Cap III. - NEL SEMINARIO.

Così gli fu possibile frequentare a suo piacimento la santa eucaristia, che egli dichiara essere stata il più efficace alimento della sua vocazione.

Cap III. - NEL SEMINARIO.

da Don Bosco

del 14 dicembre 2011

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Il seminario dell'archidiocesi torinese era allora a Chieri; Giovanni Bosco vi entrò il 30 ottobre 1835 in età di vent'anni.

Osservatore pronto e sagace, il giovane chierico in un batter d'occhio si fece un'idea esatta del luogo, delle persone e delle cose. Vi s'informò premurosamente degli esercizi di pietà. Bene per la messa, la meditazione, la terza parte del rosario, quotidiane; bene anche per la confessione, settimanale; meno bene invece per la comunione, che si poteva ricevere soltanto nelle domeniche e in solennità speciali.

Per andarvi qualche altra volta lungo la settimana bisognava commettere una disobbedienza: si doveva cogliere l'ora di colazione e infilare di soppiatto la porta che metteva in una chiesa attigua. Ma poi, appena finito il ringraziamento, non c'era tempo da perdere per raggiungere i compagni, che tornavano allo studio e alla scuola; sicché in tali casi fino a pranzo si restava con lo stomaco digiuno. Questa infrazione di regolamento sarebbe stata a buon diritto proibita; ma nel fatto i superiori vi davano tacito consenso, giacché lo sapevano benissimo e a volte anche vedevano e non dicevano nulla.

Così gli fu possibile frequentare a suo piacimento la santa eucaristia, che egli dichiara essere stata il più efficace alimento della sua vocazione.

Nutrito col pane degli Angeli, lo spirito ecclesiastico del buon:seminarista si veniva formando sotto il soave influsso della sua divozione a Maria Santissima. Portava egli profondamente scolpite nella memoria e nel cuore le ultime parole dettegli dalla madre prima che partisse per il seminario.

Popolana illetterata, essa possedeva però in grado eminente quel sensus Christi, è sapienza infusa dall'alto e attitudine a giudicare veracemente delle cose divine, quale si riscontra in tante anime semplici con meraviglia dei profani, ma senz'ombra di sorpresa per chi sappia che sono i doni dello Spirito Santo.

Giovanni dunque, com'egli racconta nelle Memorie aveva ricevuto dall’amata sua genitrice questo grande ammonimento: Quando dei venuto al mondò ti ho consacrato alla Beata Vergine; quando hai cominciato i tuoi studi, ti ho raccomandato la divozione a questa nostra Madre; ora ti raccomando di essere tutto suo: ama i compagni divoti di Maria; e se diverrai sacerdote, raccomanda e propaga mai sempre la divozione di Maria». Memore del saggio avviso materno, egli ebbe cura di associarsi a compagni «divoti della Vergine, amanti dello studio e della pietà».

Parecchi di quei compagni a lui sopravvissuti deposero chi su gl'irresistibili suoi inviti a seguirlo in chiesa per recitare il vespro della Madonna o altre preghiere in onore della gran Madre di Dio, chi sul suo fervore nel tradurre e illustrare familiarmente inni liturgici indirizzati a Maria, chi sull'amabile piacevolezza, con cui ne celebrava le glorie, raccontando nelle ore di ricreazione esempi edificanti. Ancora studente di filosofia, si stimò ben felice di dover salire la prima volta il pulpito per tenere un discorso sulla Madonna del Rosario, primizia di quella multiforme predicazione mariana, che sarebbe stata sua delizia fino alla vecchiaia.

Ripetute volte dopo d'allora Giovanni Bosco, semplice chierico, montò in pergamo: giacché, vista la sua franchezza, si ricorreva a lui in casi disperati durante le ferie estive, né egli si sgomentava o si faceva molto pregare. Il fatto merita attenzione. Ognuno, dice il vecchio aforismo, è abbastanza buon parlatore nelle cose che sa bene; pectus disertos facit, un altro aforismo non meno antico, quasi completando il primo, la vera facondia cioè viene dal cuore. Nel chierico Bosco entrambi gli elementi concorrevano fin d'allora a formare l'oratore sacro.

