del 14 dicembre 2011
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L’intimità con Dio, che fu l'anima del confessore, animò del pari il predicatore. Non un alimento del proprio io gonfia la parola di Don Bosco in pulpito; sempre e solo la penetra e avviva l'afflato di Dio.
Purtroppo la voglia di comparire crea grandi tentazioni ai banditori della divina parola. S'insinua essa sottile sottile nell'ingegnosità dei concetti, nella novità delle immagini, nei fronzoli eruditi, nelle eleganze di forma, nel tono stesso della voce e nella maniera di porgere; l'adulazione poi, sotto colore di cortesia, fa il resto, per chi abbia la debolezza di crederci. Grande miseria, che non appena tanto o quanto solletichi l'amor proprio di un povero predicatore, invano si cercherebbe di cautamente dissimularla, perché trapela sempre a dispetto di ogni precauzione, sviando le genti superficiali da pensieri più gravi che la parola di Dio dovrebbe infondere, e arrecando disgusto alle persone serie. È proprio un adulterare la parola di Dio, l'energica espressione di san Paolo, e quindi un or più or meno isterilirla.
Don Bosco non andò neppur lui esente da tali spiriti tentatore negli inizi della sua predicazione; 'del che egli stesso non ci fa mistero. Il buon ingegno, i forti studi, la memoria tenace, un po' l'ambiente viziato ve lo sospingevano; ma l'amore di Dio doveva prendere e prese ben tosto il sopravvento' sul diavolo del proprio io.
Nelle prediche Don Bosco di suo ci metteva l'umile preparazione; giacché, ammoniva egli i principianti, «la predica che produce migliori effetti, è quella meglio studiata e preparata». Vi premetteva ancora l'umile preghiera; anzi, mentre a Torino confessavasi regolarmente ogni otto giorni, durante le sue fatiche apostoliche si umiliava più spesso al tribunale di penitenza - egli che non seppe mai per esperienza sua che cosa fossero scrupoli - all'unico scopo di rendersi strumento meno indegno della grazia divina a pro delle anime. Così, dovunque si presentò ad annunciare la divina parola - e predicava moltissimo e in moltissimi luoghi, anche fuori d'Italia - vi si condusse da autentico ministro del Signore, mandato, più che non andato, ad dandam scientiam salutis plebi eius.
Don Bosco nella sua prima messa aveva chiesto «ardentemente» al Signore l'efficacia della parola, vale a dire la forza di persuasione per fare del bene alle anime; la quale domanda gli fu esaudita in modo da non potersi desiderar migliore, talché sul finire della vita egli scrisse con modestia eguale a verità: «Mi pare che il Signore abbia ascoltato la mia umile preghiera».
Per quel che concerne la parola detta dal pergarno, si pensi che le sue prediche filavano dall'esordio alla perorazione senza lampi, senza voli, quasi senza gesto, con un fare piuttosto lento, in uno stile monotono, in lingua popolare, non di rado in schietto vernacolo piemontese; talvolta perfino passavano il segno in lunghezza, raggiungendo estensioni inverosimili; eppure piacevano, eppure si ascoltavano con gusto, tanta era l'unzione e la naturalezza che le condiva.
A Saliceto in quel di Mondovì, per esempio, i paesani una volta lo forzarono a predicare, tolti brevi intervalli, sei ore di seguito. Si pensi inoltre che i suoi argomenti erano di cose trite e ritrite: importanza del salvarsi l'anima, fine dell'uomo, brevità della vita, incertezze della morte, enormità del peccato, impenitenza finale, perdono delle ingiurie, restituzione del maltolto, falsa vergogna in confessione, intemperanza, bestemmia, buon uso della povertà e delle afflizioni, santificazione delle feste, necessità e modo di pregare, frequenza dei sacramenti, santa messa, imitazione di Gesù Cristo, divozione alla Madonna, facilità della perseveranza; eppure stavano a udirlo senza batter palpebra, insieme col buon popolino, anche persone nobili e istruite, ecclesiastici, vescovi, affascinati no, che sonerebbe male, quasi effetto di umana suggestione, ma soavemente presi dal divino ardore, di cui si svelarono l'uno all'altro l'arcano i due discepoli di Emmaus.
Oh! con quanta verità si applicherebbe a Don Bosco predicatore il bellissimo responsorio, che i Trappisti, dicono nella festa di san Giovanni Evangelista: «Posando sul petto del Signore, attinse direttamente da quella fonte divina le acque salutari del Vangelo e diffuse per tutto il mondo la grazia della parola di Dio». Sono pur tutti ispirati gli Evangelisti; ma come negare in san Giovanni quella potenza tutta sua di eloquio, che viene dal cuore e va al cuore? e donde l'attinse egli, se non da quel Cuore, sul quale posò nell'ultima Cena e che è sempre la vera sorgente dell'eloquenza sacerdotale? Questo è il pectus disertos facit sacerdoti cattolici. Non per nulla Don Bosco portava il nome del discepolo prediletto di Gesù.
