Continuando la nostra riflessione su come essere sacerdoti per la Chiesa e per il mondo, vorrei intitolare questa meditazione: soffrire le cose di Dio e soffrire le cose dell'uomo. Se, in forza dell'ordinazione presbiterale, siamo stati conformati a Cristo capo e a Cristo servo, dobbiamo comportarci «in maniera degna della vocazione che abbiamo ricevuto», come dice san Paolo.
del 01 gennaio 2002
Continuando la nostra riflessione su come essere sacerdoti per la Chiesa e per il mondo, vorrei intitolare questa meditazione: soffrire le cose di Dio e soffrire le cose dell'uomo. Se, in forza dell'ordinazione presbiterale, siamo stati conformati a Cristo capo e a Cristo servo, dobbiamo comportarci «in maniera degna della vocazione che abbiamo ricevuto», come dice san Paolo.
Pescatori di tutti gli uomini.
L'abbiamo già detto: se la vocazione ci vuole sacerdoti per il mondo, nessuno può rimanere escluso dai nostri interessi pastorali: siamo sacerdoti per l'ecumene, per tutti. Non c'è marocchino, o maomettano, o buddista, o ateo, o miscredente, che possa essere lontano dalle nostre attenzioni.
Da quando, insieme con Pietro, siamo costituiti «pescatori di uomini», nessuno dovrebbe essere escluso dalla nostra rete. Nell'episodio della pesca miracolosa, quando il Signore risorto invita Pietro, sfiduciato per aver pescato inutilmente tutta la notte, a gettare nuovamente le reti, l'evangelista annota che, aiutato dai compagni, l'apostolo «trasse a terra la rete piena di centocinquantatre grossi pesci”. Quel numero non è messo a caso: a Giovanni piace giocare con i numeri. Una delle interpretazioni plausibili ricollega quel numero alla «tavola dei popoli» riportata nella Genesi e all'ecumene di Pentecoste, elencata negli Atti degli Apostoli: «Siamo Parti, Medi, Elamiti, abitanti della Mesopotamia, della Giudea, della Cappadocia, del Ponto e dell'Asia, della Frigia e della Panfilia, dell'Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, stranieri di Roma, Ebrei e proseliti, Cretesi e Arabi». Sommando i popoli di quelle due importanti pagine si giunge proprio a 153. Nel Vangelo si sottolinea, perciò, che Pietro è costituito pastore, o «pescatore», di tutti i popoli: nessuno può sottrarsi al suo compito missionario, al suo compito apostolico.
Ciò vale anche per noi, sacerdoti per il mondo: sia che ci trasferiscano in Cina, sia che si vada in Marocco, sia che si vada tra gli Eschimesi, dobbiamo sentire la nostra presenza di presbiteri mandati a consacrare il mondo.
Teilhard de Chardin, nel suo libro Messa sul mondo, racconta di essersi trovato, nel corso d'una spedizione scientifica sulla catena dell'Himalaya, privo del pane e del vino per celebrare l'eucaristia. Ciò lo portò a riflettere: il pane e il vino non sono che “frutti della terra e del lavoro dell'uomo», elementi rappresentativi di tutte le altre realtà cosmiche. Davanti alle realtà cosmiche, quei monti maestosi, il mondo che contemplava dall'alto, ecco il nuovo offertorio per la Messa sul mondo. Teilhard, che era sacerdote e gesuita, sente così la sua funzione sacerdotale: «Ricevi, Signore, quest'ostia totale che la creazione, mossa dalla tua potenza, ti presenta all'alba del nuovo giorno». Un'ostia totale: non quella di pane, che rappresenta la natura con poteri delegati, ma quella cosmica, di tutti gli elementi «deleganti», le montagne, i fiumi, le vallate, il cielo, le nubi, il sole che sorge.
Ecco cosa vuol dire essere sacerdoti per il mondo. È una cosa bellissima, che non dovrebbe lasciarci dormire. Come essere degni di tale vocazione?
I. PATI DIVINA: LA PASSIONE PER IL REGNO.
Pati divina, soffrire le cose divine, è un'espressione di san Tommaso; per simmetria divideremo la riflessione in due momenti, aggiungendo pori humana: soffrire le cose divine e soffrire le cose umane. Anzitutto cerchiamo di capire cosa vuol dire soffrire le cose divine.
