del 14 dicembre 2011
I fisici, per istabilire quale sia la costituzione sostanziale di un astro, usano un mirabile procedimento. Fanno passare attraverso un prisma la luce che irraggia dall'astro; il fascio dei raggi luminosi, attraverso il prisma, si scompone, producendo una traccia allungata e variamente colorata, che va a cadere su d'uno schermo bianco e si chiama spettro. L'analisi delle tinte componenti lo spettro permette allo scienziato di cogliere nel segno; a tanta immensità di lontananza non c'è fino ad oggi altro mezzo per venirne a capo.
In Don Bosco, anima piena di Dio, lo spirito di preghiera non aveva manifestazioni tali che dessero la percezione immediata della sua natura e intensità; per conoscere il carattere e misurarne il grado è dunque necessario sottoporre a diligente esame gli atti della sua vita ordinaria.
Pochi uomini furono così straordinari sotto così ordinarie apparenze. Nelle cose grandi come nelle piccole, sempre la medesima naturalezza, che di primo tratto non rivelava in lui nulla più d'un buon prete.
Nei primordi, solo chi per consuetudine di vita poteva aver agio d'osservarne l'abituale presenza a se stesso in qualsiasi momento o incontro o accidente o intrapresa e aveva insieme occhio acuto per discernere l'efficacia del suo operare ovvero chi possedeva il difficile intuito che distingue prontamente uomo da uomo, come fu del Papa Pio XI, concepiva di Don Bosco tutta quanta l'ammirazione ch'ei si meritava. Qual meraviglia perciò, se alcuni non lo compresero tosto e se altri perfino lo fraintesero o lo intesero a rovescio? Pochi invero questi ultimi, e sempre più rari con l'andar del tempo; ma vi furono in realtà dei cotali.
Per restringerci al nostro assunto, diremo che negli anni della sua massima attività non tutti s'avvidero che uomo d'orazione fosse Don Bosco; anzi, oseremmo aggiungere che non sempre neppur coloro che scrissero delle cose sue, penetrarono a fondo il suo intimo spirito di preghiera, solleciti di narrarne i fatti grandiosi. Per altro, il materiale biografico a noi trasmesso si presta egregiamente alle indagini di chi si accinga a scrutarne la vita interiore. È il tentativo, nel quale modestamente insisteremo con queste pagine.
Spontanea espansione soprannaturale dell'anima di Don Bosco appena fatto sacerdote fu l'oratorio festivo. Non creò di sana pianta la cosa, non coniò di primo getto il vocabolo. C'erano i catechismi domenicali ai giovani delle singole parrocchie; esistevano oratori di san Filippo Neri e di san Carlo Borromeo.
Don Bosco, quando per le condizioni dei tempi tanti giovani non conoscevano più parrocchie, organizzò oratori interparrocchiali, dove raccogliere le pecore randagie; Don Bosco ai catechismi coordinò tutta una serie di pratiche, le quali riempissero l'intero giorno del Signore. Dal suo grande amor di Dio veniva a Don Bosco un sentimento vivissimo dell'evangelico sinite parvulos, più che allora vedeva prepararsi alla gioventù insidie da molte parti e in molti modi; «la mia delizia, die'egli descrivendo i primordi del suo sacerdozio, era fare il catechismo ai fanciulli, trattenermi con loro, parlare con loro». Sembrerebbe perfino che i fanciulli medesimi sentissero istintivamente il fascino di quella dilezione salvatrice; poiché, stabilito che ci fu a Torino, «subito, scrive, mi trovai una schiera di giovanetti che mi seguivano per i viali e per le piazze». Sicché l'adunarne in gran numero gli costò fatica assai minore che non l'avere dove raccoglierli.
Il suo zelo mira a un fine solo: unirli tutti a Dio mediante l'obbedienza ai divini comandamenti e alle leggi della Chiesa. Onde procurava anzitutto di ottenere che osservassero il precetto di ascoltare la messa nei giorni festivi; che imparassero poi e dicessero le orazioni del mattino e della sera; che per ultimo fossero preparati a confessarsi e comunicarsi bene. Frattanto avviava bel bello l'istruzione religiosa per mezzo di catechismi e predicazioni che si confacessero alla capacità loro.
Contemporaneamente inventava tutta una varietà di trastulli, che agissero da calamite per aumentare il numero e assicurare la frequenza; sebbene la calamita più attraente fosse egli stesso con la sua inesauribile bontà. Così il giorno festivo poteva dirsi in tutto il senso della parola dies sanctificatus. ottimamente si attagliava a questi convegni festivi il nome di oratori prescelto fra diversi altri da Don Bosco, perché appieno rispondente al suo ideale.
Il termine, divenuto popolarissimo in Italia, aspetta ancora dai dizionari della lingua la significazione nuova accanto alla vecchia di piccolo edifizio! L'oratorio di Don Bosco è domus spiritualis, su de viventibus saxis, sono centinaia di fanciulli, di giovinetti, di adolescenti, affollantisi dovunque vi sia chi se li chiami attorno nei giorni del Signore ad adorar Dio e ad imparare ad adorarlo per tutta la vita.