Questa particolarità, che per se stessa non dice niente, ci richiama al motivo della predilezione di Gesù per Giovanni secondo il pensiero di San Girolamo e c'induce a riferire sul predicare di Don Bosco una testimonianza tramandataci da un giovane cronista dell'Oratorio, il quale sotto il 29 maggio 1861 scrisse: «Usciti di chiesa, molti venivano meravigliati ad esclamare con me e con altri: - Oh, che belle cose ha mai detto stamane Don Bosco! Io passerei il giorno e la notte ad ascoltarlo! Oh, quanto bramerei che Dio mi concedesse il dono di poter io pure, quando sarò sacerdote, innamorare in tal modo il cuore dei giovani e di tutti per questa si bella virtù!». Don Bosco quella mattina aveva parlato della purità.
Un'idea prevalente dominava nella predicazione di Don Bosco: la nècessita di salvare l'anima. In questo appunto noi sacerdoti prò Christo legatione fungimur tamquam Deo exhortante per nos: i portavoce di Dio alle anime per le cose concernenti la loro salvezza. Questo egli stimò sempre essere suo imperioso dovere. Basti dire che non se ne esimeva neppure nei panegirici, che sono la forma di eloquenza sacra, in cui gli oratori si lasciano facilmente prendere la mano dell'andazzo: vi si aspetta, quasi vi si pretende il nuovo e il fiorito. Ecco perché il beato Cafasso aveva poca simpatia per i panegirici: ma in quelli di Don Bosco il maestro non avrebbe certamente trovato appiglio per condannare il discepolo.
Vediamone uno per saggio: sia il panegirico di san Filippo detto nel 68 ad Alba. Passando sopra a tutto il resto, egli andò a cavare il suo argomento da quello, dice, che è il cardine su cui il Santo appoggiò la pratica di tutte le altre sue virtù, cioè «lo zelo per la salvezza delle anime». Ne dipinse al vivo l'apostolato; poi, avendo saputo che fra gli uditori ci sarebbero stati sacerdoti in buon numero, eccolo di punto in bianco sonare a campane doppie anche per loro. Vi si fa strada bellamente supponendo di sentirsi muovere l'osservazione, che tante meraviglie avesse operate san Filippo a salvezza della gioventù, perché era un santo. Alla quale ipotetica uscita egli risponde: «Io dico diversamente. Filippo operò queste meraviglie, perché era un sacerdote che corrispondeva allo spirito della sua vocazione». E li ha battere sulla necessità che i preti imitino il Santo nel radunar Fanciulli per catechizzarli, per animarli a confessarli, per confessarli. Quindi, dòpo aver minacciato genitori, padroni, maestri, con apostolico ardore prosegue: «Che terribile posizione per un sacerdote, quando comparirà davanti al divin Giudice, che gli dirà: - Guarda giù nel mondo: quante anime camminano nella via dell'iniquità e battono la strada della perdizione! Si trovano in quella mala via per cagion tua; tu non ti sei occupato a far udire la voce del dovere, non le hai cercate, non le hai salvate. Altre poi per ignoranza, camminando di peccato in peccato, ora sono precipitate nell'inferno. Oh! guarda quant'è grande il loro numero! Quelle anime gridano vendetta contro di te. Ora, o servo infedele, serve nequam, conto. Dammi conto di quel tesoro prezioso che ti ho affidato, tesoro che costò la mia passione, il mio sangue, la mia morte. L'anima tua sia per l'anima di colui, che per tua colpa si è perduta. Erit anima tua prò anima ilius -». Finalmente chiude il suo discorso incorando tutti a confidare nella grazia misericordia di Dio.
Come si vede, Don Bosco predicatore spendeva bene la popolarità che ne circondava il nome e la persona: anche nei malfamati panegirici non si curava dei giudizi altrui, ma voleva e sapeva andare al sodo. Lo sperimentarono a Roma anche certe religiose di un insigne monastero, che l'avevano invitato a dire le lodi della loro Patrona, una santa martire. Anelavano grandemente di udirlo, aspettandosi da lui cose peregrine.
