Carlo Nesti, per molti anni popolare giornalista sportivo RAI e oggi libero professionista, commenta i terribili fatti che hanno preceduto la finale di Coppa Italia...
Il mondo ancora si interroga su quella carrellata di volti dei dirigenti dello sport e dello Stato italiano che osservano impotenti lo spettacolo paradossale che gli si poneva di fronte. Uomini delle autorità di polizia, calciatori del Napoli costretti ad un colloquio con i capi ultrà per discutere (accordarsi? chiedere il permesso?) la possibilità di scendere in campo dopo il ferimento di Ciro Esposito, tifoso del Napoli, fuori dallo stadio. Tutti i protagonisti nelle ultime ore hanno smentito questa “negoziazione” tra Stato e ultrà, ma le immagini restano e parlano chiaro, anche perché si uniscono al coro di altre già viste: ad esempio quasi dieci anni fa, quando gli ultrà decisero di non far disputare un derby di Roma, o a quelle di qualche mese fa, quando altri ultrà della Nocerina obbligarono i propri giocatori a tirarsi fuori da un Salernitana-Nocerina. Qualcosa non funziona, e da molti anni nella gestione del fenomeno tifo, se è vero, come è vero, che gli stadi si sono svuotati di famiglie. Per discutere di quello che è successo sabato abbiamo intervistato Carlo Nesti, per molti anni popolare giornalista sportivo RAI e oggi libero professionista in altre reti e scrittore. A marzo scorso è uscito il suo ultimo libro, Il mio allenatore si chiama Gesù (ed. San Paolo).
Anche alla luce dei valori di cui parla nel libro, che cosa sta succedendo nel calcio italiano?
Nesti: Sabato ho avuto solo delle conferme. Purtroppo non è successo nulla di sorprendente. Si è avuta solo la conferma di un trend che va avanti nel nostro Paese da una vita. Bisogna considerare che il fenomeno ultrà, che fa parte del tifo organizzato, ha vissuto tre fasi distinte in Italia. All’inizio negli anni Sessanta era puro folklore, si trattava semplicemente della parte più colorata e passionale del tifo; poi negli anni Settanta, con gli anni di piombo, ha cominciato a vivere delle connotazioni diverse, anche di tipo ideologico e politico, e quindi lì l’ambiente ha cominciato a surriscaldarsi; ora siamo di fronte a quello che è diventato un vero e proprio “mestiere” dell’ultrà, nel senso che il mondo ultrà è diventato una sorta di partito trasversale che attraversa le varie tifoserie ormai. Esistono ancora gli scontri tra le tifoserie, ma oramai la gran parte del fenomeno è rappresentata dallo scontro tra il mondo ultrà compatto, molto spesso solidale nel teppismo, contro ciò che rappresenta le istituzioni, e quindi naturalmente contro le forze dell’ordine. Un attacco o con caratteristiche anarcoiche, o con caratteristiche ideologiche, perché sappiamo perfettamente che nelle curve l’estrema destra e l’estrema sinistra, che viceversa negli altri strati del Paese tendono molto a scemare, esistono e come. Quando ho cominciato questo mestiere alla metà degli anni Settanta si parlava ancora di “sparute minoranze”, questo era il termine che veniva usato. Ora le “sparute minoranze sono un esercito che ha toccato le 90.000 persone (fino a sette anni fa si parlava di 45.000), con ben 5.000 DASPO che sono stati rifilati dopo l’omicidio dell’ispettore Raciti, ma che non sono bastati, perché non ci sono controlli adeguati, e molte persone soggette a DASPO in realtà sono a piede libero e continuano a frequentare gli stadi.
Non pensa che le norme degli ultimi anni abbiano allontanato le famiglie dagli stadi, trasformando questi ultimi in arene di confronto fra ultrà e polizia?
Nesti: Assolutamente sì. Ieri il presidente della Federcalcio Abete ha detto, e lo posso capire, che il calcio è vittima di questo fenomeno. In realtà è vittima ed è carnefice, perché il calcio stesso ha allevato questo “mostro”, o in maniera attiva, con connivenze molto precise che durano da anni tra le società e gli ultrà, oppure passivamente, con il ricatto, nel senso che queste persone hanno assunto un potere tale - prima semplicemente per avere biglietti gratis, poi per ben altro - che hanno cominciato a ricattare e spaventare i dirigenti. Voglio ricordare il 1985: io ero purtroppo all’Heysel quella sera. Il paradosso è che dal 1985 la grande occasione di affrontare in maniera seria il fenomeno è stata sfruttata non da chi quella sera fu vittima, ma proprio da coloro che avevano il mostro in casa, cioè gli inglesi. Loro ce l’hanno fatta, noi invece, per 22 anni, cioè fino al 2 febbraio 2007, il giorno dell’omicidio dell’ispettore Raciti, non abbiamo fatto assolutamente niente. Abbiamo finto di affrontare il problema riempendoci la bocca, scandalizzandoci per qualche giorno ogni volta che succedeva qualcosa, anche dei morti, ma in concreto facendo nulla. Dal 2007 il fenomeno è stato affrontato dallo Stato in maniera molto seria. Ma è successo, purtroppo all’italiana, che le norme che sono state varate alla fine sono state nocive esclusivamente per la parte sana del tifo, ad esempio, complicando in una maniera quasi diabolica l’accesso agli stadi. Noi infatti abbiamo dei tifosi pacifici che vorrebbero entrare negli stadi all’ultimo momento e non lo possono più fare perché lo stadio praticamente è militarizzato, perché bisogna fare lunghissime code in biglietterie che una volta erano a decine mentre oggi, se c’è, n’è rimasta una, perché bisogna assicurarsi del biglietto prima. Si è creata la tessera del tifoso che sicuramente non ha avuto l’esito sperato. E poi consideriamo che comunque le norme ci sono, ma non vengono applicate. Noi continuiamo a vedere in tutti gli stadi, e all’Olimpico sabato sera in questo senso c’è stato il “carnevale di Rio”, di tutto. Altro che i petardi che non dovrebbero entrare. Entrano addirittura le bombe carta!