A furia di voler «vincere le passioni», come ci hanno insegnato in seminario i nostri padri spirituali, abbiamo finito col perdere di vista, fino a spegnerla, la passione per il Regno. Dentro di noi non ci sono più soprassalti di gioia, non abbiamo più brividi. I sogni e le forti idealità, che pure ci hanno nutriti per tanti anni, adesso li ripudiamo, quasi fossero malattie infantili.
Questo è brutto, è un peccato.
Non ci entusiasmiamo più, non ci vengono più le lacrime agli occhi per le cose grandi, belle, nobili, del Regno di Dio. Siamo diventati freddi, un po' duri. Abbiamo eliminato ogni fuga dalle logiche standardizzate: le arrampicate, le sporgenze utopiche, ci sembrano esercitazioni adolescenziali; ci sovrasta il linguaggio misurato, siamo compassati, siamo diventati «intelligenti», ci affascina cioè il mito dei piedi per terra.
L'entusiasmo, la voglia di andare oltre la scontata «prudenza» carnale, li classifichiamo come romanticismo pastorale. Ci viene da sorridere dei nostri slanci passati, se ci capita di trovare, nel nostro carteggio, gli appunti spirituali di quando eravamo in seminario, giovani, suddiaconi o diaconi. Anche nel nostro presbiterio qualche volta compatiamo l'impeto, l'entusiasmo, la focosità ingenua dei più generosi. Abbiamo sempre una parola a portata di mano per spegnere l'entusiasmo mettendone in guardia «le vittime», come si trattasse di un eczema giovanile.
Vivere da innamorati.
Non soffriamo più le cose divine. Pati divina per noi deve significare innamorarsi di Gesù Cristo. So bene che non sono la persona più adatta a dire queste cose, specialmente parlando con dei sacerdoti che hanno consumato la vita innanzi al tabernacolo, toccando il Corpo e il Sangue del Signore, parlando delle sue meraviglie. Sono solo un fratello tra voi, che si mette in ascolto di una voce che prorompe – provocata attraverso la mia - e della quale io per primo voglio diventare discepolo.
Innamorarsi di Gesù Cristo, come fa chi ama perdutamente una persona e imposta tutto il suo impegno umano e professionale su di lei, attorno a lei raccorda le scelte della sua vita, rettifica i progetti, coltiva gli interessi, adatta i gusti, corregge i difetti, modifica il suo carattere, sempre in funzione della sintonia con lei. Cosa non fa, ad esempio, un uomo per la sua donna, perché ha impostato la sua vita su di lei? Osservando la vita di tanti nostri amici, dei nostri compagni di studi, ci accorgiamo come l'amore totalizzante investe non soltanto l'aspetto della loro affettività, ma trascina nel suo vortice i giorni, le notti, il riposo, il lavoro, la festa, la ferialità, la gioia, il dolore, le delusioni, le speranze. È un investimento totale.
Quando parlo di innamoramento di Gesù Cristo voglio dire questo: un investimento totale della nostra vita. Per noi il Signore non è una fascia, una frangia, un merletto, sia pure notevole, che si aggiunge al panneggio della nostra esistenza. L'amore per Cristo, se non ha il marchio della totalità, è ambiguo. Il part-time, il servizio a ore, magari col compenso maggiorato per lo straordinario, con Cristo non è ammissibile; un servizio a ore saprebbe di mercificazione.
Innamorarsi di Gesù Cristo vuol dire: conoscenza profonda di lui, dimestichezza con lui, frequenza diuturna nella sua casa, assimilazione del suo pensiero, accoglimento senza sconti delle esigenze più radicali e più coinvolgenti del Vangelo. Vuol dire ricentrare davvero la vita intorno al Signore Gesù, perché la nostra esistenza, come diceva Dietrich Bonhoeffer, diventi «una esistenza teologica».
La meditazione non è come la coramina.
