Adesso non torniamo nel «realismo»: la realtà vera, il vero realismo è questo. Quell'altra è una vita sofisticata perché ci sono i costumi sociali, ci sono i rapporti dai quali ci dobbiamo pur difendere. Quella è una vita sofisticata, la vita vera è questa, i sentimenti veri sono questi: il don Michele vero è questo, il don Arturo, il don Emilio, il don Giacinto vero è quello di questi giorni; l'altro è un'adulterazione, perché ci mettiamo intorno degli schermi e delle difese, e ci nascondiamo all'interno. Il bambino si nasconde: in questi giorni è venuto fuori. La vita vera è questa allora.
del 01 gennaio 2002
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Quando si era in seminario, durante il mese di maggio si cantavano le canzoni di Casimiri, a 4 voci, e si concludeva con quella che inizia così:
Col tramonto dei celeri giorni, queta l'inno dei cantici a te.
Queta, si placa ma non si rompe, non si spezza il canto, il tripudio alla Vergine continua anche negli altri giorni. È molto bello questo frammento di ricordi e di nostalgia. Voglio rubare questo pensiero per dire che adesso non interrompiamo la nostra invocazione ripetuta: sarà molto difficile che tutti i giorni futuri noi si possa recitare 15 poste di rosario, oppure che si possa stare lunghe ore davanti all'immagine di Maria, o che la si possa invocare sempre con ritornelli così appassionati. Il nostro canto si queta, si placa ma non si arresta, non si ferma.
Tornare nella ferialità.
Ora torniamo nella ferialità e vorrei chiedermi: qual è la vita più vera? Quella che abbiamo vissuto qui con le emozioni di questi giorni, con questo struggimento interiore, con questo pentimento, con tanta voglia di ricominciare da capo; con questa chiarezza, concettuale e affettiva, su tutto ciò che riguarda il nostro essere sacerdoti per la Chiesa e per il mondo?
Qual è la vita più vera per noi? È quella vissuta in questi giorni o quella che sperimenteremo quando ci immergeremo di nuovo nel vortice delle nostre faccende, quando saremo lacerati dalla gente, presi da mille problemi: la costruzione della parrocchia, l'impegno catechistico, l'anno pastorale che non tarda molto a ricominciare, problemi di salute, problemi di rapporti in casa, col vescovo, con la curia,?
È molto probabile che, tornando a casa, si sorrida dei nostri slanci di questi giorni e si finisca col dire: «Eravamo prigionieri in una morsa di sentimenti e ci eravamo sbilanciati sui crinali dell'entusiasmo”. È più vera la vita di questi giorni o quella del cosiddetto «realismo»?
Carissimi confratelli: la vita più vera è questa. L'altra - quella che ci sembra piena di normalità - è una vita cinturata, corazzata, perché ci mettiamo intorno le nostre difese, mettiamo tutt'intorno delle paratie con cui ci difendiamo dai raggi del sole della grazia, ci difendiamo dai venti dello Spirito. La vita vera è questa. È come se avessimo messo l'occhio nelle feritoie «del mondo che verrà», di un mondo nuovo, fatto di giustizia, di solidarietà, di pace, di impegno, di passione per il Regno di Dio, di grazia. La vita vera è questa, non quell'altra.
Adesso non torniamo nel «realismo»: la realtà vera, il vero realismo è questo. Quell'altra è una vita sofisticata perché ci sono i costumi sociali, ci sono i rapporti dai quali ci dobbiamo pur difendere. Quella è una vita sofisticata, la vita vera è questa, i sentimenti veri sono questi: il don Michele vero è questo, il don Arturo, il don Emilio, il don Giacinto vero è quello di questi giorni; l'altro è un'adulterazione, perché ci mettiamo intorno degli schermi e delle difese, e ci nascondiamo all'interno. Il bambino si nasconde: in questi giorni è venuto fuori. La vita vera è questa allora.
Dall'incontro che abbiamo avuto con la Parola, dall'incontro avuto con l'eucaristia, con Maria, con i fratelli, possiamo riportare a casa almeno qualche scheggia.
Vorrei suggerire alcune cose.
Anzitutto pi√π spazio allo stupore.
Con Maria, anche noi dobbiamo dire al Signore: «Fecit mihi magna qui potens est», colui che è potente fa per me cose grandi ogni momento. E dobbiamo lasciarci prendere dallo stupore.