Mentre l’ombrellino della vecchietta rimane fuori, vero?
Nesti: Esattamente. L’ombrellino della vecchietta rimane fuori. Perché? Perché come dicevo ci sono certamente delle situazioni di interesse, o situazioni di paura, che naturalmente hanno fatto sì, e continuano a far sì, che queste norme non vengano applicate. Perché se fossero applicate, stia pure tranquillo, che succederebbe metà della metà della metà di quello che si vede. Potrebbe sempre succedere l’incidente lontano dallo stadio, perché se una persona con una pistola all’improvviso decide di sparare, non c’è nessuna polizia al mondo che naturalmente glielo può impedire. Quello certo non si poteva evitare. Ma quello che è allucinante di sabato è ciò che è successo dentro lo stadio, perché lì, in un luogo pubblico, come Stato devi essere in grado di controllare la situazione, mentre noi abbiamo visto i rappresentanti dello Stato in balìa dei capi ultrà.
Un capo ultrà che tra l’altro, leggiamo, sarebbe figlio di un boss della Camorra?
Nesti: E sì, perché nel calcio c’è tutto il bene e tutto il male della società. Nel male della società c’è l’infiltrazione da parte di questi personaggi. Si scopre che un capo ultrà è figlio di un camorrista soltanto quando avviene l’incidente, ma in realtà sono anni che si conosce l’ultrà giallorosso che ha sparato, e sono anni che si conosce il capo ultrà del Napoli che abbiamo visto in azione. Uno si chiede, ma in questi anni non hanno mai commesso qualche cosa per cui dovessero essere bloccati? Eccome. Erano già recidivi, eppure li abbiamo visti agire tranquillamente a piede libero.
Ma cosa ha portato a tutto questo?
Nesti: I giornalisti non dovrebbero mai fare la parte pilatesca di quelli che se ne lavano le mani. Non dimentichiamo che in questi 22 anni, dal 1985 al 2007, e per proseguire fino a oggi, intanto c’è stato un imbarbarimento della società che è sotto gli occhi di tutti. Ma c’è stato un innalzamento dei toni nella politica e nel giornalismo: penso ai talk show politici ma anche alle trasmissioni sportive, dove impera ormai la figura del giornalista tifoso, che sicuramente non hanno favorito la distinzione. Non arrivo a dire che naturalmente la violenza ultrà sia figlia diretta di questo mondo, ma sicuramente aver creato una certa atmosfera ha fatto sì che i teppisti a volte si sentano legittimati nel compiere degli atti di violenza. Questo è avvenuto anche sabato, attraverso le dichiarazioni dei dirigenti, attraverso le dichiarazioni dei tesserati, attraverso l’enfatizzazione dei mass media. Questo credo che sia molto importante ammetterlo. Tutti quanti siamo responsabili di quello che è avvenuto sabato e che è avvenuto tante altre volte. Abbiamo detto, 90.000 ultrà. Se fossero persone che si fanno la guerra tra loro sarebbe più facile trovare dei rimedi, ma qui è una tribù che ha trovato una sua forma di solidarietà che quest’anno ha espresso molto chiaramente nel momento in cui sono stati intonati addirittura dagli stessi tifosi del Napoli dei cori contro Napoli, proprio per provocare un certo tipo di reazione e di sanzione. Si è visto che nel momento in cui sono stati chiusi i settori degli stadi, invece di scoraggiare queste persone, si è data loro una possibilità di potere in più. Il loro obiettivo è quello: il legame con le società è molto sbiadito, si tratta di gestione del potere, di controllo del territorio che è la curva, nel quale avvengono cose gravissime, anche lo spaccio della droga. Per gran parte di questa gente non è una questione di tifo, ma di potere. Il panorama dunque è molto cambiato rispetto a quel 1985 in cui eravamo ancora in grado di affrontare il fenomeno con tante speranze di poterlo sconfiggere. Oggi è molto più difficile perché è come se questo “mostro” che pesava 50 Kg ne pesasse ora 500.
Emanuele D'Onofrio
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