Ribellione e fedeltà.
del 16 novembre 2006
 I corifei delle sette studiavano di stabilire uno Stato il quale non governasse più in nome di Dio, nè secondo Dio facesse le leggi, ma in nome del popolo e secondo il mutevole volere del popolo, che essi stessi colle loro arti avrebbero formulato. Volevano rovesciare a poco a poco ciò che ipocritamente avevano fino allora predicato doversi rispettare, in modo però che i popoli non se ne avvedessero, o solo allorquando già vi fossero preparati per corruzione di costumi, per errori di mente bevuti nei giornali, nei libri, nei teatri, nelle scuole, e nelle adunanze politiche. A tal fine, predicando la necessità dell'indipendenza della nazione, si facevano apostoli della libertà di pensiero, di coscienza, di religione e di stampa. Era quella libertà definita da S. Pietro: Velamen habentes malitiae libertatem, cioè null'altro in fondo che guerra contro tutto ciò che da lontano o da presso ricorda alla superbia umana, che vi è un Dio al quale si deve assoluta obbedienza. Ed è per questo che i legislatori settari hanno proclamato e proclamano: Noi siamo la legge e sopra la legge non sta alcuno, nè Dio, nè Chiesa. Considerarono la Chiesa Cattolica come una semplice società privata, senza valore, senza diritti, senza interesse per la vita civile, separata dallo Stato e, peggio ancora, nemica da doversi combattere incessantemente. Rex sum ego! proclamò Gesù Cristo, ma essi gli rispondono: Nolumus hunc regnare super nos.
Ma vae qui condunt leges iniquas, minacciava Isaia. La politica d'ogni genere, dice Bonald, si rende forte da tutto ciò che concede alla religione e si impoverisce da tutto ciò che le nega. Dove venga meno il rispetto verso il Papato, il rispetto verso il Sovrano si estingue. Il celebre Colbert nel suo testamento così parlava a Luigi XIV aizzato contro la Chiesa da perfidi consiglieri: “Non mai impunemente il figlio si rivolta contro al padre. Tutte le imprese che Ella condurrà contro il Sommo Pontefice, ricadranno sulla stessa Maestà Vostra”.
E purtroppo i reggitori dei popoli disprezzarono la Chiesa e furono avvinti dalla rivoluzione, la quale vuole la sovranità del popolo, per rendere il monarca schiavo del parlamento, il parlamento schiavo delle masse. L'ultima sua parola: Non più Dio, non più re, non più padrone. Abolizione della proprietà! Socialismo e comunismo! - La voce però e la preghiera della santa Chiesa e l'onnipotente braccio di Dio renderanno vano l'insensato disegno, ma non tanto che le nazioni apostate non abbiano da pagare il fio della loro ribellione.
Tuttavia, come sale della terra e luce del mondo, non vi era nazione, non vi era città e quasi direi borgo, ove non fiorissero sante persone di ogni ceto, e specialmente Vescovi, sacerdoti e religiosi, i quali, mentre invocavano le divine misericordie sugli uomini, sollevavano i miserelli con opere eroiche di carità, prestavano a Dio ed alla Chiesa quel tributo di ubbidienza, che loro negavano gli insensati. Fra questi si annoverava D. Bosco. Egli si era prefisso come codice delle sue azioni il decalogo, i comandamenti della Chiesa, le obbligazioni del proprio stato, e poneva un grande studio nell'osservarle con tutta fedeltà. Era così impossessato dallo spirito di questa osservanza, che in tutto il tempo della sua vita parve non potesse fare diversamente. Non si ebbe mai a scorgere in lui, in tutto il suo insieme, difetto o trascuranza nell'adempimento dei suoi doveri come cristiano, come ecclesiastico, come capo di Comunità, come Superiore di una Congregazione; ed era osservantissimo delle regole che a questa egli aveva dato.
Nello stesso tempo provava una gran pena nel vedere come da molti fosse conculcata la divina legge, nell'udire bestemmiato il nome di Dio, di N. S. Gesù Cristo e della Beata Vergine; era profondamente amareggiato nello scorgere come l'immoralità insidiasse l'innocenza di tanti giovanetti; il suo cuore sanguinava nel sapere oltraggiato il Papa, e misconosciuti i diritti della Chiesa. E la sua obbedienza ai precetti di questa buona Madre abbracciava le prescrizioni più minute, le sacre cerimonie e rubriche, le varie risposte delle Sacre Congregazioni Romane, ed esigeva che altrettanto facessero i suoi dipendenti. Nelle stesse cose in cui era lasciata libertà d'interpretazione e di pratica, sceglieva l'opinione più conforme allo spirito della Chiesa.
Il Teol. Savio Ascanio affermava: “Io lo conobbi inappuntabile in tutto e non ho mai sentito nel mio cuore il menomo sospetto che egli abbia perduta l'innocenza battesimale”.
Il Teol. Reviglio appoggiò questa testimonianza: “Era in lui talmente profondo l'orrore alla colpa, che negli undici anni da me vissuti con lui non lo vidi mai commettere deliberatamente un peccato veniale”.
E D. Michele Rua non esitava nel dire: “Ho vissuto al fianco di D. Bosco per trentasette anni, e quanto più penso al suo tenore di vita, agli esempi che ci ha lasciati, agli insegnamenti che ci ha dati, tanto più cresce in me per lui la stima e la venerazione, l'opinione di santità, in modo da poter dire che la sua vita fu tutta del Signore. Mi faceva più impressione osservare D. Bosco nelle sue azioni, anche più minute, che leggere e meditare qualsiasi libro devoto”.
La stessa convinzione hanno espresso più centinaia dì coloro che abitarono dal 1846 al 1883 col caro. D. Bosco.
 
 
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