Anche se il richiamo rischia persino la banalità e provocherà in qualcuno il sospetto che manchi di fantasia, dobbiamo ripetere che, senza la meditazione del mattino, lunga, calma, davanti al tabernacolo, ci si illude di lavorare per il Regno. Chi ha l'età che ho io - non è l'età degli anziani ma neppure dei giovani - questo lo sa e l'ha sperimentato. Se me l'avessero detto trent'anni fa, avrei pensato che era «una buona esortazione», un po' di coramina distribuita dal padre spirituale: invece devo dirvelo con l'esperienza, con i segni, le stimmate, sulla pelle: senza la meditazione del mattino ci illudiamo di lavorare per il Regno, senza l'alimentazione della preghiera programmata, prevista anche nella sua estensione, non lasciata all'occasionalità, la nostra spiritualità sarà solo appariscente, come la bellezza di certi bouquet di fiori che poi ti accorgi che sono fiori finti, fanno bella mostra di sé ma non profumano.
E la gente se ne accorge subito. Non possiamo bluffare con i fedeli: se ne accorgono e ce lo dicono senza mezzi termini, se crediamo sul serio o se facciamo il mestiere. Ricordate la donna del Vangelo che vuole toccare una frangia del mantello di Gesù: spintona, sgomita e finalmente arriva a toccare il mantello e guarisce. Sant'Agostino fa un commento: c'erano forse altri malati, altre donne che soffrivano della stessa malattia, stavano intorno a Gesù ma non si avvicinarono a toccare quella frangia per guarire. Turba premit, illa tangit: la turba spintona, sgomita, pigia da tutte le parti, solo lei «tocca» Gesù. C'è differenza tra premere e toccare. Forse noi premiamo Gesù, lo spintoniamo, lo schiacciamo con tutte le nostre ritualità, con tutti i nostri gesti, con tutte le nostre prediche, ma non lo «tocchiamo». La gente si accorge subito se noi Gesù lo tocchiamo davvero, oppure lo spintoniamo invano.
Non c'è amore senza sofferenza.
Pati divina significa anche soffrire le sofferenze dell'amore, i patimenti dell'amore, perché chi ama soffre. L'amore non è solo delizia, non è solo celestiale abbandono senza morsi crudeli, senza crocifissioni. Non c'è amore per Gesù Cristo senza sofferenza.
Se non ci afferriamo a tutto l'armamentario dell'amore, a tutti gli strumenti che tengono desto l'amore per Gesù Cristo, ci condanniamo a una insopportabile mediocrità: non saremo più la sentinella incaricata di scrutare l'aurora, ma ci adatteremo a orizzonti da cortile. E alla gente, che ha diritto di essere servita secondo scrupolose tabelle alimentari, non saremo in grado di offrire il pane che sa di grano, né il vino che allieta il cuore degli uomini. Saremo bravi, faremo sussultare la nostra gente di letizie estemporanee, la terremo su, ma non la aiuteremo ad arrivare al cuore di Dio.
Non voglio insistere su questo, ma un accenno non si può evitare. Le cose che vi sto dicendo le soffro su di me, le dico prima per me: c'è una persona che ti chiama, un altro che ti interpella, il telefono che trilla, l'agenda intasata di appuntamenti; c'è il citofono, c'è il fax, c'è tutto un mondo che ti impedisce di entrare in rapporto con Dio. E tu rimandi. Dovresti celebrare l'Ora media; passa mezzogiorno: «La dirò alle tre». Passano le tre: «La dirò stasera». E la sera dici effettivamente anche l'Ora media, giusto per conservarti la targhetta di «fedelissimo al breviario». Ma questo non ha più il sapore genuino della preghiera vera.
La recita quotidiana del rosario, una minore superficialità nella recita dell'ufficio divino, senza rimandarlo all'ultimo momento, senza farlo solo «perché bisogna tranquillizzarsi la coscienza». Dobbiamo stare attenti: non vi parlo come predicatore ma come amico, come un fratello che insieme con voi subisce i contraccolpi della vita vertiginosa che stiamo conducendo.
Il rischio di amori surrogati.
Pati divina, soffrire le cose divine significa avere alla base di tutti i nostri gesti e le nostre scelte l'innamoramento profondo di Gesù Cristo. Quindi la recita del breviario, il rosario, la lettura spirituale, la visita al Santissimo Sacramento, non sono vecchia ferraglia da mettere in solaio: sono segni ancora validi di amore vero per il Signore, e se vengono a mancare inesorabilmente vengono surrogati da altri amori: per una donna, per la propria immagine, per la carriera, per il denaro.
