica, lo sport, le lunghe nuotate nel lago, le voci, le risa, le barche, la gente, le cose.
Benedetta si appassiona a tutto; le piace molto studiare e trascorre ore al piano. Ma la sua ardente gioia di vivere ha un'ombra di tristezza, un presagio ineffabile, un nascosto tremore: "guardando questo spettacolo il mio animo è preso da ricordi, e da un terribile bisogno di indefinito, di lontano, di silenzio. Un bisogno di essere fuori dal mondo, lontana da tutti, e un bisogno di qualcuno cui confidare i dolori della mia vita; di uno, insomma, che mi consoli. Basta, per confortarmi, alzare il pensiero a Dio".
Per evitare la malformazione alla schiena deve portare un busto che l’opprime e la condiziona.
Comincia inoltre ad accusare una perdita dell’udito. Di giorno in giorno cresce l’inquietudine del suo spirito. Assetata d’amore, comunica ad Anna, la più cara amica dell’adolescenza, i suoi più profondi e delicati sentimenti. "Tu sei la mia prima amica e amica per me vuol dire qualcosa di più di quel che gli altri intendono. L’amica deve essere qualcosa di noi stessi e tu sei per me la metà dell’anima mia, l’acqua in cui io mi specchio".
Quando per la lontananza non può godere della sua rasserenante presenza, Benedetta avverte ancora di più la solitudine interiore. La sordità avanza. Si spegne il sussurro delle cose, la festa della vita: "... il cielo è grigio e nebbioso e le cose sono annoiate e piangono invece di ridere per la mia anima".
Le si apre una vita nuda d’amore: quanti desideri e speranze destinati a morire! Rimpianto, smarrimento, angoscia. La prova si fa sempre più dura. Benedetta trema: "... temo che tutto sia illusione e l’illusione mi fa tremare più della disperazione".
Ad Anna, ancor più che alle pagine del suo diario, confida il tumulto del suo spirito. "Anch’io sono assetata di pace e desidero abbandonare le onde del mare e rifugiarmi nella quiete di un porto. Ma la mia barca è fragile, le mie vele sono squarciate dal fulmine, i remi spezzati e la corrente mi trascina lontano".
Benedetta conosce il gelo dello scetticismo, l’allucinante paura del vuoto e invoca aiuto: "Sapessi, Anna, come ho bisogno del tuo aiuto. Desidero la verità, non desidero che questo, ma nessuno ne sa nulla".
Ma quella Verità che lei cercava comincia a farsi sentire nella voce della sua anima. La tempesta a poco a poco si placa. In questa drammatica esperienza umana si prepara la sua risurrezione. Benedetta scopre dentro di se' la ricchezza della vita interiore.
È in seconda liceo, al "Bagatta" di Desenzano quando annota nel diario: "Sono stata interrogata in latino; ogni tanto non capivo quello che il professore mi chiedeva. Che figura devo fare ogni tanto, ma cosa importa? Un giorno forse non capirò niente di quello che gli altri dicono, ma sentirò sempre la voce dell’anima mia: e questa è la vera via che devo seguire".
Benedetta opera la scelta di una vita che trova il suo senso e la sua giustificazione nei valori dello spirito.
Autunno 1953. Dopo aver saltato la III liceo si iscrive all'Università di Milano; ha 17 anni. Il padre le suggerisce l'idea di laurearsi in Fisica e Benedetta, per compiacerlo, acconsente. Ma ben presto s'avvede di non essere fatta per quel genere di studi e passa a Medicina. "Affrontai il nuovo studio con ardore. Avevo sempre sognato di diventare medico. Voglio vivere, lottare, sacrificarmi per tutti gli uomini". La sordità è quasi totale. Benedetta è costretta a farsi accompagnare dalla giovane amica Anna perché' risponda in sua vece all'appello.
Completamente sorda e costretta a far uso del bastone per una insorta difficoltà motoria, si appresta a diventare medico. Le difficoltà sono enormi ma è decisa a resistere con tutte le sue forze per guarire e per riuscire: "Mi basterebbe di arrivare ad esercitare, anche come l’ultimo dei medici..."
1955: esame fondamentale del primo biennio. Benedetta attende trepidante che il professore le rivolga per iscritto le domande che non può più udire, ma il libretto universitario vola contro la porta. Nell’aula c’è chi ride.