Oggi c'è crisi di estasi, è in calo il fattore sorpresa. Non ci sorprendiamo più. Non ci si esalta più per nulla. C'è in giro un insopportabile ristagno di déjà vu, come dicono qui in Francia, di cose già viste, di cose già fatte, di esperienze già fatte, di sensazioni sottoposte a ripetuti collaudi. Anche la novità di Dio la stiamo dimenticando, il novum di Dio, che sconvolge tutti i nostri piani, che soffia sulle nostre costruzioni e getta tutto a terra. La novità di Dio stentiamo anche noi a percepirla.
In questi giorni noi l'abbiamo afferrata, non solo per quello che lui ha fatto nella nostra anima, per il perdono che ci ha concesso, per l'amicizia che ci ha fatto vivere, per l'esperienza che abbiamo vissuto vedendo tante sofferenze, tanti poveri, tante persone. Adesso, come in un caleidoscopio, nella nostra mente si rigirano tutte le immagini.
Non so se stupirmi di pi√π del fluire dell'acqua del Gave o del fluire interminabile delle persone davanti alla grotta. Quanta gente, quanto stupore!
Abbiamo visto il pianto sul ciglio di tante persone, abbiamo visto che Dio fa delle meraviglie, compie cose nuove. Ebbene noi dovremmo stupirci di più del nostro Dio, che è un Dio nuovo, che non ci ha abbandonati come fa il vasaio o lo scultore quando un bozzetto non riesce e l'accantona. Il Signore fa sempre cose nuove per noi. Non le ha fatte soltanto in questi giorni ma le fa ogni giorno e noi dobbiamo stupirci di più. Senza stupore è impossibile l'adorazione, senza rapimenti estatici è difficile la preghiera. Con Dio si potrà avere forse un rapporto «mercantile», basato sulla contrattazione «domanda e offerta», ma non sarà preghiera, non sarà abbandono fiduciale.
La meraviglia è la base dell'adorazione, ha scritto qualcuno. Senza meraviglia non si può adorare Dio. Senza avere coscienza che ci troviamo di fronte a uno che fa continuamente nuove tutte le cose, quindi anche questa nostra anima vecchia, questo nostro cuore antico, senza questa convinzione, non possiamo adorare in profondità. Impariamo perciò a stupirci.
Non è facile giubilare
Sant'Agostino fa come un gioco sul termine jubilàre, giubilare: la parola onomatopeica indica infatti il prorompere del gaudio interiore che viene fuori in colate di sillabe, di canto senza parole; o meglio, di parole che non riescono a contenere l'empito dei sentimenti e si strappano, si sfaldano, si sgretolano e lasciano venir fuori la colata lavica dei sentimenti. Appunto questo è il giubilo.
Forse l'abbiamo avvertito qualche volta nella nostra vita. In questi giorni probabilmente l'abbiamo avvertito di più nei nostri silenzi: dobbiamo portarlo via di qui come una scheggia delle più belle. Qualcuno forse avrà preso dell'acqua dal Gave o dalle fontane, avrà preso un ciottolo dal torrente. Penso che la scheggia più grande che dovremmo portarci a casa è il sentimento dello stupore e del giubilo.
Stupirsi è proprio dei bambini, forse perché i bambini sanno, meglio degli altri, scavalcare la fase raziocinante e andar dritto all'intuizione. I bambini sono più bravi nello stupore forse perché vivono quella stagione della vita in cui ci si esercita in un'altra operazione, così affine, quella del pianto. Anche il pianto è senza parole. Forse per questo i bambini sono capaci di stupore, più di quanto non lo siamo noi.
Comunque chiediamo al Signore, chiediamo alla Vergine, come ultima grazia, quella di poterci stupire nella nostra vita e poter cantare pure noi: «Fecit mihi magna qui potens est». Direi meglio facit: ora fa cose grandi colui che è potente; fa cose grandi per me che sono l'ultimo, che sono il più povero, che sono un buono a nulla, capace di tutto però se si mette lui di mezzo. Quello dello stupore è il souvenir che voglio portarmi via da Lourdes.
Recuperare la corporeità.
C'è un'altra cosa che vorrei portarmi via, una seconda scheggia: lo spessore della corporeità che dobbiamo dare alla nostra vita interiore. Abbiamo visto in questi giorni tanti corpi, tante persone. Le persone sono corpo: noi non abbiamo il corpo, siamo corpo e anima. Voglio dire: siamo corpi, cose tangibili. Per questo dobbiamo recuperare lo spessore delle cose che si toccano, che si vedono.