Vorrei dire una parola anche per ciò che riguarda la riscoperta e lo studio sistematico della Parola di Dio. Pati divina significa certamente anche togliere dal cassetto la lettera che Dio ci ha inviato e che, magari, non abbiamo neanche dissigillato, significa tener dietro all'aggiornamento teologico con qualche rivista seria, significa impegno nel seguire l'evolversi della dottrina morale, della dottrina biblica, della dottrina teologica. Queste cose non devono apparirci un lusso aggiuntivo che dà un po' di charme alla nostra cultura. No. È uno dei doveri presbiterali più sacrosanti, che richiedono sacrifici e costanza, di cui dobbiamo rendere conto a Dio e alla storia.
Noi infatti non annunciamo parole nostre, né siamo divulgatori di ricette sapienziali umane. Dobbiamo costatare che c'è molta superficialità in qualcuno. Molte volte quello che dovrebbe essere una diaconia diventa un mestiere, svolto per giunta senza un minimo di professionalità. Attenzione, carissimi fratelli e amici, il Signore ci ha scelti come strumento di annuncio della sua Parola.
Secondo un teologo contemporaneo, «l'uomo è il terreno sul quale chiunque sa parlare di Dio deve essere ascoltato». È una frase contorta sintatticamente, ma è molto bella: ma perché un discorso tanto importante possa essere ascoltato, bisogna che chi lo fa sappia parlare di Dio, e per poterlo fare bisogna vivere di lui. Coraggio quindi: pati divina.
II. PATI HUMANA: LA PASSIONE PER L'UOMO.
Oltre alla grazia di soffrire le cose divine, dobbiamo chiedere al Signore la grazia di soffrire le cose umane, pati humana. Nel brano della lettera agli Efesini che abbiamo già ricordato, san Paolo esorta a comportarsi «in maniera degna della vocazione che avete ricevuto, con ogni umiltà, mansuetudine e pazienza, sopportandovi a vicenda con amore».
Dovremmo metterci in atteggiamento costante di verifica: cosa farebbe Gesù al mio posto, in questa circostanza? Facciamo in modo che, nel nostro comportamento di individui e di Chiesa, appaia di più la benignità del volto di Cristo. Dobbiamo diventare più umani.
«È un prete umano» mi sembra l'elogio più bello che la gente può fare di noi. Invece a volte ci rimproverano durezza di stile, arroganza di tratto, qualche volta anche violenza di vocabolario, eccessi di autorità, scrupolosità da burocrati, inflessibilità di decisioni «perché dobbiamo salvare i principi», ritardi nel capire le debolezze del cuore, lentezza nell'entrare nei problemi comuni, lontananza siderale dalla fatica quotidiana del vivere. Com'è triste la vita per tanta gente. Quanti problemi. Ricorrono a noi, e tante volte trovano una roccia, non si sentono compresi, non si sentono capiti. Fortunatamente non è sempre così.
Ma io voglio dirvi: diventiamo più umani, pur senza «fare sconti o concessioni» ove non si può. Facciamo in modo che la gente, dopo un incontro con noi, abbia l'impressione di essersi incontrata con Gesù Cristo. Perché così deve essere.
«Mettersi in corpo l'occhio dei poveri».
Se siamo configurati a Cristo sacerdote, a Cristo capo e a Cristo servo, seminiamo si rimorsi ma non scontentezze, lasciamo i nostri interlocutori inquieti ma non depressi, soprappensiero ma non avviliti, in tumulto interiore ma non irritati. Quanta gente se ne va sbattendo la porta della sacrestia o della parrocchia per una risposta mal data, perché siamo stati inflessibili, perché, come guardiani del faro, abbiamo applicato con durezza le norme della curia “che dicono così e così». A volte dobbiamo farlo, ma c'è modo e modo. Anche per salvaguardare il Codice c'è modo e modo. Alla gente si può dire tutto, e la gente accoglie tutto, se tu glielo dici con amore.
Pati humana significa questo: entriamo con più pazienza? nelle ragioni degli altri. In Sud-America dicono: «Bisogna mettersi in corpo l'occhio dei poveri», mettersi in corpo l'occhio degli altri, per poterli capire, dal latino capere, accogliere. Condividiamo la storia del nostro popolo, del nostro paese, della nostra parrocchia, diventando davvero clero indigeno. Facciamoci carico dei suoi problemi reali di sofferenza, di povertà, di disoccupazione, di peccato, di sfratto, di miseria morale, fisica.
