Capitolo 14

In alcune case d'Italia. Vicende della casa di Faenza. Proposta per Boston.

Capitolo 14

da Memorie Biografiche

del 07 dicembre 2006

IL 28 dicembre 1883 in una seduta del Capitolo Superiore, sotto la presidenza di Don Bosco, si propose di pubblicare sul Bollettino uno specchio delle domande, fatte da varie parti del mondo, di aprire nuove case: solo dal gennaio in qua il loro numero toccava le centocinquanta. Lo specchio non comparve; ma Don Bosco nella lettera annuale del 1884, tenendo conto anche di domande antecedenti, scrisse di duecento e più proposte per nuovi istituti da aprirsi non solo in Italia, in Francia e in varie parti d'Europa, ma anche nelle Indie, nella Cina, nel Giappone e nelle più lontane isole dell'Oceania. Avendo già detto dell'estero, diremo qui .alcune cose dell'Italia, che non han trovato luogo opportuno nei capi precedenti.

Nessuna casa nuova fu aperta in Italia durante il 1881 ma quanti lavori erano in corso! Restauro della cartiera di Mathi, distrutta per lo scoppio della caldaia ; erezione di un nuovo edifizio nel paese medesimo; compimento della nuova tipografia e di parecchi laboratori al lato destro della chiesa di Maria Ausiliatrice nell'Oratorio; incominciamento della fabbrica per l'ospizio di S. Giovanni Evangelista in Torino; ampliamento dell'ospizio di Firenze e delle scuole salesiane a La Spezia; prosecuzione della chiesa del Sacro Cuore e principio dell'ospizio annesso in Roma. Tutto questo era prova di vitalità; ma poichè nulla s'intraprendeva che non facesse capo a Don Bosco, si pensi qual mole di preoccupazioni gli derivasse anche solo da questo lato, specialmente per procacciare i mezzi.

Le case esistenti in Italia erano ventidue, delle quali sedici regolari, cioè col numero voluto di soci, e sei succursali, che ne avevano soltanto da due a cinque.

 

SICILIA.

 

Durante il mese di ottobre Don Cagliero visitò i Salesiani e le Suore delle case sicule, predicando gli esercizi spirituali per gli uni a Randazzo, per le altre a Bronte e a Máscali. Vi trattò pure dello stabilimento di due nuove residenze per le Figlie di Maria Ausiliatrice, a Trecastagni cioè nella diocesi di Catania e a Cesarò in quella di Patti.

Riguardo ai Salesiani, il visitatore scriveva a Don Rua : “ Vae soli, dice lo Spirito Santo, ed io dico lo stesso del Collegio di Randazzo, il quale ha assoluto bisogno di un compagno in questa terra vulcanica; e converrà rivolgere il pensiero non altrove, ma a questa necessità, affinchè i confratelli abbiano presto un ispettore locale, al quale potersi rivolgere ”. Anche Don Bosco la pensava a questo modo. Infatti, discutendosi il 28 dicembre nel Capitolo Superiore sulla domanda per Agíra , egli opinò che fosse meglio aderire alla proposta dell'Arcivescovo di Catania, che tanto desiderava una casa salesiana. - Benchè manchi il personale, disse, e quantunque convenga limitarci ad una piccola abitazione, bisogna che vi piantiamo dimora. È necessario avere in quella città anche una stanza sola, ove possano fermarsi i Salesiani che vanno alle altre case di Sicilia. Potrebbe fissarvi la sua dimora anche un nostro provveditore per non restare sempre in balia dei sensali. - Il desiderio di Don Bosco sarà largamente attuato nel 1885, con il provvidenziale oratorio di S. Filippo Neri in via Teatro Greco.

 

FIRENZE, ESTE, ORATORIO.

 

A Firenze quell'ottimo Direttor e, non volendo sospendere i lavori, metteva in croce Don Bosco con frequenti invocazioni dì aiuti pecuniari; giacchè dalla città quello che veniva era pochino pochino. Sembrava che tanti fossero più contenti di dare, se Don Bosco si facesse vedere o almeno scrivesse. Ora, non potendosi egli recare colà, spedì una ventina di lettere a determinate famiglie per raccomandare l'opera alla loro carità; due sole però risposero prontamente con l'invio di lire cento. Ma durante il suo viaggio, in Francia fece parte anche a Firenze delle offerte che andava ricevendo. Infatti il 9 aprile mandò da Valenza tremila lire; il 10 maggio da Parigi seimila e il 14 tremila cinquecento; da Digione tremila. In tutto dunque lire 15 - 500, che a quel tempo erano una bella provvidenza.