E come la pietà di Don Bosco si effondeva nel fare il suo Oratorio! Cominciò l'8 dicembre del 1841 con un giovane solo. Ebbene, avanti d'impartirgli la prima lezioncina di catechismo, si pose in ginocchio e disse un'Ave Maria Madonna, perché lo aiutasse a salvare quell'anima. Commovente e feconda preghiera! L'8 dicembre dell'85, tenendo conferenza ai Cooperatori e paragonando il già fatto con lo stato delle cose di quarantaquattro anni addietro, dichiarerà essere tutto opera di Maria Ausiliatrice in grazia proprio di quell'Ave Maria «detta con fervore e con retta intenzione». E realmente i primi effetti non si fecero aspettare a lungo.
La domenica dopo, quell'uno tornò, e non più solo, ma con un gruppetto di compagni, poveri ragazzi di strada come lui, da Don Bosco accolti e intrattenuti con la sua amabilità piena d'incanto. Da una settimana all'altra il numero di catechizzandi cresceva, e col numero la docilità e l'allegria non venivano meno.
Nella solennità del Natale parecchi già fecero la santa comunione; poi, in due feste di Maria Santissima, la Purificazione e l'Annunziata, bei cori di voci giovanili, da lui abilmente addestrate, eseguirono canti in lode dell'Augusta Madre di Dio, e bei drappelli dei più istruiti si accostarono ai santi sacramenti. Don Bosco toccava proprio il cielo col dito.
Queste prime rumorose adunanze si tenevano in luogo di silenzio, se non claustrale, almeno solo rotto a tempo debito e con moderazione, nel Convitto Ecclesiastico di Torino, ove si dava l'ultima mano alla formazione ecclesiastica di novelli sacerdoti piemontesi, mediante lo studio approfondito della teologia orale e pastorale e l'esercizio del sacro ministero, sotto la scorta di espertissime guide, fra cui primeggiò il beato Giuseppe Cafasso.
Lo zelante apostolo della gioventù non poteva trovar di meglio per allenarsi alla sua missione. I tre anni ivi trascorsi contribuirono potentemente a formare lo spirito in maniera definitiva. La grazia, che la Provvidenza gli fece col metterlo vicino a quel santo plasmatore di anime sacerdotali, non restò infruttifera.
Alla scuola del Beato egli succhiò avidamente quella pietà, che per soprannaturale intuito egli aveva già pregustata a dispetto dell'andazzo dei tempi, pietà fatta di «confidenza illimitata nella bontà e amorevolezza di Dio verso noi»; dalle sue conferenze teologiche e dalla sua direzione spirituale apprese la maniera di ascoltare le confessioni «con pietà, scienza e prudenza»; nelle sue lezioni di eloquenza sacra si sentì ribadire, che in pulpito non si va a dar prova di bravura, ma che «paradiso vuol essere, osservanza dei divini comandamenti, preghiera, divozione alla Madonna, frequenza dei santi sacramenti, fuga dell'ozio, dei cattivi compagni, delle occasioni pericolose, carità col prossimo, pazienza nelle afflizioni, e non terminare alcuna predica senza un cenno sulle massime eterne».
Condivise al suo fianco l'assistenza religiosa dei carcerati e partecipò con lui a corsi d'esercizi spirituali, infervorandosi alla vista della sua pietà ardente fra le opere di zelo. Anche nelle quotidiane conversazioni ne beveva i saggi ammaestramenti sulla «maniera di vivere in società, di trattare col mondo senza farsi schiavo del mondo, e diventar veri sacerdoti fomiti delle necessarie virtù, ministri capaci di dare a Cesare quello che è di Cesare, a Dio quello che è di Dio».
Ma a Dio non si sottrae solo per dare indebitamente a Cesare. L'essere sempre in moto per far bene può, a lungo andare, purtroppo illudere, lasciando supporre che il prodigarsi a vantaggio del prossimo dispensi dall'obbligo di trattare assiduamente e interiormente con Dio.
È di questo tempo un codicillo, chiamiamolo così, aggiunto da Don Bosco al suo noto programma di vita sacerdotale e dettatogli molto probabilmente da quella maestra di assennatezza che è, per chi la sa intendere, l'esperienza. Lo riferiamo tale quale si legge in un suo libretto; eccolo: «Breviario e confessione. ò di recitare divotamente il Breviario e recitarlo preferibilmente in chiesa, affinché serva come di visita al Santissimo Sacramento. Mi accosterò al sacramento della penitenza ogni otto giorni e procurerò di praticare i proponimenti che ciascuna volta farò in confessione. Quando sarò richiesto di ascoltare le confessioni dei fedeli, se vi è premura, interromperò il santo ufficio e farò anche più breve la preparazione ed il ringraziamento della messa, a fine di prestarmi ad esercitare questo sacro ministero».
Lo spirito di orazione, quando sia passato in consuetudine, dà alla persona un'impronta di serena compostezza e un vigile senso della giusta misura, che saltano facilmente agli occhi di osservatori non troppo superficiali. Era il caso di Don Bosco.
Al Convitto si recavano periodicamente dal beato Cafasso per la loro direzione spirituale uomini d'affari, pezzi grossi della politica e della nobiltà torinese, personaggi del gran mondo insomma. Orbene da parte di quella gente navigata Don Bosco richiamò sopra di sé l'attenzione a tal segno, che lo riguardavano fin d'allora come «un uomo tutto del Signore» e l'avevano «in grande venerazione», secondo che lo storico di lui potè raccogliere direttamente dalle labbra d'alcuni di quei signori.
 
Eugenio Ceria
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