Non basta amare la gente: verifichiamo sempre le motivazioni che ci spingono a questa donazione, perché non è raro che si creda di dare e invece si voglia soltanto prendere. Non abbiate paura di chi vi accusa di “orizzontalismo” quando vi interessate un po' troppo delle cose umane. Non abbiate paura, perché anche Gesù, per salvare il mondo, si è steso, orizzontale, sulla croce prima di essere innalzato, verticale, tra cielo e terra.
Ho già ricordato mons. Armido Gasparini, vescovo missionario in Etiopia: un giorno guidava instancabile lungo le piste della foresta, percorse da molta gente a piedi, soprattutto da donne, curve sotto pesanti fasci di legna. A un certo punto si ferma a salutare alcune vecchiette, dicendomi: «Queste sono della mia diocesi». La sua diocesi è grande quanto l'Italia meridionale da Napoli in giù. Sceso dal gippone, ha dato loro qualche spicciolo e le ha abbracciate. Mentre ripartivamo piangeva e, quasi scusandosi, mi diceva: «Sai, sono cristiani, sono i miei cristiani». Poi, tutto felice, aggiunse: «Forse tu non la condividerai, ma io faccio sempre una preghiera al Signore. - Posso dirtela? Sicuro, dimmela! - Io prego così: Signore, se non entrano in paradiso questi, non voglio venirci neanch'io».
È una preghiera straordinaria, una preghiera di piena solidarietà con il suo popolo: un vescovo fatto popolo chiede di rimanere alle porte del Regno se il suo popolo non entra nel Regno. Non è un romantico: è un uomo di 77 anni ed è stato tutta una vita in mezzo a quelle sofferenze, ma l'ho visto piangere perché alle sofferenze della sua gente non ha fatto l'abitudine. È ancora capace di farle proprie. Questo significa pati humana, soffrire le cose umane. E lui sa benissimo che, andando in paradiso, i suoi cristiani se li porterà dietro tutti.
L'immanenza della Trinità e i problemi segnati in agenda.
Per finire, posso riferire una mia esperienza dove ho dovuto mescolare la passione per le cose di Dio con la passione per le cose degli uomini. Commentavo settimanalmente in una «lettera ai catechisti» l'inizio della prima lettera di Giovanni: “Ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta».
Volevo spiegare questa «comunione» ai catechisti, poveri di profonda cultura teologica, e far capire che proprio noi, tutti noi - con-morti, con-sepolti, con-risuscitati con Cristo e diventati «figli nel Figlio» - saremo nel Padre, nel Figlio, nello Spirito, in casa della Trinità, senza... violazioni di domicilio. Di solito queste lettere le scrivo nella calma, di sera o di notte, ma quella volta, in visita pastorale, mi ridussi a scrivere all'ultimo momento, in sacrestia tra un incontro e l'altro.
“Carissimi catechisti - scrissi - avrei voluto scrivervi questa pagina in un clima di raccoglimento, in Chiesa, per esempio, come ho fatto altre volte, anzi nel cuore di una veglia notturna. L'inizio della prima lettera di Giovanni giunge alla stretta decisiva: per coglierne la forza non c'è momento migliore della notte, ma ora mi ritrovo qui, in pieno giorno, nella sacrestia di una parrocchia dove sto facendo la visita pastorale. Non riesco a concentrarmi: c'è tanta gente li fuori che vuole parlarmi e viene a raccontarmi i suoi problemi, che non sono quasi mai di natura altamente teologica. Pazienza. Vorrei scrivere qualcosa tra un colloquio e l'altro, ma l'agenda s'infittisce di ben altri appunti: chiamare Anna che è tornata a Trani da sua madre e ha lasciato a Molfetta il marito e tre figli; mettersi in contatto con don Picchi per trovare un posto a Nadia che si buca; andare in via Mazzini a visitare Michele, vittima di un esaurimento, che non vuole avere contatti con nessuno; parlare con la superiora dell'asilo per vedere se può prendere gratis nella scuola materna il bambino di una ragazza madre. Dio mio, quanta tristezza! Com'è difficile riandare al mistero trinitario, su cui dovrei scrivervi. Questo girotondo di persone ferite, di persone sconsolate, di situazioni insanabili, di violenze sotto traccia. Che fatica combinare il vocabolario suggerito dalla dottrina biblica con quello urlato dalla disperazione degli uomini. Quanto lontana è la luce dei cieli da questi crepuscoli vermigli della terra tinti di lacrime e di sangue.