Durante la processione eucaristica ieri sera mi sono aggrappato all'inferriata: mi sembrava di essere in carcere, io in carcere e gli altri negli spazi della libertà. Vedevo tutta questa gente che passava, passava libera sulle carrozzelle. Quanti corpi, quante carrozzelle, quanti volti; volti facilmente classificabili: quelli sono cinesi, quelli sono indiani, quelli sono irlandesi, quelli sono scandinavi, quelli sono senz'altro italiani. Quante carrozzelle.
E quante acque si vedono qui: acqua alle fontane, acqua alle piscine, acque nelle bottiglie. Mi pareva di vedere qualcosa di sacro pur in questo disperdersi, anche nella girandola dei negozi di Lourdes.
Quanta gente ci è passata accanto subito dopo il disperdersi di una processione, quanta gente, quanti saluti anche, quanta gente ci ha fermato, intuendo forse che siamo sacerdoti. L'avete scorto anche voi il pianto di alcune persone.
E poi candele, candele. Chi le ha accese? Chissà quanta gente povera avrà pianto nell'offrire alla Madonna una candela, grossa o piccola. Chissà quale struggimento interiore. Vedevo quella gente che prendeva la candela, l'accendeva per portarla davanti all'immagine di Maria, quasi fosse il prolungamento della propria persona che non può attardarsi più a lungo, come un prolungamento dell'anima, un prolungamento della fede. Questa è corporeità.
Quante canzoni, in quante lingue, quanti strumenti. Anche la tromba c'è stata oggi nella nostra chiesa durante la liturgia. Anche questa è corporeità. E mi ha fatto capire una cosa: che anche alle cadenze interiori della nostra vita spirituale noi dobbiamo dare lo spessore della corporeità, la carnalità della grazia di cui parlano i teologi. La carnalità della grazia. È un fatto di alta ascetica.
Mi viene in mente un episodio che ci viene raccontato da Tommaso da Celano a proposito di san Francesco: la notte di Natale a Greccio, quando venne fatto il primo presepe, Francesco era diacono, perciò venne invitato a cantare il Vangelo. Il cronista annota che, ogni volta che pronunciava il nome di Gesù, Francesco si passava la lingua sulle labbra per assaporare la dolcezza di quel nome. Questo leccarsi le labbra mi sembra molto bello.
La carne è il cardine della salvezza.
Vorrei dirlo a voi, carissimi confratelli; non lo direi alle sorelle infermiere, alle volontarie, ai laici, perché su questo sono più protesi di noi sacerdoti che siamo accademici della teologia, che abbiamo studiato e sappiamo tanta teoria. Voglio dire: di Dio non si dà soltanto teoria ma si dà soteria, che significa salvezza. È un vocabolo difficile.
Visto che mi son messo a parlare difficile, aggiungo un'altra espressione che anche voi avrete ripetuto chissà quante volte studiando nella scuola di teologia: caro salutis cardo, la carne è il cardine della salvezza. La carne, il corpo, la visibilità, sono il cardine attorno a cui si articola la salvezza, anzi sono la feritoia attraverso cui l'opera salvifica di Dio entra nelle arterie della storia.
Se è così, dobbiamo esprimere anche visibilmente il nostro amore per Gesù Cristo, il nostro amore per il Vangelo, il nostro amore per il mondo, per la terra, per cui siamo costituiti sacerdoti. Dobbiamo esprimerlo anche attraverso le vibrazioni del nostro essere, del nostro corpo. La gente deve capire che dalle nostre mani si spande il buon profumo di Cristo, la gente deve intuirlo questo, deve capire che noi abbiamo messo gli occhi negli occhi di Dio, che lo abbiamo toccato il Signore, che gli siamo stati vicini.
Leggiamo nella lettera a Tito: «Quando si sono manifestati la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini”. La bontà di Dio che si è manifestata - benignitas Salvatoris nostri - dobbiamo esprimerla noi: la benignità, la mansuetudine, la dolcezza, la tenerezza di Gesù Cristo ha preso forma nei nostri gesti, nelle nostre strette di mano, nella nostra preghiera, nel nostro atteggiamento, anche del corpo. Non dobbiamo disdegnare la benignità come se fosse una spiritualità d'accatto. Forse non mi so esprimere come vorrei, però avete compreso che la seconda scheggia che vorrei portar via di qui è proprio questo: dare alla nostra vita interiore lo spessore della corporeità.
Maria nella nostra vita interiore.