Fra i suoi propositi della vestizione aveva messo anche questo: «Siccome nel passato ho servito al mondo con letture profane, così per l'avvenire procurerò di servire a Dio dandomi alle letture di cose religiose». Di cose religiose, si badi bene, non ascetiche o spirituali, non mai intermesse. Orbene, durante il ginnasio egli aveva letto avidamente i classici italiani e latini per arricchire la sua cultura profana o letteraria che si voglia dire, mosso da quegli alti sensi ond'è ispirata un'intelligenza come la sua verso tutto ciò che sia idealmente bello e grande; nel seminario invece faceva usura del tempo per divorare opere anche voluminose di storia ecclesiastica, di catechetica e di apologia.

È poi risaputo che, data la sua memoria tenacissima, per lui «leggere era ritenere»; lo asserisce egli medesimo. Tante letture per altro non gli giovavano solo a procacciarsi un'arida e sterile erudizione, ma soprattutto per «servire a Dio», in quanto che al contatto della sua anima ardente d'amor divino le cose lette gli si convertivano in calore vitale di fede e di zelo. Onde in lui scienza della religione e scienza dei Santi traevano reciproco vantaggio da tali sussidi, procedendo normalmente di conserto; ecco perché, presentandosi occasioni di predicare anche all'improvviso, non gli mancava né materia né ardore, ma pochi istanti di raccoglimento e di preghiera gli bastavano per sentirsi pronto.

Del resto, Giovanni Bosco non predicava continuamente? Se, prescindendo dall'idea solenne risvegliata in noi dal verbo predicare, facciamo astrazione da un pubblico adunato in chiesa attorno alla cattedra di verità, e ci restringiamo all'elemento essenziale del suo significato, che è annunziare la parola di Dio, non sarà predicatore ogni seminatore solerte della buona parola? In tal senso, che abile, che instancabile predicatore non fu il chierico Bosco nel seminario di Chieri! Osserviamolo.

Moltissimi giovinetti della città corrono al giovedì a visitarlo; egli scende, s'intrattiene allegramente con loro come prima, discorre di scuola e di studio, ma anche di sacramenti, e non li licenza se non dopo averli condotti in chiesa per una breve preghiera. Ai condiscepoli, che vedono e che un giorno ricorderanno, suole ripetere: «Bisogna sempre introdurre nelle nostre conversazioni qualche pensiero di cose soprannaturali; è un seme che a suo tempo darà frutto».

Tra siffatti semi egli mescola anche pensieri sulla vocazione allo stato ecclesiastico, secondo che il suo sguardo scrutatore ne scorge l'opportunità. Inoltre, insegnare la dottrina cristiana ai fanciulli si direbbe che sia la sua passione; egli non si lascia mai sfuggire l'occasione di far catechismi! Anzi s'ingegna di farne nascere quante più può di tali occasioni.

Seminatore di parole buone anche entro il recinto sacro. Nelle ricreazioni più lunghe i chierici di miglior condotta tengono circoli scolastici; questa consuetudine gli piace assai, perché, oltre che allo studio, la sperimenta assai giovevole alla pietà. Si stringe così intorno a lui un gruppo di intimi, una specie di santa lega per l'osservanza delle regole e per l'applicazione allo studio, ma insieme per infervorarsi l'un l'altro nella vita spirituale. Tuttavia anche fuori di questi convegni le sue conversazioni finiscono d'ordinario nell'argomento prediletto, quasi sale, cui con grazia asperge ogni discorso.

- Parlava volentieri di cose spirituali, - attesterà uno degli assidui. E poi c'è la vena inesauribile dei racconti, coi quali incanta e incatena. Non mancò mai, nei cinque anni che fui suo condiscepolo, dirà ancora l'incanutito amico, alla risoluzione presa di raccontare ogni giorno un esempio tratto dalla storia ecclesiastica, dalla vita dei Santi e dalle glorie di Maria. La risoluzione qui accennata entrava nel programma di vita chiericale, che già conosciamo. Insomma, bisogna avere il cuore pieno di Dio, per parlare di Dio così, quasi ad ogni aprir di bocca.

Il più costante degli esterni nelle visite al chierico Bosco e il più aspettato di tutti era naturalmente nel primo anno di seminario Luigi Comollo, che frequentava allora l'ultima classe ginnasiale. Degni sempre l'uno dell'altro, non avevano segreti fra loro; entrambi amanti di Dio, si comunicavano i propri disegni per una vita da consacrare interamente alla salute delle anime. È facile perciò immaginare qual buona compagnia si facessero, dopo che si ritrovarono uniti nel seminario. Qui per fortuna le fonti d'informazione non iscarseggiano; possiamo perciò tener dietro un po’ da presso ai due amici e così indagare meglio la vita seminaristica di Giovanni Bosco in quello che c'interessa.

