Lo spirito del Signore, infiammandone lo zelo, ne governava la penna;
del 14 dicembre 2011
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Non meno che già nella parola parlata, il cuore sacerdotale di Don Bosco palpita oggi ancora nella sua parola scritta. Prese la penna per il pubblico nel 44, né più la depose; così molto diede alle stampe, molto tuttora sopravvive della sua produzione. Tre cause contribuirono a facilitargli il lavoro della penna sotto la mole di tante occupazioni: la vecchia abitudine a usufruire d'ogni briciolo del suo tempo; il vigore dell'ingegno e della memoria sorretto da pari energia di volere; l'agilità rara a sbrigare nel medesimo tempo faccende disparate fino a dettare simultaneamente su più cose diverse.
Ma questi tre coefficienti non ci spiegherebbero da soli il gran numero delle sue pubblicazioni, se non tenessimo conto pure del comune motore che li mise costantemente in atto per lo spazio di circa quarant'anni; voglio dire il suo zelo ardente per la gloria di Dio e il bene delle anime. Quindi mal ci apporremmo se credessimo possibile, recar giudizio sui libri di Don Bosco, applicando ad essi i criteri letterari. Il caro Padre, bonariamente sorridendo, ci farebbe tosto avvertiti del nostro abbaglio e ce lo direbbe con parole poco dissimili da quelle del Salesio: «Quanto agli abbellimenti dello stile, non ho voluto nemmeno pensarci, avendo ben altro da fare». Come il medesimo san Francesco dice di sé, anche Don Bosco scrive «alla buona senza pretesa né arte, perché i suoi non sanno che farsene e ad abbellirli basta quella semplicità così cara a Dio, che ne è l'autore».
Ciò che è l'ispirazione per il poeta, ciò che è la prepotente inclinazione dell'animo per l'uomo di pensiero e, per dir tutto, ciò che è la leggerezza e la vanità per gl'imbrattacarte, fu per Don Bosco lo spirito apostolico sotto il perpetuo e gagliardo impulso dell'amor divino. Questo è che lo faceva intento alle voci del giorno, questo che lo portava a rinserrarsi in biblioteca, questo che lo teneva curvo sullo scrittoio. Non è a dire che fosse in lui soverchia proclività a far gemere i torchi, come si diceva quando non stridevano ancora le macchine; lo stampare anzi, per confessione sua gli cagionava' grande apprensione; ma egli concepiva quale stretto obbligo del suo sacro ministero spendere i talenti ricevuti da Dio anche in metter argine alla cattiva stampa con la buona, disputando palmo a palmo il terreno all'errore con fogli, opuscoli e giusti volumi, con collane periodiche e ammannendo alla gioventù e al popolo manuali di soda pietà e d'opportuna istruzione religiosa e altre pubblicazioni imbevute di massime salutari. Insomma, Don Bosco che scrive e stampa, è sempre il medesimo Don Bosco che confessa e predica; a qualsiasi forma di attività si dia, egli è invariabilmente e sempre quel desso: l'uomo di Dio, per il quale, come esprime il Dottor Serafico, «ciò che è spirituale, deve sempre e dappertutto essere preferito». Dunque il tirare in campo considerazioni d'ordine letterario sarebbe per noi uscire dal seminato.
In si esuberante produzione religiosa sembrerebbe ovvio che si dovessero incontrare luoghi, dove l'autore ci desse contezza di sé e del suo mondo interiore, i soli luoghi che a noi interesserebbe di prendere in esame. Nemmeno per ombra!
Un Vescovo, scrivendo di Don Bosco, riferisce come in una conversazione questi prese a dire «col suo lento fare e parlare». Ecco ritratto l'uomo che veglia su di sé, conversando; identica vigilanza s'intravede in lui, quando scrive. Di qui avviene che la persona dello scrittore non si produca mai sulla scena: chi la vuole, bisogna che la cerchi dietro le quinte. Tuttavia questo silenzio ha pure una sua eloquenza, che tanto più esalta l'autore, quanto più l'autore nei riguardi propri ammutisce. Dell'intima sua vita spirituale si può ben dire che penetra in tutti i suoi libri, apparendo più in alcuni e meno in altri. Così ci spieghiamo l'influsso che i suoi scritti esercitano sull'animo dei lettori non sopraffatti di pregiudizi.