Il professore grida: "Non si è mai visto un medico sordo!"
Benedetta, in silenzio, con le lacrime agli occhi, si alza, raccoglie il libretto e avvicinandosi al docente gli dice in tono pacato: "Scusi, professore, non volevo offenderLa". Alla mamma che le chiede l'esito dell'esame, Benedetta risponde: "Il professore è stato buono perché' non mi ha rovinato il libretto". Per intervento del Rettore l'esame viene ridato; l'esito è positivo e provvisoriamente le è concesso di proseguire gli studi.
Natale 1956: si manifestano i primi, chiari, gravi sintomi di una malattia di cui, evidentemente, la sordità è solo una manifestazione. Dopo numerosi consulti, risultati peraltro vani a definire il genere della malattia, Benedetta riesce da sola a diagnosticare il suo terribile male: neurofibromatosi diffusa.
27 giugno 1957: viene operata, per la prima volta, alla testa. Le radono il capo. Forse Benedetta, in quel momento, rivide uno scorcio della sua infanzia: il contadino, chiamato Natale, che in un piovoso giorno di settembre tagliava la lana ad una pecora mentre la nebbia saliva fino a ricoprire il piccolo paese di Bertinoro: "Mentre mi tagliavano i capelli, mi sentivo come un agnello cui tagliano la lana e pregavo il Signore che mi facesse forte e piccola. Il Signore, mamma, vuole da noi grandi cose. Ho sofferto tanto e ho domandato al Signore di essere una pecorella nelle sue mani".
Accenna a questa operazione in una lettera a Maria Grazia, amica carissima: "In occasione dell’operazione mi tagliarono i capelli a zero ed ora la mia testa assomiglia molto ad una spazzola per abiti... Ti confesso che a volte mi sento terribilmente depressa... Inoltre in seguito all'intervento, mi si è paralizzato il facciale sinistro, sono semiparalizzata al viso; devo fare una plastica, ahimè! In tanto in attesa di tempi migliori (ma verranno?) sono costretta a interrompere gli studi: cosa mi costi, lo sa il cielo! Beh, pazienza, l’importante è conservare la serenità".
E' tale la sua forza di volontà che l’anno successivo, in autunno, riesce a sostenere con esito positivo gli esami di patologia medica e patologia chirurgica. Eppure "sapeva", tanto che un giorno, tornando vittoriosa ma disfatta da un esame, confida alla madre: "Si, mamma, anche questo è andato bene, ma a che serve?... tra poco...". Dopo breve, infatti, la neurofibromatosi si sarebbe manifestata in tutta la tragicità del suo rarissimo quadro.
29 giugno 1959: Benedetta sostiene, con esito negativo, l'ultimo esame (Igiene). Non drammatizza neppure questo: "...il professore è un pignolo che parte in curva per niente... beh, lo ridarò !".
7 agosto: viene operata al midollo spinale. Da questo momento rimarrà totalmente paralizzata agli arti inferiori, costretta dapprima su di una poltrona, poi a letto per oltre quattro anni. A poco a poco perde il gusto, il tatto, l’odorato.
In questi anni dolorosi Maria Grazia le è accanto, sempre; silenziosamente l'aiuta. Benedetta le confida le sue fatiche di ogni giorno e la gioia segreta di certi istanti: "ho molte tentazioni sempre e tu prega per me. Se dirò delle cose a vuoto, domandaGli per me di farmi tacere. Mi accade di trovarmi a volte a terra, sotto il peso di una croce pesante. Allora Lo chiamo con amore, ai suoi piedi e Lui dolcemente mi fa posare la testa sul suo grembo. Capisci, Maria Grazia? Conosci tu la dolcezza di questi istanti?"
Tramite Maria Grazia, Nicoletta entra nella sfera degli amici di Benedetta e le sarà di grande aiuto spirituale.
Tanti altri amici approderanno a questa riva in una pienezza di comunione che farà della sua stanza un "crocevia di vite". "Si andava in compagnia a trovarla. Il suo non era più un letto; al di là di ogni evidenza Benedetta ci faceva dimenticare di essere presso una persona ammalata. Tutto il giorno, a turno, comunicavamo con lei; c'erano momenti in cui si rideva, sì, si cantava insieme, si recitava nona e vespro". (Dalla testimonianza di Paola). Gli amici le sono accanto nella sua grande spirituale avventura. Benedetta li ama tutti teneramente, profondamente, e insieme formano una cosa sola. Quando non possono andare a trovarla, giungono a lei, come un dono divino, le loro lettere.