Il Manfredini di Este perdette un generoso benefattore con la morte del cavaliere Pelà, preceduto nella tomba da due altri affezionati e disinteressati amici, noti anch'essi ai lettori, l'arciprete del duomo Don Zanderigo e il signor Antonio Venturini. Del primo scrive Don Tamietti nelle sue memorie: “11 27 gennaio 1883 si presentava a Dio anche l'ultimo, il più caro, operativo, amoroso nostro benefattore, il Cav. Benedetto Pelà, dopo breve malattia. Oh! se ei fu doloroso! Da ormai cinque anni eravamo soliti vederlo ogni giorno in mezzo a noi, coll'amore e colla premura di un padre, come colui che più non aveva altro pensiero che il Collegio e Don Bosco. 1 nostri cuoi i s'intendevano tanto bene, le anime nostre erano strette a un desiderio solo ormai, come se fosse un Salesiano esso pure ”. Oggi sulla facciata centrale del palazzo la lapide che ricorda le sue munificenze verso l'istituto, prospetta il busto marmoreo di Don Bosco, la quale vicinanza sembra simboleggiare la fusione delle loro anime, operatasi fin dal primo incontro.

L'Oratorio assistette nel 1883 all'inaugurazione dell'edifizio eretto per la stamperia e le sue dipendenze. Con le sei macchine di prima, divenute insufficienti, presero a lavorare tre altre di nuovo modello. Torino non aveva alcuna tipografia così bene attrezzata, Oltre a questo ingrandimento, là dove al presente è il salone del teatro, si pose mano a costruire i laboratori dei fabbri - meccanici . Potrebbe destar meraviglia il vedere come quella prima ala di fabbricato presenti un bel prospetto decorativo anche dal lato di ponente, che è tutto interno e dà sopra un cortile; ma la ragione è che allora si temeva forte che lì accanto dovesse passare una via già tracciata nel piano regolatore del Municipio. Senza questo il Santo non avrebbe mai tollerato un ornamento superfluo.

 

FAENZA.

 

La più tribolata delle case d'Italia fu nel 1883 quella di Faenza. Là dov'era confinata, l'opera non avrebbe mai potuto svilupparsi; bisognava dunque cercarle un luogo che fosse più adatto a una ragionevole espansione. Nel Borgo non si scorgeva possibilità alcuna di trovar questo luogo; inoltre il posto era troppo fuori di mano per le scuole, per l'oratorio e per tutto. Si aggiungevano le rivalità tradizionali fra Borghigiani e Faentini, le quali impedivano d'accorrervi ai figli di questi ultimi o.per antipatia ereditaria delle famiglie o per timore di risse fra ragazzi. Non rimaneva che volgere gli occhi alla città, dove, quasi a consigliare tale scelta, sopravvenniva l'arrivo dei Protestanti, installatisi alla chetichella con una loro chiesa aperta al pubblico. Tante ragioni insieme determinarono finalmente il trasporto dei penati entro le mura. Ma prima di venire all'atto se ne dovettero passare delle brutte.

Mentre le moltiplicate ricerche di un edifizio urbano fallivano una dopo l'altra, gli anticlericali faentini con ostilità occulte e palesi brigavano per isbandire i Salesiani anche dalla loro suburbana dimora. In febbraio il regio sottoprefetto chiedeva d'ufficio al sindaco di Faenza se fosse vero che nell'istituto detto dei Salesiani s'insegnassero il disegno e le materie stabilite dai programmi per le scuole elementari; e in caso affermativo, quanti e di che età fossero gli scolari; se i docenti, compreso quello che insegnava il disegno, fossero forniti dei titoli voluti dalla legge; in quali giorni ed ore s'impartisse l'insegnamento; se di tutto infine si fosse avvertita, per l'anno scolastico in corso e secondo le prescrizioni della legge, l'autorità scolastica governativa. In quegli anni infausti e in altri dappoi tali inquisizioni preludevano a misure vessatorie, mascherate di legalità; e nell'Italia centrale e meridionale, dove non s'era avvezzi a simili soprusi, i cattolici dinanzi a minacce di tal genere s'intimidivano. Ma i Salesiani, addestratisi già da tempo in Piemonte a siffatte lotte, non si lasciavano tanto facilmente soverchiare. Don Rinaldi con la massima sollecitudine e con il massimo sangue fi eddo i ispose al sindaco che nella casa dei Salesiani di Faenza non esistevano scuole, per le quali si richiedessero maestri patentati, sebbene quelli che vi si trovavano fossero realmente tali . Non occorse altro per chiudere l'adito a ulteriori ingerenze da quella parte.