Poi una terza cosa. Dobbiamo riscoprire di più la funzione di Maria all'interno della nostra vita interiore, all'interno della nostra vita spirituale. Qualcuno potrà aver la sensazione che stiamo rasentando le soglie del devozionismo; qualcuno potrà anche arricciare il naso in nome del cristocentrismo, del pneumocentrismo e di tutti gli altri centrismi. Qualcuno potrebbe domandarsi perplesso: Cosa diranno i nostri fratelli protestanti se vengono qui? Non voglio esortarvi ad aumentare gli spessori della devozione mariana, vi sto esortando a ricentrare di più, a scoprire di più, la funzione ecclesializzante di Maria, la funzione di Maria all'interno della nostra vita interiore.
Non si tratta di devozione: la Lumen Gentium parla chiaro. Se è vero che Maria è segno del peregrinante popolo di Dio ed è segno efficace, segno e strumento della crescita del popolo di Dio, quella segnaletica dobbiamo osservarla, non possiamo metterla tra parentesi. Non possiamo far finta di non aver visto il rosso, il verde, oppure la freccia direzionale. Se il Signore ha messo Maria come segno, se Maria, tota pulchra, e anticipazione della Chiesa, anche la Chiesa sarà un giorno tota pulchra, senza macchia e senza ruga. Un giorno anche noi saremo come Maria.
Se Maria ha la funzione anticipatrice, non possiamo scavalcarla. Si tratta di riscoprire proprio questa verità profondissima: Maria è «primizia e immagine della Chiesa», come diciamo nel prefazio proprio. A Cana ella «ha anticipato i tempi nuovi», ha anticipato le nozze dell'Agnello al sesto giorno, come nel sesto giorno avvenne la creazione dell'uomo e della donna, l'istituzione del matrimonio. Al sesto giorno - l'ho già fatto notare - non il sabato quando Gesù, come Dio, si riposò. Giovanni, all'inizio del suo Vangelo, segue lo schema dell'esamerone dell'Antico Testamento per farci capire che Maria è colei che ci introduce alle nozze dell'Agnello.
Questo lo dobbiamo riscoprire. Ciò significa che dovremo forse piegarci con maggior tenacia sugli studi di teologia mariana, di teologia biblica, per scoprire il peso che ha Maria nella nostra vita interiore.
Abbiamo vissuto la festa mariana in questa settimana, adesso torniamo a immergerci nella ferialità. Vorrei concludere invocando Maria, Donna feriale, donna di ogni giorno. Ci sarà di grandissimo aiuto perché, nel contemplare le grandezze straordinarie di Maria, qualche volta possiamo essere tenuti a una certa distanza; se non siamo proprio scoraggiati, siamo presi un po' dallo sgomento.
Nella ferialità, con i piedi per terra.
Maria però ha vissuto davvero la ferialità, la vita di ogni giorno. Lo dice il Concilio con molta chiarezza. Anche per me è stata una scoperta. Mi ha colpito una frase riportata sotto un'immagine della Madonna, una frase che avevo letto e riletto mille volte; mi è parsa così audace che sono andato alla fonte per controllarne l'autenticità. Al quarto paragrafo del Decreto sull'apostolato dei laici è scritto testualmente: «Maria viveva sulla terra una vita comune a tutti, piena di sollecitudini familiari e di lavoro».
Bellissimo. Maria viveva sulla terra, non sulle nuvole; i suoi pensieri non erano campati in aria, i suoi gesti avevano come soggiorno obbligato il perimetro delle cose concrete. Anche se l'estasi era l'esperienza a cui Dio spesso la chiamava, non si sentiva dispensata dalla fatica di rimanere con i piedi per terra. Maria viveva sulla terra, lontana dalle astrattezze dei visionari, come dalle evasioni degli scontenti, o dalle fughe degli illusionisti: Maria conservava caparbiamente il domicilio nel terribile quotidiano.
Ma c'è di più: Maria viveva sulla terra una vita comune a tutti. Simile cioè alla vicina di casa. Beveva l'acqua dello stesso pozzo, pestava il grano nello stesso mortaio, sedeva al fresco dello stesso cortile. Anche lei tornava stanca la sera dopo aver spigolato nei campi. Anche a lei un giorno dissero: «Maria, ti stai facendo i capelli bianchi». Si specchiò forse alla fontana, e anche lei provò la struggente nostalgia di tutte le donne quando si accorgono che sfiorisce la giovinezza. Non è estranea Maria alla sofferenza di tutte le figlie di Eva.