"Cara Nicoletta, grazie della tua lettera. Mentre me la leggevano io pensavo mi fosse giunta una grazia e che tale gioia mi fosse scesa dal cielo... Dice S. Agostino. Ti ho gustato ed ora ho fame e sete di te; mi hai toccato ed ora ardo dal desiderio della tua pace".
Di questa sete e di questa fame sono brucianti le lettere che faticosamente Benedetta scrive agli amici e ai familiari: "... quanto a me, faccio la vita di sempre, pure a me sembra così completa... è però vero che la vita in se' e per se' mi sembra un miracolo, e vorrei poter innalzare un inno di lode a Chi me l’ha data ... Certe volte mi chiedo se non sia io una di quelle cui molto è stato dato e molto sarà chiesto..."
Nel maggio del '62 Benedetta parte, la prima volta, per Lourdes, col treno-ospedale dell’Unitalsi. E' grande il suo abbandono in Dio, anche se ha ancora un progetto tutto suo: "Desidero guarire per farmi suora. Ho fatto voto".. Al ritorno scrive: "Sono andata a chiedere la guarigione, ma il criterio di Dio supera il nostro ed Egli agisce sempre per il nostro bene".
Accanto a lei, davanti alla Grotta, una giovane donna paralizzata giace in barella: è Maria D.B. Si dispera e piange. Benedetta la consola, poi le prende una mano e la stringe fra le sue, congiunte come in un’unica preghiera: "La Madonnina è lì, la Madonna ti guarda. Maria! Diglielo alla Madonnina che ti aiuti", e si raccoglie in un profondo silenzio. Di lì a poco si vede Maria scendere dalla barella e camminare. Al ritorno Benedetta scrive: "Nel nostro pellegrinaggio abbiamo avuto una miracolata: che emozione e che gioia! La misericordia di Dio è senza limiti".
Benedetta riprende il suo faticoso salire, nella spoliazione sempre più grande di se': "...a Lourdes avevo una forte aridità, ma ne sono tornata con tanta fede e umiltà. Ci vuole umiltà, cioè riconoscersi poveri, per chiedere e per riconoscere la verità..."
27 febbraio 1963. Clinica Città di Milano. Benedetta viene operata alla testa, per l’ultima volta. Ha paura. Maria Grazia le scrive le parole di Bernanos dal Diario di un curato di campagna, modificando lievemente il testo perché' non comprenda che il curato allude alla propria morte: "Se avrò paura, dirò senza vergogna - Ho paura - e il Signore saprà rassicurarmi". Benedetta legge, e ripete queste parole a mezza voce, in completo abbandono, e ringrazia l’amica con straordinaria dolcezza.
28 febbraio 1963. E' il giorno più tragico e forse il più grande nella vita di Benedetta. Diventa cieca. Il viaggio nel mistero di Dio è ormai compiuto. Seguono ore disperate: "...stava molto male; respirare le era penoso. Si agitava mentre le applicavano le fleboclisi, dolorose, nelle vene del dorso della mano sinistra. Usando l'altra sua mano, che le avevano lasciata libera, si cercava di "parlarle" per spiegarle di stare ferma. Con disperazione tentavamo, per la prima volta, di provare a "parlare" a lei, sorda e cieca, con l’alfabeto muto che conosceva, atteggiando le dita della sua mano a formare le singole lettere convenzionali. Ma non era ancora abituata a questo esercizio di eroica pazienza. Era disperata e ci respinse. Poi, quasi d’improvviso, l'invade una gran pace. La cecità, che fino al giorno prima era per lei un’ipotesi terrorizzante, ora è una realtà, un fatto, e Benedetta l’accetta, come espressione della volontà di Dio".. (dalla testimonianza di M. Grazia)
Sorda, totalmente paralizzata, cieca, Benedetta comunica con gli altri attraverso quel fil di voce che le è rimasto e gli altri le "parlano" piegando le dita della sua mano destra e premendogliele sul corpo e sul volto secondo un alfabeto muto convenzionale. In questo modo le vengono trasmesse le lettere degli amici, le pagine dei libri, le notizie del mondo, i pensieri di tutti. Una mano e un fil di voce, unici ponti col mondo.