Fallito questo colpo, scesero in campo i giornali così detti democratici. Nel numero del 7 aprile la Montagna, recente foglio faentino che si stampava a Imola, denunziò “uno dei soliti covi clericali ”, in cui si preparavano trecento nemici all'Italia in tanti ragazzetti adescati con ogni mezzo. Verso la fine dì giugno girava per i caffè e per le botteghe una sottoscrizione contro i Salesiani. Proprio allora il Secolo di Milano, molto letto a Faenza, portava il ritratto di Don Bosco e nelle lettere parigine la corrispondenza, di cui abbiamo parlato , sul viaggio trionfale di Don Bosco in Francia. Quell'elogio, in un giornale di quel colore, giungeva proprio opportuno e fu letto dalla maggior parte dei cittadini; ma tanti o non sapevano o fingevano di non sapere che i bersagliati Salesiani erano figli di Don Bosco.

Poi partirono attacchi dalla provincia. Il Ravennate in tre articoli lanciava ripetutamente il grido di guerra contro le nostre scuole. Nel primo un corrispondente liberale, a cui l'affare della sottoscrizione non garbava punto, voleva libertà per tutti; ma in redazione si confezionò per l'articolo un cappello che ne soffocava l'onesto contenuto, invocandosi energia e, se occorresse, anche violenza contro i frati e le monache insegnanti, benchè patentati; essere questa una necessità, se s'intendeva di rendere l'educazione della gioventù conforme allo spirito dei tempi nuovi; per questo doversi attuare a ogni costo l'insegnamento laico. Nel secondo articolo si presentava ai lettori il testo della virulenta petizione che si andava sottoscrivendo per inviarla al Ministero e indurre il Governo a espellere i Salesiani da Faenza, stanziatisi colà “ per fare propaganda clericale col pretesto d'istruire nelle lettere, nella musica, nelle arti e nei mestieri i figli del popolo ”. Si trascorreva quindi alle minacce: “Parliamo in nome del popolo, sperando che le Autorità non vorranno contentarsi di credere che le nostre sieno voci isolate. Dove fossero considerate tali, noi, ordinati pacificamente nei limiti della legge, ci mostreremmo; anzi ci facciamo un dovere civico di prevenirne le Autorità stesse fin d'ora, onde, se l'indignazione, che già si manifesta a vedere i nemici della patria assumere l'educazione e l'istruzione dei fanciulli, dovesse enerare in disordine, la responsabilità non ricada su coloro, che desiderano unicamente, il decoro e la tranquillità del paese ”.

Il terzo articolo mirava a ribattere le affermazioni liberali contenute nel primo, dicendo fra le altre cose: “ La Democrazia Faentina non combatte nei Frati Salesiani la istruzione che danno ai fanciulli, ma la educazione ed i principii che loro infondono. La istruzione, che sarà benissimo in regola colla patente e colle tasse, è la bandiera colla quale questi frati mascherano la loro merce di contrabbando; e la merce di contrabbando è appunto la educazione tutta pretina e papale, colla quale soffocano in quei giovani cuori ogni sentimento generoso e patriottico, imbevendoli di dottrine clericali, avvezzandoli a considerare questa patria, frutto di tanti sacrifici, come un furto, e preparandoli a diventare, adulti, tanti soldati del potere temporale [.....]. E se è ammissibile che fuori d'Italia ci possano essere preti e frati che siano anche buoni patriotti, ciò è assolutamente impossibile - in Italia, e le ecce­zioni rarissime non possono provare il contrario; giacchè in Italia abbiamo la quistione del potere temporale del papa, per loro sempre aperta, e i preti e i frati, essendo assolutamente soggetti e dipendenti dal papa, devono inevitabilmente essere nemici dell'unità della patria e quindi della patria stessa ” .

Non si sarebbe potuto i rappresentare con termini di più cruda realtà l'insanabile dissidio, che le sette avevano aperto e continuamente inasprivano in Italia fra il potere religioso e il potere politico. Ma nel medesimo tempo da questa prosa così incisiva emergono luminosamente tre fatti: che il programma di Don Bosco era notoriamente cattolico in tutto il senso della parola, che per questo doveva di necessità essere osteggiato con ogni mezzo dalla settarietà imperante, e che se, nonostante l'accanirsi degli avversali, egli riuscì a stendere su tutto il paese una rete d'istituzioni giovanili, che furono arca di salvezza per tanti e tanti, la storia sarà obbligata a riconoscergli il merito d'aver contribuito in misura incalcolabile a tenere in serbo il lievito di un miglior avvertire.