Il Card. Vives manifestò nel 1908 il desiderio di avere qualche operetta spirituale di Don Bosco, nella quale si rivelasse lo spirito suo di pietà. Non so quale sia stata scelta; ma or più or meno esplicitamente questo suo spirito traspare in tutte.
Un moderno poeta cristiano espresse modestia di sentire unita a coscienza d'arte, soscrivendosi «Un operaio della parola»: Don Bosco, pur senza dircelo, ci si rivela uri sacerdote della parola. Operaio della parola è chi fa con la parola opera sua e per gusto e volere suo; sacerdote della parola diremo invece chi esercita con la parola un ministero, il ministerium verbi, nuova di cosa nuovissima, con cui s'intende significare un uso sacro della parola, fatto in nome di Dio e a spirituale servizio del prossimo, per dovere di vocazione: uso dunque, in cui l'uomo non ha da presentare il suo io, ma da rappresentare il suo Dio. Un tal ministero si adempie per via ordinaria oralmente nella Chiesa con la predicazione; ma si prolunga pure e si allarga a maggior beneficio delle anime per mezzo degli scritti. In questo caso lo scrittore che dispensa la parola della salute, ascondendo l'essere suo, come fa costantemente Don Bosco lascia intendere di avere il cuore sgombro da meschine vanità e d'intingere la penna nel puro amor di Dio.
Ma le intime disposizioni di Don Bosco scrittore si comprendono ancor meglio, se si considera questa sua umiltà qual ancella industre della sua carità. In tempi di quotidiani attentati alla religione della gioventù e del popolo, egli, mosso da carità di Cristo, per contrapporre al veleno dell'errore l'antidoto della verità, fra la gioventù e il popolo pensò di formarsi una larga clientela di lettori. Ma gioventù e popolo non intendevano guari la lingua dei libri; ed eccolo condannarsi a un rinnegamento di sé, del quale ci diedero la misura le parole del Papa, quando disse nel discorso per l'eroicità delle virtù che, posta la sua «vigoria di mente e d'ingegno non comune, anzi superiore di gran lunga alla ordinaria, e propria anche di quegl'ingegni che si potrebbero chiamare ingegni propriamente detti», Don Bosco «sarebbe potuto riuscire il dotto, il pensatore, lo scrittore». Egli dunque che avrebbe potuto volgere le sue migliori facoltà a creare, le applicò a divulgare, e fu la prima rinuncia. A questa ne associò una seconda.
Anche nel campo della divulgazione, col suo temperamento, egli avrebbe saputo fare cose bèlle; 'invece si liberò da influssi letterari, appigliandosi al linguaggio della gente minuta. Nel che andò oltre il credibile; infatti leggeva i suoi lavori a persone 5 analfabete, riducendo il suo dire al livello del loro capire, e talvolta li dava a leggere nelle bozze di stampa a portinai di nessuna levatura, facendosene poi ripetere il contenuto e argomentando di li come arrivasse all’adaequatio rei et intellectus categoria di lettori da lui prescelta. Ripensando ai prodigi ignorati di quest'umile carità e all'anima eroicamente sacerdotale di chi li operava, noi vediamo non senza emozione oggi, come nel 53 il principe dei periodici cattolici d'Italia, segnalasse a' suoi lettori «un modesto ecclesiastico... che si appella Don Bosco», a proposito di certi «librettini di piccola mole, pieni di soda istruzione, adatti alla capacità del popolo minuto e tutta cosa opportuna» per quei tempi agitati e difficili.