«In cima a un foglio ho segnato: mutua immanenza delle Persone divine, ma che cosa ha da spartire questo concetto, che pure avrei voluto spiegarvi, col 70% di invalidità di Luigi, che mi sono annotato più sotto, nella speranza di segnalarlo alla casa di riposo dove non hanno voluto accogliere sua moglie, anch'essa anziana e malata di diabete? Che senso ha che sul dritto del foglietto dei miei appunti abbia abbozzato alcune frasi sulla inabitazione della Trinità nell'anima del giusto, e sul rovescio mi ritrovo il numero telefonico del SUNIA, presso cui stasera dovrò protestare perché ad una famiglia numerosa, che abita in un locale diroccato fuori mano, non hanno concesso il punteggio giusto per l'assegnazione delle case popolari? No, non ce la faccio proprio, carissimi catechisti, a continuare il discorso sulla dimora inaccessibile di Dio dove un giorno, con-morti, con-sepolti, con-risuscitati, risiederemo con Cristo per sempre, mentre un poveruomo, dall'aspetto un po' ebete, insiste perché vada a trovare il figlio handicappato nell'umido sottano dove abita da vent'anni.
«Ma cos'è questo sortilegio che mi impedisce di parlarvi dell'amore eterno del Padre, della consustanzialità del Figlio e della forza ricreante dello Spirito, dirottandomi dalle autostrade a scorrimento veloce della riflessione trinitaria sui viottoli impervi di questa terribile quotidianità? E perché proprio i fogli dell'agenda, su cui avrei dovuto raccontare dello Spirito che geme dentro di noi, si vergano di note che raccontano i gemiti della povera gente?
«E perché la meditazione, che pure avevo deciso di farvi sulla condiscendenza del Figlio e sul suo abbassarsi al nostro livello e sul suo voler fare tutt'uno con noi, è stata soppiantata sul mio bloc-notes da un malinconico promemoria che mi ricorda il tentativo di far fare la pace, domani, tra Maria e suo fratello Giovanni, il quale ha torto marcio ma che, essendo più grande, non vuole piegarsi a chiederle scusa?
“E perché gli appunti che avrei dovuto riservare alla giustizia e alla misericordia del Padre, come per un'incredibile dissolvenza, si tramutano sotto la mia penna nel rilievo che quel giovane medico ha subito un'ingiustizia colossale al concorso della USL, o che Antonella, scappata da casa e sposatasi con un divorziato, non ha più trovato pietà presso i suoi genitori?
«È inutile, non ce la faccio proprio a sollevarmi verso le vertigini trinitarie, sono troppo impantanato nei problemi dei nostri umani crepacci. Mi fermo qui, forse sono troppo stanco. Se mi riuscirà stanotte riconsidererò tutto nel silenzio della mia cappella. Per ora perdonatemi. Vi saluto».
Poi ho aggiunto un post-scriptum: «È vero, è tutto vero. Ho rimeditato su tutto ciò che ho scritto ieri e il Signore mi ha suggerito di non cambiare neppure una virgola: forse è proprio vero che le strade del cielo attraversano i poveri incroci della terra».
Inabitazione e condiscendenza si intrecciano nella nostra storia: pati humana. Vi auguro, carissimi fratelli, che possiate sentire tutto questo - voi che toccate il Signore - possiate dare risposte a tutti coloro che vi interrogano, risposte che alimentino la speranza.
L'ultima sera di quella visita pastorale, di domenica, celebravo l'ultima Messa solenne. C'era tantissima gente. Alla comunione si è presentato un giovane alto, sui trent'anni, con una bambinetta in braccio. Al rituale: “Il corpo di Cristo - Amen», la bambina ha esclamato: «È buona, papà?». Sono rimasto lì, bloccato per un momento. Poi, con la pisside in mano, mi sono fatto largo tra la gente, ho raggiunto quell'uomo che si stava allontanando e ho abbracciato la bambina. «È buona, papà?». Anche a noi la gente chiede se la Parola di Dio è buona, se la croce è buona, se l'amore che noi abbiamo per Gesù Cristo è buono. Auguriamoci, carissimi confratelli, di poter rispondere sempre: «Ma certo che è buona!”.
Tonino Bello.
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