Una difficile serenità si riflette nelle lettere che Benedetta detta alla mamma per gli amici: A Franci: "... Nella tristezza della mia sordità, e nella più buia delle mie solitudini, ho cercato con la volontà di essere serena per far fiorire il mio dolore; e cerco con la volontà umile di riuscire ad essere come Lui vuole: piccola, piccola, come mi sento sinceramente quando riesco a vedere la Sua interminabile grandezza nella notte buia dei miei faticosi giorni".
Intanto, sopraggiunta l'estate, Benedetta viene trasportata a Lourdes, per il suo secondo ed estremo pellegrinaggio: "...vado ad attingere forza dalla Mamma celeste, poiché' non so abituarmi come vorrei a vivere felicemente nel buio, nell’attesa di una luce più viva e più calda del sole".
Il miracolo di Lourdes, è la scoperta della sua autentica vocazione alla croce: "...ed io mi sono accorta più che mai della ricchezza del mio stato e non desidero altro che conservarlo. E' stato questo per me il miracolo di Lourdes, quest’anno".
Chiusa in un deserto sconfinato, Benedetta canta la gioia di vivere e ringrazia senza fine il Signore per il meraviglioso dono della vita.
Spesso ripete questo canto negro:
A volte mi sento come un bimbo senza mamma a volte mi sento come un’aquila nell'aria. Una mattina luminosa e bella deporrò il mio fardello, distenderò le ali e fenderò l’aria, potrete seppellirmi all’est potrete seppellirmi all’ovest ma quella mattina gli angeli apriranno le grandi ali e io udrò le sante trombe suonare.
Poi venne l’ultima estate. Le voci del lago, lo splendore e il profumo dei fiori sono ormai l'eco d'un sogno. Nel paesaggio di tenebra, Benedetta ricerca il suo Dio: "...i giorni passano nell'attesa di Lui che io amo nell'aria, nel sole che non vedo più, ma che sento ugualmente nel suo calore quando entra attraverso la finestra a scaldarmi le mani, nella pioggia che scende dal cielo a lavare la terra..."
Il 1 Novembre ‘63 l’amica Giuliana, di ritorno dalla processione al cimitero, sente di dover passare da Benedetta che, appena sa della sua presenza, si mostra ansiosa di comunicare: "Ti devo dire una cosa importante:... sono entrata in un cimitero di Romagna, c'era una sola tomba aperta, illuminata da una luce tanto forte che la mia vista non riusciva a sostenerla e in mezzo a questa luce ho visto una rosa bianca. Tu cosa ne dici?" A Giuliana che esitava a rispondere, Benedetta soggiunse: "Non parlarne con nessuno."
Il racconto è seguito anche dalla sorellina Carmen, presente a insaputa di Benedetta.
Si avvicina l'ultimo suo Natale, "e Benedetta diceva di pregare perché' in quella notte la pace scendesse sul mondo e diceva che lei aveva chiesto una grande grazia al Signore, di farla rinascere in quella notte con Lui. Io le portai un crocifisso. Benedetta volle toccarlo, poi disse - Anch'io così, ma sempre in letizia" (dalla testimonianza di Giuliana).
Già da tempo Benedetta si preparava al suo mistico Natale: "Adesso io cammino per la strada che conduce a Betlemme: alla stalla dove il Bimbo nasce, mistero di amore e di dolore."
A fine anno i suoi la trasportano a Milano, è l’ultimo addio agli amici che l’attendono: "Mi sembra di essere desiderata e contesa: che ridere, Maria Grazia!"
La realtà di questo avvento, della nascita di Cristo in lei, era anticipata nella lettera a padre Gabriele del luglio '63: " Nelle prove mi raccomando alla Madre che ha vissuto prove e durezze le più forti, perché' riesca a scuotermi e a generare dentro il mio cuore il suo figlio così vivo e vero come lo è stato per Lei."
A Capodanno Benedetta deve lasciare Milano: di ritorno a Sirmione trova il telegramma di Roberto. La mamma glielo "trasmette" come al solito, attraverso la mano: "Congregavit nos in unum Christi amor. Exultemus".