Un altro giornale di Ravenna, il Sole dell'avvenire, giurava che, se i Salesiani non se n'andavano da sè, si sarebbe ricorso a mezzi ultraradicali per dar loro lo sfratto .

In città gli animi erano divisi. I buoni, disarmati e non ancora rotti alle battaglie volute dai tempi, gemevano, ma o non ardivano o non sapevano agire. Le Autorità chiamavano ogni tanto il Direttore, gli domandavano spiegazioni e gli davano consigli di prudenza. Un giorno il tenente dei carabinieri lo avvertì che correva pericolo della vita e che si munisse di rivoltella. Va egli senza sbigottirsi continuava a far ricerche di un nuovo locale, sebbene non si venisse mai a capo di nulla.

Per aizzare la feccia del popolo fu attaccato per la città un manifesto, in cui i Salesiani erano accusati al Governo di far risorgere il feroce antagonismo d'una volta fra Borghigialli e Faentini; se si voleva la pace, bisognava assolutamente metterli fuori dei piedi. Quella diatriba portava firme di scamiciati, noti nella città e un po' anche temuti. Le firme dell'indirizzo, che menzionavamo sopra, salirono, si disse, a duemila. La denunzia così corredata fu spedita prima alle Autorità di Ravenna e poi al Ministero.

Queste persecuzioni, anzichè abbattere Don Rinaldi, lo animavano alla resistenza, bramoso com'era di far paghi i desideri dei buoni. Sul finire di agosto andò a Torino per gli esercizi e per il Capitolo Generale. Vide a S. Benigno Don Bosco ed ebbe con lui un colloquio di due ore. Udito di tutta quella guerra, il Santo gli disse: Veramente son più sicuri e tranquilli i nostri Confratelli tra i Pampas. Non conviene però cedere, se ti senti, finchè non abbiano seriamente tentato qualche colpo, che Maria Santissima non permetterà.

 - Ebbene, domandò il Direttore, quale sarebbe il consiglio di Don Bosco? come vorrebbe che si facesse?

 - Riguardo alla Commissione, al Vescovo e a Don Taroni, dire che continuino. Anzi bisogna, e subito ed a qualunque costo, aprire l'istituto interno.

Don Rinaldi, e fuori e in confessione, lo pregò di liberarlo da quel peso o almeno di dirgli una parola rassicurante. Va' avanti, gli rispose. Iddio farà anche un miracolo strepitoso per sostenerti nell'obbeddienza. - E dopo la confessione: - Continua, continua, continua. Dio ti benedirà. - Tali assicurazioni lo confermarono nel proponimento di resistenza a oltranza .

I fatti diedero ragione a Don Bosco e più presto che non si sperasse. Il 9 settembre, tenendosi nel teatro di Faenza un grande comizio in favore del suffragio universale, tutto era stato predisposto per inscenare una clamorosa dimostrazione contro i Salesiani; ma un oratore nella foga del dire lanciò un villano insulto all'indirizzo del Re, chiamandolo colonnello austriaco. Tosto il delegato di pubblica sicurezza intimò lo scioglimento e da quel giorno le Autorità, difendendo se stesse, difesero anche, senza volerlo o saperlo, i Salesiani. Si avverarono così le parole di Don Bosco: i nemici tentarono un colpo, che la Madonna mandò a vuoto, e ai Salesiani tornò tanto di quiete che bastò a trovare finalmente in città il locale. Quanto ai mezzi per l'acquisto, Don Bosco aveva detto: - Spereremo nella Provvidenza che ce li dia; o se non ce li darà, la sforzeremo. - E al canonico Cavina aveva scritto : “ Ho con gran pena intese le cose, che rendono difficile l'opera diretta al bene della povera e pericolante gioventù. Dovremo abbandonare il campo nelle mani del nemico? Non mai. Nei grandi pericoli bisogna raddoppiare gli sforzi ed i sacrifizi. Noi faremo volentieri quanto sta in noi, ma è pure mestieri che la S. V. e i suoi amici diano mano efficace per aprire qualche ospizio pei ragazzi poveri. Si studi e si faccia “. Si studiò, si fece, e i mezzi non mancarono.

 

BOSTON.