Il «modesto ecclesiastico» del periodico romano diventò parecchi decenni dopo «angelico sacerdote» nel libro di un letterato fiorentino. Angelico egli fu per varie ragioni, ma soprattutto per una, di cui intendiamo qui far parola. Trapela dagli scritti di Don Bosco un geloso amore alla virtù angelica, amore che gli ha dettato l'articolo trentacinquesimo delle Regole: «Chi non ha fondata speranza di poter conservare, col divino aiuto, la virtù della castità nelle parole, nelle opere e nei pensieri, non professi in questa Società».
La sesta beatitudine evangelica, rivelandoci le intime comunicazioni di Dio con i mondi di cuore, abbastanza il nostro entrare in quest'argomento ora che attraverso gli scritti miriamo all'anima dello scrittore.
Un minuscolo episodio ritrae talvolta le sembianze morali di un uomo non meno di quel che faccia un lungo discorso. Don Bosco, giovane sacerdote, preparava per le stampe i misteri del rosario. Nel rivedere sulle bozze il terzo gaudioso, si consultava seco stesso alla presenza di un amico teologo e diceva: «Si contempla come la Santissima Vergine diede alla luce. , non va. Si contempla come il nostro Redentore nacque da Maria Vergine. . Meglio così: si contempla come il nostro Redentore nacque nella città di Betlemme». Il candore della sua anima rischiara dal principio alla fine la sua Storia Sacra, lui compilata con castigatezza senza precedenti. Non il menomo neovi offusca mai tanta luminosità di purezza: il giovanetto non s'imbatte in un particolare, per quanto biblico, né in un termine, per quanto usuale, atto a produrgli un'impressione meno che casta. Il consultarla cava d'imbarazzo quegl'insegnanti che cercano la maniera di esprimersi in punti scabrosi senza pericolo d'inconvenienze. È un capolavoro di riserbo cristiano nell'educazione giovanile e un monumento parlante dell'angelica bellezza interiore di chi lo ideò e lo eseguì.
Il biografo sovrano di Don Bosco ha dettato un periodo che sembra fatto apposta per mettere il suggello al fin qui detto e per supplire a quel tanto di più che vi si potrebbe aggiungere. Scrive: «Noi siamo intimamente persuasi che qui consista sovrattutto il segreto della sua grandezza, vale a dire che Dio lo abbia colmato di doni straordinari e che di lui siasi servito in opere meravigliose, perché si mantenne sempre puro e casto».
Nello scorrere le pagine di questa Storia Sacra 'altra novità ci sorprende: Don Bosco tra i fatti del vecchio e nuovo Testamento dissimula con la destrezza dell'antico prestigiatore ch’ei fu, un'apologia spicciola del Cattolicesimo, tanto più efficace quanto meno ha l l'aria di essere intenzionale. Chi mai aveva pensato prima di lui a trar partito dai racconti biblici per iscalzare bel bello il protestantesimo? Vi ci voleva la sensibilità sopraffina di Don Bosco per tutto ciò che toccasse la Chiesa. Di così viva sensibilità, che poi è il perfettissimo sentire cum Ecclesia sant'Ignazio, rimarranno testimonio imperituro tutti quanti i libri di Don Bosco, dalle sue edificanti biografie di giovanetti alla serie de' suoi almanacchi per i galantuomini.
L'autorità dottrinale e gerarchica della Chiesa cattolica dovette stare in cima ai pensieri di uno scrittore sul quale, tutto ciò che lontanamente la riguardasse, produceva l'effetto di farlo senz'altro gioire o soffrire, agire o reagire, come risulta da un cumulo di pubblicazioni succedutesi a brevi intervalli per lo spazio di otto lustri. Lo studioso che, percorse le opere di Don Bosco, voglia incidere con frase lapidaria l'idea formatasi dell'autore, può far suo il laconico epitaffio scolpito sulla tomba del gran vescovo e cardinale Mermillod: Dilexit Ecclesiam. ciò tanto più, quando si pensi che, come il glorioso prelato svizzero, così anche Don Bosco patì per la causa del suo cuore persecuzioni non comuni.