Le sorprese però non sono finite: infatti, se la vita di Maria fu, come la nostra, piena di sollecitudini familiari e di lavoro, se questa creatura straordinaria divenne inquilina delle nostre fatiche umane, bisogna sospettare che la nostra penosa ferialità non debba essere banale come pensiamo. Anche lei ha avuto i suoi problemi di salute, di economia, di rapporti, di adattamento. Chissà quante volte è tornata dal lavatoio col mal di capo, soprappensiero, mentre Giuseppe vedeva diradarsi i clienti dalla bottega. A quante porte avrà bussato chiedendo qualche giornata di lavoro per il suo Gesù nella stagione dei frantoi? Avrà consumato malinconicamente chissà quanti meriggi per rivoltare il mantello logoro di Giuseppe e ricavarne un altro perché Gesù non sfigurasse tra i compagni di Nazaret.
Come tutte le mogli avrà avuto anche lei dei momenti di crisi nei rapporti con suo marito, del quale - taciturno com'era - non sempre avrà capito i silenzi. Come tutte le madri avrà spiato tra timori e speranze le pieghe dell'adolescenza di suo figlio. Come tutte le donne avrà provato la sofferenza di non sentirsi compresa neppure dai due amori più grandi che avesse sulla terra e avrà temuto di deluderli, o di non essere all'altezza del ruolo. E dopo aver stemperato nelle lacrime il travaglio di una solitudine immensa, avrà trovato, finalmente, nella preghiera fatta insieme il gaudio di una comunione sovrumana.
Preghiera a Maria, Donna dei nostri giorni.
Santa Maria, donna dei nostri giorni, vieni ad abitare in mezzo a noi. Tu hai predetto che tutte le generazioni ti avrebbero chiamata beata. Ebbene, tra queste generazioni c'è anche la nostra, che vuole cantarti la sua lode non solo per le cose grandi che il Signore ha fatto in te nel passato, ma anche per le meraviglie che egli continua a operare in te nel presente.
Fa' che possiamo sentirti vicina ai nostri problemi. Non come Signora che viene da lontano a sbrogliarceli con la potenza della sua grazia o con i soliti moduli stampati una volta per sempre. Ma come una che, gli stessi problemi, li vive anche lei sulla sua pelle, e ne conosce l'inedita drammaticità, e ne percepisce le sfumature del mutamento, e ne coglie l'alta quota di tribolazione.
Santa Maria, donna dei nostri giorni, liberaci dal pericolo di pensare che le esperienze spirituali vissute da te duemila anni fa siano improponibili oggi per noi, figli di una civiltà che, dopo essersi proclamata postmoderna, postindustriale e postnonsoché, si qualifica anche come postcristiana.
Facci comprendere che la modestia, l'umiltà, la purezza sono frutti di tutte le stagioni della storia, e che il volgere dei tempi non ha alterato la composizione chimica di certi valori quali la gratuità, l'obbedienza, la fiducia, la tenerezza, il perdono. Sono valori che tengono ancora e che non andranno mai in disuso. Ritorna, perciò, in mezzo a noi, e offri a tutti l'edizione aggiornata di quelle grandi virtù umane che ti hanno resa grande agli occhi di Dio.
Santa Maria, donna dei nostri giorni, dandoti per nostra madre, Gesù ti ha costituita non solo conterranea, ma anche contemporanea di tutti. Prigioniera nello stesso frammento di spazio e di tempo. Nessuno, perciò, può addebitarti distanze generazionali, né gli è lecito sospettare che tu non sia in grado di capire i drammi della nostra epoca.
Mettiti, allora, accanto a noi, e ascoltaci mentre ti confidiamo le ansie quotidiane che assillano la nostra vita moderna: lo stipendio che non basta, la stanchezza da stress, l'incertezza del futuro, la paura di non farcela, la solitudine interiore, l'usura dei rapporti, l'instabilità degli affetti, l'educazione difficile dei figli, l'incomunicabilità perfino con le persone più care, la frammentazione assurda del tempo, il capogiro delle tentazioni, la tristezza delle cadute, la noia del peccato.
Facci sentire la tua rassicurante presenza, o coetanea dolcissima di tutti. E non ci sia mai un appello in cui risuoni il nostro nome, nel quale, sotto la stessa lettera alfabetica, non risuoni anche il tuo, e non ti si oda rispondere: «Presente!».
Come un'antica compagna di scuola.
Tonino Bello.
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