L'uniformità regolamentare fa si che le giornate del seminarista più o meno si rassomiglino, né, generalmente parlando, vi trovano favore le spiccate manifestazioni di tendenze individuali. Per giunta, il chierico Bosco, a detta d'un suo vecchio professore, progrediva bensì notevolmente nello studio e nella pietà, ma «senz'averne le apparenze, a cagione di quella sua bonarietà, che fu poi la caratteristica di tutta la sua vita». Onde nel seminario agli occhi dei più egli passò incompreso, sicché ci vollero gli sviluppi posteriori, perché quei d'allora, richiamando alla mente le cose remote, capissero ciò che non avevano capito prima e dicessero quindi come disse un altro professore di Giovanni: «Io lo ricordo, quand'era mio scolaro; era pio, diligente, esemplarissimo. Certo nessuno a quel tempo avrebbe pronosticato di lui quel che è adesso. Ma debbo dire che il suo dignitoso contegno, l'esattezza con cui adempiva i doveri suoi di scuola e di religione, erano cosa esemplare».

Peccato che di così preziosi testimoni il tempo inesorabile abbia troppo presto assottigliato il numero o indebolita la memoria! A buon conto, profittiamo di quanto ci è pervenuto attraverso le notizie sicure che si possiedono circa i suoi amichevoli rapporti col chierico Comollo.

Studio e pietà, scuola e religione: ecco dove anzitutto i due bravi chierici andavano pienamente d'accordo. Nei giovani di bell'ingegno l'amore allo studio minaccia da tre lati la pietà. Primieramente, l'attività mentale, dominando lo spirito, lo popola d'idee, la cui associazione distrae non poco durante i pii esercizi. Poi, i buoni risultati sollecitano la vanità giovanile, che a poco a poco, in chi vi cede, fa svanire la soave unzione della grazia. Infine gli studiosi appassionati cadono facilmente nella tentazione di accorciare la durata della preghiera o di mendicare pretesti per esimersene al possibile, proclivi come sono a stimar perduto il tempo che non impieghino al tavolino.

Nelle Congregazioni religiose i chierici passano agli studi dopo un periodo di apposita preparazione spirituale, che insegna loro a mettere la pietà in capo a tutto; ma i seminaristi, indossato l'abito chiericale, ripigliano il giorno dopo la vita di studenti, sicché, se si affezionano sul serio ai libri e ai maestri, non hanno quasi più testa per la chiesa e le pratiche di pietà, o almeno stentano grandemente a prendervi gusto.

Il chierico Bosco la vinceva sull'amico in vigore di mente; ma nell'ardore per lo studio e per la pietà se la intendevano fra loro a meraviglia. Riguardando lo studio come un dovere e ben sapendo che anche nei doveri c'è una graduatoria, assegnavano le prime parti ai doveri verso Dio. Convinti inoltre che per ecclesiastici lo studio è mezzo, non fine a sé, e mezzo di second'ordine per far bene alle anime, dovendosi mandare innanzi a tutto il resto la santità della vita, erano lungi mille miglia dal subordinare all'amor del sapere lo spirito di preghiera; onde il mutuo aiutarsi a progredire nella vita interiore. «Finché Dio conservò in vita questo incomparabile compagno, scrive Don Bosco, gli fui sempre in intima relazione. Io vedevo in lui un santo giovanetto; lo amava per le sue rare virtù; e quando ero con lui, mi sforzava di imitarlo in qualche cosa, ed egli poi amava me, perché lo aiutava negli studi».

In una sola cosa accidentalissima, ma rivelatrice, Giovanni Bosco manteneva il suo modo di vedere. Luigi Comollo, divoto com'era di Gesù Sacramentato, accostandosi con il massimo raccoglimento alla sacra mensa, dava in sussulti di commozione; indi, tornato al suo posto, sembrava che fosse fuori di sé, pregando fra singhiozzi, gemiti e lacrime, né riavendosi da quei trasporti di pietà se non al termine della messa. Giovanni avrebbe voluto che egli si frenasse per non dar nell'occhio; l'altro invece rispondeva che, se non avesse dato sfogo alla piena degli affetti, gli sarebbe parso di soffocare. Ne rispettò l'ardente divozione, ma per conto suo si sentiva avverso a quanto avesse aria di singolarità o destasse ammirazione.

