Stiamo per descrivere un vizio tipico di questi tempi, del quale ben pochi possono dirsi esenti. Il buonismo è un vero e proprio virus che si manifesta in forme più o meno acute e del quale tantissimi sono i portatori sani.
          Buonisti sono sempre e solo gli altri. Il buonismo è un vizio la cui ammissione è un tabù, pena l’emarginazione e la derisione. Se da un lato l’inclinazione al cinismo (che del buonismo, in fin dei conti, è il rovescio della medaglia) incute sempre una sottile ammirazione, quasi un timore reverenziale, il buonista sarà sempre e solo una buffa e patetica macchietta, incline alla retorica dell’accondiscendenza, del sorriso facile, dei buoni sentimenti, del compromesso inteso soltanto nella sua accezione nobile.
          Ciononostante il buonismo è la vera malattia morale di questo secolo perché si ricollega alla decadenza dei tempi attuali, a quella paralisi della volontà, quell’inettitudine borghese che, all’inizio del secolo scorso, stimolò la riflessione di giganti della narrativa come Kafka, Musil e Svevo.
          Il buonismo è la declinazione nazional-popolare del “pensiero debole”, del politically correct anglosassone, del relativismo teoretico e morale. Il buonista è un uomo tarato da una pugnace ossessione per gli altri, per tutto ciò che è altro in senso sia personale che ideale, sia concreto che astratto. Da un lato è convinto che l’erba del vicino sia sempre più verde, dall’altro, poiché gli è stato insegnato che l’invidia è un difetto, deve ostentare ammirazione per quel vicino. Non è un uomo sicuro di sé, affatto: nasconde dietro sorrisi, i suoi assillanti sensi di colpa, è terrorizzato dall’idea di non essere apprezzato.
          Il buonista è continuamente alla ricerca di mediazioni e, non credendo nell’esistenza di una Verità ultima, dovrà adeguarsi alle tante verità contingenti che individua intorno a sé. Anche a livello mentale è fondamentalmente un pigro e parla per slogan, per luoghi comuni, per “sentito dire”, non è incline alla riflessione profonda, né alla messa in discussione delle sue piccole certezze quotidiane. Un po’ come il dottor Adattati, protagonista del racconto Un uomo tranquillo di Stefano Benni, che ha “una sola idea chiara, irrinunciabile, trainante: non avere idee”. All’arrivo del nuovo capoufficio Adattati va nel panico, al pensiero di dover rinunciare alle abitudini e ai discorsi del precedente dirigente (“una vaga misoginia con sospette fantasie lolitiche, il gusto della citazione latina, la pipa, le scarpe inglesi, la squadra del Deportivo, l’attore B., il conducatore televisivo T., le barzellette un po’ spinte, i temperini a ghigliottina, la sfiducia nei medici e i discorsi sull’ulcera”) cui si era camaleonticamente adeguato.
          Il buonista manifesta spesso sentimenti o ideali umanitari, tuttavia lo fa soprattutto per dare una buona immagine di sé. Non ha una vera consapevolezza degli effetti delle proprie azioni: il vecchio aforisma “Di buone intenzioni è lastricata la via dell’inferno” (Samuel Johnson) gli è del tutto estraneo. La qualità indiscussa del buonista è quella di non adirarsi quasi mai, eppure qualora gli capiti di essere sbugiardato, è facile vederlo in preda al panico o all’isteria, oppure rimanere silente e attonito. La sua etica non è mai fondata su Verità oggettive, quanto sullo spirito dei tempi, al quale tende ad attenersi in modo maniacale e quasi dogmatico, e in nome del quale sa ergersi, quando vuole, a severo censore e fustigatore di costumi. È forte coi deboli e debole coi forti.
          Il buonista, spesso e volentieri, è un candido, una sorte di ‘utile idiota’ a volte dotato di un discreto carisma che i più spregiudicati sono abili a strumentalizzare. Non mancano quindi i casi in cui il buonista è un vero e proprio lupo travestito da agnello, un freddo calcolatore che, studiando nel dettaglio i tic e gli stereotipi dei “candidi di successo”, tenta di riprodurne i modelli comportamentali su grande scala. Lo aveva previsto con un secolo di anticipo Vladimir Soloviev che descrive il suo Anticristo come un “filantropo, pieno di compassione e non solo amico degli uomini, ma anche amico degli animali”, un “convinto spiritualista”, un “asceta” che afferma di credere in Dio ma, in realtà, ama solo se stesso.
          Figlio del pensiero liberal, del ’68, di quella che Plinio Correa de Oliveira chiamava la “quarta rivoluzione” (dopo la riforma protestante, l’illuminismo giacobino e la terza il socialismo marxista), il buonismo ne incarna il “volto umano”, assimilabile dai moderati e anche dai conservatori.Sul piano sociale questa attitudine ha portato danni irreparabili in ambito pedagogico e qui è più pertinente parlare di “lassismo” o “permissivismo”. Sulla scia delle teorie di Benjamin Spock, si sono diffuse prassi “antiautoritarie” che hanno sottratto bambini e giovani al senso del sacrificio e della disciplina. Si è, in altre parole, ritenuto che l’amore genitoriale potesse limitarsi soltanto all’aspetto affettivo, senza alcun potere correttivo o sanzionatorio. Niente punzoni, solo comprensione e ascolto. Le conseguenze di ciò sono sotto gli occhi di tutti: droga, comportamenti devianti, imbarbarimento dei costumi, mancanza di rispetto per i soggettivi educativi, siano essi la famiglia o la scuola.
          Il massimo del paradosso, tuttavia, il buonismo lo esprime nei dibattiti sull’immigrazione e sul multiculturalismo: anche in questo ambito il buonista non è in grado di guardare serenamente la realtà oggettiva, schiavo com’è dei suoi “pregiudizi al contrario”, per cui lo straniero è sempre e comunque una persona da accogliere, una vittima dei nostri antenati colonialisti brutti, sporchi e cattivi. E anche qui le conseguenze sono state nefaste: sfruttamento della manovalanza extracomunitaria, microcriminalità diffusa, rigurgiti di razzismo, ghettizzazione, difficoltà di integrazione, per non parlare dell’ascesa del fondamentalismo islamico.
        Ci troviamo, insomma, di fronte ad un autentico “cancro della volontà”, un ottenebramento della ragione e dell’autonomia di giudizio. Il buonismo non ha nulla a che vedere con la bontà, né con l’onestà o la rettitudine: ne è soltanto una grottesca caricatura. L’uomo veramente buono ha una mente ed un cuore molto più profondi. Sa guardare oltre le apparenze e la sua fame di giustizia lo spinge a battaglie controcorrente. L’uomo buono si inchina umilmente dinnanzi alla Realtà e la osserva senza le lenti deformanti dall’ideologia. Ama la Verità senza distinguo e la afferma con vigore, se necessario. È consapevole che per cambiare il mondo servono scelte coraggiose e che, per portarle avanti, non bisogna avere paura di perdere il consenso, di finire in minoranza o di farsi nemici.
Ed è proprio nelle mani di tali uomini buoni e coraggiosi il futuro dell’umanità. 
Luca Marcolivio
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