Don Bosco, avuto sentore che vi sarebbero intervenuti anche cospicui signori e nobili dame, lo sfoderò lui il panegirico! Esordi Facendo rilevare che da più di cent'anni in quel luogo si ripeteva l'elogio della Santa e che quindi ben magro profitto sarebbesi cavato dal ridire cose che tutti sapevano; giudicare quindi miglior consiglio, non foss'altro per amore di varietà, cambiar tema e dimostrare la necessità di tendere alla perfezione e salvare l'anima per mezzo di confessioni ben fatte.
Così, senza umani riguardi, obliando completamente se stesso, pigliò davvero più colombi a una fava; poiché alle religiose ragionò di perfezione, ai secolari rammentò la salvezza dell'anima, a tutti fece fare un buon esame di coscienza sulle loro confessioni passate. La delusione non ne avrà mandato a vuoto il frutto? No, se si deve giudicare dalla religiosa attenzione, con cui fu ascoltato. Certo son cose che stenterebbe a capire chi non sapesse che la prima legge dell'oratore sacro è dimenticare se stesso. Scampanare in pulpito col proprio io è farvi la parte poco commendevole dell'aes sonans del cymbalum tinniens: bocca invece di chi predica Gesù Cristo, esce quella parola di Dio che è viva e attiva e più affilata di qualunque spada a due tagli e penetrante nel più intimo dell'esser umano.
Ci fu bene per Don Bosco un'occasione, unica in vita sua, nella quale sarebbe sembrata non pure giustificabile, ma consigliabile qualche divagazioncella letteraria in materia religiosa; tanto pi√π che non gliene mancava la preparazione. I classici non gli avevano offerto per una diecina d'anni, anche fuori della scuola, gustoso pascolo di lettura diurna e notturna? Ma non ne fu nulla. Il caso merita di essere conosciuto.
Nel 74 amici romani l'avevano fatto aggregare agli Arcadi. Due anni dopo, l'Accademia designò lui a tenere il discorso consueto sulla Passione del Signore nella solenne tornata del venerdì santo. Il carattere letterario dell'Arcadia, la tradizione più che secolare di commettere quell'incarico a letterati, e talvolta di grido - vi lessero infatti il Monti e il Leopardi - il resto del trattenimento d'intonazione letteraria, la qualità degl'intervenuti, uomini di lettere, erano tutte circostanze che Don Bosco non ignorava né finse d'ignorare; tant'è vero che si disse «incaricato di leggere una prosa», e confessò che «l'eloquenza del dire, la forbitezza dello stile» solite a «brillare» in quell'«aula scientifica» l'avevano «messo in non lieve apprensione»; ma si confortava pensando che la «forbita penna» di altri avrebbe tosto supplito alla sua «insufficienza».
Egli però, come in ogni luogo e in ogni tempo, così anche allora volle essere colà semplicemente prete. Infatti, dopo la sua presentazione quale di «umile sacerdote», puramente da sacerdote prese a parlare. Non fece dell'ascetica né dell'oratoria, perché» non si era a predica; non fece dell'erudizione né dell'esegesi pura, perché non si era a scuola. Ma chi mai si sarebbe aspettato che egli scegliesse per argomento le Sette Parole? spirito sacerdotale di Don Bosco sembrò assurda cosa che un sacerdote in quel giorno, anzi in quell'ora, invece di trattare sacerdotalmente del sacrificio cruento offerto duemila anni innanzi dal Sacerdote eterno, si mettesse a fare della letteratura. Il pensiero nondimeno che, così facendo, avrebbe remigato contro la corrente, non lo abbandonava; onde, annunciato il tema, protestò di nuovo che all'altrui «valentia» lasciava «la sublimità dei concetti» e «gli slanci poetici» e si dichiarò contento che, se la pochezza del suo lavoro non avrebbe porto ragione di applaudire, desse però motivo di esercitare la bontà compatendo.
Qui finiva l'esordio! Le convenienze gli parvero salve; entrò dunque con pacatissima semplicità a parlare in questo modo: «Dopo mille strapazzi e tormenti, sottoposto a spietata flagellazione, coronato di spine, condannato alla ignominiosa morte di Croce, l'amabilissimo Salvatore con grande spasimo portò l'istrumento del suo supplizio fino sul Golgota». E così via, con un'espressione serrata e oggettiva. Il succo né è spremuto dalla Scrittura, dai Padri, da san Tommaso, da sacri interpreti, con buon criterio e buon metodo citati. Non discopre sentimenti propri: Don Bosco è un santo dominato quasi da uno spirituale pudore, che non gli consente di svelare i segreti movimenti della grazia: secretum meum mihi! ben si appalesano le sue intenzioni: intenzioni, come sempre, sacerdotali, d'illuminare le anime per distaccarle dal peccato e unirle a Dio.
 
Eugenio Ceria
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