La protervia dei nemici della Chiesa insolentiva allora a tal segno nel Piemonte, che Don Bosco non trovava nemmeno i revisori voluti dalle leggi canoniche per i suoi libri; onde alle Letture Cattoliche furono la bestia nera delle sette, in un primo tempo gl'incaricati di quell'ufficio accordarono l'approvazione senz'apporvi firme, e poi più nessuno si sentì d'assumersi la rischiosa responsabilità della revisione. Tempestato da minacce per lettera, a voce e a mano armata, egli, confidando in Dio e sfidando i Filistei, non desistette dalla santa battaglia. Né la sensibilità degenerò mai in animosità, cosa tanto facile ad accadere anche nelle polemiche religiose.
Lo spirito del Signore, infiammandone lo zelo, ne governava la penna; si cerchi pure col ruscellino per entro alle molte sue scritture, e non verrà fatto di raccattare un tratto, un motto, un inciso, una virgola insomma, che tradisca in lui, non diremo la segreta voluttà, ma la momentanea noncuranza che dalla sua difesa resti umiliato l'avversario. Le premesse di nostra santa madre, nostra buona madre e simili, che gli sono rituali nel nominare la Chiesa cattolica di fronte a credenti e a miscredenti, dicono la sua prevalente sollecitudine, quasi la sua passione dominante, di affezionare alla Chiesa tutte le anime; dicono parimente il suo amore filiale per la Chiesa, amore che è tanta parte della pietà, dono dello Spirito Santo.
Sono parola scritta anche le lettere. Don Bosco ne scrisse un numero sbalorditivo, in ogni parte del mondo, su millanta argomenti, a prelati, principi e nobili, a persone e comunità religiose, a operai, donnicciuole e fanciulli. Ma ciò che a noi maggiormente importa si è che queste lettere riflettono lo spirito di colui che le scrisse. Non ricerchiamovi però più di quello ch'egli vi ci mise.
L'incalzarsi della corrispondenza, che lo costringeva a gettare in carta senza tanto pensarci su, facendolo incorrere in sviste di forma, non ne sottraeva la penna al governo del pensiero o all'abitudine di santamente pensare, sicché gli sfuggissero rivelazioni di cose riguardanti la sua vita interiore. Certe introspezioni che spesseggiano in epistolari di anime pie, esulano dall'epistolario di Don Bosco. Vi s'intuisce benissimo il fondo; ma di stati intimi non c'è caso ch'egli dica verbo. Ci bastano per altro le ripercussioni inevitabili, derivate dai movimenti del suo cuore sempre in perfetta unione con Dio: cioè sommissione piena ai divini voleri, gloria del Signore, salvezza delle anime, sacramenti, preghiera, offesa di Dio, fiducia nella Provvidenza, richiami a solennità, citazioni scritturali, giaculatorie.
Accludeva sovente immagini con motti di sua mano, per sollevare le menti alle cose celesti. E poi il tono. Dopo averne lette alcune, noi proviamo dentro un senso di calma serena che è disposizione prossima a bontà di pensieri, di parole e di atti. A non è toccato di ricevere lettere irose e offensive. Ebbene egli era solito dire che il rispondervi immediatamente con dolcezza e con attestazione di stima dà là vittoria, mutando nemici in amici. Quante volte egli ebbe a farne la prova! Notevole finalmente è la naturalezza, con cui nelle sue lettere introduce i nomi di Dio, di Gesù Cristo e di Maria Santissima. Questi nomi, dice il biografo, «anche scrivendo li pronunciava con aspirazione del cuore, ma in modo che altri non udisse, ripugnandogli ogni singolarità e pareva che col suo stesso respiro li stampasse sopra la carta».
Tale coscienza del proprio carattere raggiunge nel sacerdote tanta profondità, quando il sacerdote è realmente alter Christus, personificazione di Gesù Cristo.
Eugenio Ceria
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