 

Ci resta ora a chiarire un punto del sogno. Don Bosco aveva chiesto a Luigi Colle quando i Salesiani sarebbero dovuti andare a Bastoni dov'erano attesi. Un parroco di Boston, monsignor Bouland, aveva ideato di fondare nella città un'opera che, sotto il titolo di NotreDame des Victoires, e sotto la forma di Confraternita, spiegasse un'azione intensa per la conversione dei protestanti, per il culto mariano, per l'onore della Chiesa Cattolica e per soccorrere il Papa. Gli associati si sarebbero a questo fine assunto l'obbligo di sborsare determinate somme individuali e altre si sarebbero raccolte dai loro decurioni. Centro dell'associazione doveva essere un collegio di preti missionari, esclusi però i religiosi: si volevano preti secolari, attivi, studiosi e pii, viventi in comune e dediti soprattutto alla predicazione e all'educazione della gioventù .

Ma in pratica un'eletta di preti quali si desideravano, disposti a convivere come religiosi senz'essere tali, non fu trovata nè si sperava più di trovarla. Perciò gli amici parigini del parroco gli consigliarono di rivolgersi a Don Bosco e il celebre abate Moigno venne pregato di aprire le trattative. Egli spedì a Don Bosco una parte dei documenti pervenutigli dall'America, proponendosi di mandare a Torino anche, ove occorresse, una dama americana, di origine francese e dimorante a Parigi, per nome Lafitte, calda fautrice dell'opera. Le carte giacquero a lungo sul tavolo del Santo, finchè a una seconda istanza dell'abate, egli dettò a Don Bonetti i termini della risposta, la quale Don De Barruel mise in francese. Noi ne conserviamo la minuta, che è del tenore seguente:

Le gravi ed innumerevoli occupazioni e la mia assenza da Torino per parecchi giorni mi hanno impedito di tosto conoscere la veneratissima lettera della S. V. Rev.ma in data 13 scorso luglio e di leggere il progetto che vi andava unito. Questa ragione mi valga ad ottenere pi√π facilmente perdono della mia tardanza a rispondere.

Anzitutto io ringrazio la S. V. della stima che ha dei Salesiani raccomandando loro l'opera di Boston cotanto importante. Ella mostra propriamente di essere nostro Cooperatore, e spero che ci vorrà conservare la preziosa sua benevolenza.

Nel tempo stesso debbo rispondere che i nostri impegni che ci siamo già assunti per l'impianto di opere molto importanti in Europa e nell'America dei Sud mi mettono nell'impossibilità di accettare subitamente l'Opera di Boston, che con tanta bontà Ella ci propone. Oltre a ciò il Santo Padre Leone XIII sta per creare un Vicariato e una o due Prefetture Apostoliche nella Patagonia e nella Terra del Fuoco, e questo atto pontificio obbliga la Congregazione Salesiana a rivolgere colà una parte delle forze, di cui dispone.

Se la S. V. può darmi qualche mora di tempo, come sarebbe due o tre anni, io non rifiuto la mia cooperazione a tale impresa. In questo caso io avrei bisogno di meglio conoscere in quale condizione si troverebbero i Salesiani in Boston. Sarebbero essi in casa propria? avrebbero assicurati i mezzi di sussistenza? In quale cerchia dovrebbero esercitare il loro ministero? più particolarmente fra gli adulti o fra giovanetti abbandonati?

Intanto se mai si trova ancora a Parigi la dama americana, di cui L S, V. mi parla nella sua lettera del 13 luglio, io la vedrei ben volentieri in Torino. Forse, parlandoci potrei in poche parole conoscere la natura dell'opera a cui sono invitato, e dare una risposta pi√π definitiva. Se mai la medesima intende di fare, il viaggio di Torino, come V. S. mi fa sperare, sarei desideroso di sapere il giorno che arriverebbe, per trovarmi a casa.

La signora Lafitte, che aveva già tentato inutilmente di avvicinare Don Bosco nella chiesa di S. Agostino a Parigi, venne a Valdocco in agosto, recando seco altri documenti e una lettera dell'abate Moigno . Il nucleo della questione stava nel vedere se all'associazione di Boston fosse possibile sostituire la pia unione dei Cooperatori salesiani; stabilito questo, Don Bosco avrebbe mandato laggiù alcuni suoi preti. Si discusse a lungo, ma senza risultato. - Ogni cosa a suo tempo - aveva risposto al Santo nel sogno l'amabile sua guida. Le quali parole insinuavano abbastanza chiaramente, che quel tempo non era ancor giunto.

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