Queste parole la fanno trasalire di gioia e volgendosi alla mamma: "...Leggi adagio, mamma, la gioia è troppo grande, è la Chiesa che mi parla."
Poi sembra che perfino la Chiesa taccia, mentre Benedetta si avvia al suo Getsemani di solitudine: "Sai, mamma, per molti Benedetta è già morta. Eppure molti mi ricorderanno; rimpiangeranno di non essermi stati accanto in quest’ora. La fine è vicina, ma non dovrai mai sentirti sola, mamma; ti lascio tanti figli, tanti figli da guardare".
Benedetta sente avvicinarsi il momento dell'Incontro. "In questi ultimissimi giorni sono peggiorata di salute; spero, perciò, che la "chiamata" non si faccia attendere troppo... ti dirò che ho già sentito la voce dello Sposo. Sono lenta nelle preghiere, ma offro tutto, così come sono: Lui, che è generato in me, voglia guidarmi fino in fondo". "Ti dirò anche che in questi giorni mi sento spesso piena di Spirito Santo".
Sirmione, mattino 23 gennaio 1964, giorno dello sposalizio della Vergine. Benedetta chiede alla madre di "leggerle" la pagina conclusiva, ove è l’atto di offerta, de La storia di un’anima di S. Teresa di Lisieux. La madre le è accanto e per parlarle le muove lentamente la mano perché Benedetta appare molto stanca. Un uccellino si posa sulla finestra; la mamma lo comunica a Benedetta che, priva da vari mesi anche della voce ridotta a penoso balbettio, intona una vecchia canzone: "Rondinella pellegrina". La sua voce limpida e nuova stupisce i presenti. Emilia, l’infermiera, piena di commozione esclama: "Signora, non sente, questa è una voce che viene dal cielo. Benedetta muore!". Sono gli ultimi istanti della sua vita terrena.
Una rosa bianca fiorisce fuori stagione nel giardino. Nell'apprenderlo dalla madre, Benedetta le dice, forse ricordando la visione comunicata all'amica Giuliana: "E' un dolce segno". Aveva tante volte ripetuto: "Per coloro che credono, tutto è segno".
Poi chiede alla mamma di "trasmetterle" l'ultima lettera di Lucio che, citando S. Paolo, le parla del trionfo della croce. Ricorda anche lo studente di medicina che in un'amara lettera pubblicata su "Epoca" si professava incapace di amare e perciò di credere: "Mamma,...Epoca ... muoio ... digli ... gli voglio bene". E in un sussurro appena percettibile: "... Mamma... ricordi la leggenda?...".La madre non capisce e tace pensosa. Solo alcuni giorni dopo le tornerà alla mente la leggenda di Tagore: " Il mendicante e il re".
"Ero andato mendicando di uscio in uscio lungo il sentiero del villaggio, quando, nella lontananza, apparve il tuo aureo cocchio come un segno meraviglioso; io mi domandai: Chi sarà questo Re di tutti i re? Crebbero le mie speranze e pensai che i miei giorni tristi sarebbero finiti; stetti ad attendere che l’elemosina mi fosse data senza che la chiedessi, e che le ricchezze venissero sparse ovunque nella polvere. Il cocchio mi si fermò accanto. Il tuo sguardo cadde su di me e scendesti con un sorriso. Sentivo che era giunto alfine il momento supremo della mia vita. Ma Tu, ad un tratto, mi stendesti la mano dritta dicendomi: - Cosa hai da darmi?- Ah!, qual gesto regale fu quello di stendere la tua palma per chiedere a un povero! Confuso ed esitante tirai fuori lentamente dalla mia bisaccia un acino di grano e te lo diedi. Ma qual non fu la mia sorpresa quando, sul finir del giorno, vuotai per terra la mia bisaccia e trovai nello scarso mucchietto un granellino d’oro! Piansi amaramente di non aver avuto il cuore di darti tutto quello che possedevo".
Benedetta aveva dato tutto.
L'ultima sua parola fu "Grazie".
Questo è il segno profondo della santità di Benedetta: non solo aver sopportato pazientemente la sua croce, ma averla abbracciata con amore, lasciandosi trasfigurare dalla carità di Cristo. Così ha saputo vedere tutto con occhi nuovi, candidi e luminosi. Così tutto è diventato per lei grazia e speranza, gioia e ringraziamento.
Rabindranath Tagore
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