La pietà non meno accesa aveva differente aspetto. Nell'andare e tornare dalla comunione, nulla di eccezionale; dopo, nel fare il ringraziamento, restavasene immobile, con la persona dritta, il capo leggermente chino, gli occhi chiusi e le mani giunte dinanzi al petto. Non un segno di emozione, non un sospiro; solo di quando in quando un tremar delle labbra, che proferivano qualche muta giaculatoria. La fede però ne illuminava tutto il sembiante.

Fuori del seminario, nei mesi di vacanza, i due amici s'indirizzavano frequenti lettere e si scambiavano visite, in cui le cose spirituali solevano formare l'argomento favorito. Uno dei documenti più notevoli intorno alle loro sante relazioni è la biografia del Comollo, morto in fresca età durante il secondo anno di teologia; Don Bosco, scrivendola, vi celò se stesso sotto l'appellativo impersonale di «intimo amico».

La storia naturalmente deve fare le sue riserve sull'abitudine dell'autore a rappresentare quest'«in-timo amico» sempre e solo a mezz'ombra e il Comollo in piena luce: non mancano altrove notizie per appurar il vero; ma una conclusione intanto ne balza fuori certissima, ed è che essi erano proprio due anime in un nocciolo: segno evidente che li affratellava intima conformità di spirito. Pares cum paribus.

Abbiamo fatto menzione delle vacanze. «Un gran pericolo pei chierici, scrive Don Bosco, sogliono essere le vacanze, tanto più in quel tempo che duravano quattro mesi e mezzo». Egli si prefiggeva ogni volta di santificarle, conservando integro il fervore del seminario. Tolto il primo anno, in cui lo trascorse presso i Gesuiti a Montaldo, facendovi da ripetitore di greco in una classe di convittori e da assistente in una camerata, negli anni successivi il suo tenor di vita durante le ferie, quale ci risulta da testimoni e documenti autorevoli, si riassumeva in due parole: fuggire l'ozio e attendere a pratiche divote.

Per non vivere in ozio divideva il tempo fra lo studio, i lavori manuali, consigliatigli anche da bisogni di salute, e le ripetizioni scolastiche. Da paesi vicini si recavano presso di lui a gruppi o separatamente e in ore diverse del giorno studenti, che desideravano esercitarsi un po’ più nelle materie studiate o prepararsi bene ai loro nuovi corsi. Egli vi si prestava di buon grado; ma ecco la testimonianza di un professore che era stato del bel numero: «La prima lezione era quella dell'amor di Dio e dell'obbedienza ai suoi comandamenti, e non finiva mai la scuola senza esortarli alla preghiera, al timor del Signore ed a fuggire il peccato e le occasioni di peccare».

Quanto alle pratiche divote, nulla di straordinario, secondo il suo costume, ma fedele osservanza di quelle proprie della vita chiericale: meditazione, letture spirituali, rosario, visita al Santissimo Sacramento, assistenza quotidiana alla santa messa, frequente confessione, frequentissima comunione. Si prestava poi volenteroso a servire in qualsiasi funzione sacra. Tutte le domeniche faceva con zelo ed efficacia il catechismo ai giovanetti in parrocchia. Ogni volta che udisse la campana dare i tocchi del santo Viatico, s'avviava prontamente alla chiesa, distante tre chilometri, si metteva la cotta, prendeva l'ombrello e accompagnava il Santissimo. Né si dispensava dall'assistere alle predicazioni parrocchiali. Conscio infine dell'importanza inerente al buon esempio, serbava dovunque e con chicchessia un contegno composto e inappuntabile, talché i suoi conterrazzani l'avevano in altissimo concetto.

L'assodarsi in lui dello spirito ecclesiastico, che è interiore ed esteriore santità di vita, emerge ancora da caratteristici episodi che ne infiorano la biografia, ma che sarebbe fuor di luogo riferire qui anche per sommi capi. Fa invece direttamente al nostro scopo prendere conoscenza delle disposizioni spirituali, con cui andò ricevendo gli Ordini sacri.

Pressoché al termine della sua carriera mortale, parlando di quel punto decisivo che nella vita di un ecclesiastico è il suddiaconato, egli ci palesa l'animo suo con espressioni, in cui non sapremmo che cosa maggiormente ammirare, o la sua estrema delicatezza di coscienza o la stima profondissima che aveva dello stato sacerdotale, frutto l'una e l'altra del suo vedere costantemente le cose in Dio «Ora che conosco le virtù, scrive, che si richiedono per quell'importantissimo passo, resto convinto che io non ero abbastanza preparato; ma non avendo chi si prendesse cura diretta della mia vocazione, mi sono consigliato con Don Cafasso, che mi disse di andare avanti e riposare sulla sua parola.

Nei dieci giorni di spirituali esercizi tenuti nella Casa della Missione in Torino ho fatto la confessione generale, affinché il confessore potesse avere un'idea chiara della mia coscienza e darmi l'opportuno consiglio. Desiderava di compiere i miei studi, ma tremava al pensiero di legarmi per tutta la vita; perciò non volli prendere definitiva risoluzione, se non dopo aver avuto il pieno consentimento del confessore. D'allora in poi mi sono dato il massimo impegno di mettere in pratica il consiglio del teologo Borel: - con la ritiratezza e la frequente comunione si conserva e si perfeziona la vocazione -». Il buon sacerdote torinese aveva risposto così a una domanda del chierico durante un corso di esercizi spirituali da lui predicati nel seminario.

Concordano con queste espressioni anche le notizie di cui andiamo debitori a un suo carissimo condiscepolo e intimo amico, divenuto più tardi suo confessore fino al letto di morte. Deponendo su gli esercizi spirituali fatti dal diacono Bosco in preparazione al presbiterato, egli ne parla in questi termini: «Li fece in modo edificante. Era compreso, in modo straordinario, delle parole del Signore, che udiva nelle prediche, e specialmente in quelle espressioni che indicavano la grande dignità che avrebbe fra poco conseguita».

A ricordo perenne di quel sacro ritiro si fissò in carta nove propositi, il penultimo dei quali diceva così: «Ogni giorno darò qualche tempo alla meditazione e alla lettura spirituale. Nel corso della giornata farò breve visita, o almeno una preghiera al Santissimo Sacramento. Farò almeno un quarto d'ora di preparazione e altro quarto d'ora di ringraziamento alla santa messa».

Questo secondo programma di vita non apporta nulla di sostanzialmente nuovo dopo l'altro già noto, ma solo v'introduce modificazioni accidentali richieste dalle circostanze. Gli è che Don Bosco non si mosse mai a tentoni, come chi cammini al buio, neanche nei primi albori della ragione. Se fosse lecita una piccola facezia, di quelle che piacevano tanto a Don Bosco, diremmo che in lui non tardò come in tanti altri a spuntare il dente del giudizio. Infatti, dacché l'età gli accese nell'anima il primo barlume di ragione, tosto egli scoprì quale fosse per lui la strada giusta e vi entrò difilato, tirando avanti nei modi e con i mezzi, che di mano in mano il suo buon discernimento naturale, avvalorato dalla divina grazia, gl'indicava migliori. Entrambi perciò i programmi poggiano, per dir così, sopra i quattro capisaldi, sui quali la santità di Don Bosco si verrà erigendo: lavoro e preghiera, mortificazione interna ed esterna, e poi, com'egli amerà pudicamente esprimersi in seguito, la bella virtù.

Nel programma nuovo si delinea meglio la parte dell'azione. Da sacerdote Don Bosco, stando a queste risoluzioni, non farà mai passeggiate, se non per grave necessità, per visite a malati e simili; occuperà rigorosamente bene il tempo: «patire, fare, umiliarsi in tutto e sempre, quando trattasi di salvare anime»; non darà al corpo più di cinque ore di sonno ogni notte; lungo il giorno, specialmente dopo il pranzo, non si concederà alcun riposo, tranne in caso di malattia. Ma l'azione non sarà mai scompagnata dall'orazione; come nel passato, così sempre la meditazione avrà il suo posto nell'attività d'ogni giorno. Sì, nella meditazione quotidiana, incontro d'ogni di con se stesso, il sacerdote assediato dalle occupazioni attingerà lo spirito di raccoglimento e di preghiera, di cui avrà stretto bisogno per mantenere in sé viva la fede, per tenersi abitualmente unito al Sacerdote Sommo Gesù Cristo, del quale è ministro, e per riceverne copiose grazie nell'esercizio del sacro ministero.

Non mai dunque Marta senza Maria nella vita sacerdotale di Don Bosco. Sarà ora Marta orante, ora Maria operante: Marta in orazione finché durerà per lui il periodo dell'attività più intensa, e Maria nell'azione, verso il tramonto dei suoi giorni, quando quell'attività sarà ridotta ai minimi termini; ma nell'un tempo e nell'altro, non fu mai dimenticato da lui il sine intermissione orate.

 

 

Eugenio Ceria

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