Capitolo 17

La speranza cristiana - Il pensiero del Paradiso - Insta opportune et importune - D. Bosco coepit facere et docere - All'opera nella predicazione e nell'amministrazione del Sacramento della Penitenza - Il fetore dei peccati - Vari Istituti ed Ospedali, cui si dedica - D. Bosco è colpito dalle petecchie.

Capitolo 17

da Memorie Biografiche

del 20 ottobre 2006

 

I consigli che D. Bosco dava agli altri sul modo di trattare i giovanetti ed i penitenti erano esattamente da lui praticati. Ed il bene immenso che egli per tal modo fece vuoi colla predicazione, vuoi nell'amministrazione del Sacramento della Penitenza, trova la sua spiegazione unicamente in quella viva confidenza e ferma speranza ch'egli nutriva in Dio, come in suo ultimo fine, la quale informava tutta quanta la sua vita. Fidente nei meriti di G. C., egli senza presunzione teneva come sicura la sua eterna salvezza, perchè l'infinita bontà di Dio gli avrebbe da parte sua dato il perdono dei peccati, gli aiuti necessari per la propria santificazione, e la grazia della perseveranza finale. “Nei trentacinque anni che io vissi al suo fianco, afferma Mons. Giovanni Cagliero, non vidi mai in lui atto di diffidenza, non udii mai l'espressione di un timore o dubbio, non lo vidi mai agitato da alcuna inquietudine circa la bontà e la misericordia di Dio verso di lui. Non apparve mai turbato da angustie di coscienza. Parlava del paradiso con tanta vivacità, gusto ed effusione di cuore, da innamorare chiunque udivalo, ed era evidente che la speranza de' beni celesti bandiva da lui il timore della morte. Ne ragionava come un figlio parla della casa del proprio padre, il desiderio di possedere un giorno Iddio lo accendeva, più ancora che la mercede da lui promessa; e confortavasi colle parole di S. Paolo: Noi siamo figliuoli di Dio: e se figliuoli, anche eredi: eredi di Dio e coeredi di Cristo”. “Se qualcuno, aggiungeva il Teol. Ascanio Savio, gli avesse all'improvviso domandato - D. Bosco! Dove è incamminato? - egli avrebbe risposto: - Andiamo in paradiso”.

E questa sua viva confidenza non era solamente per sè, ma ancora per i suoi giovani e per il prossimo, nel quale sapeva bellamente insinuarla ed eccitarla. Ci ripeteva sovente: - Che piacere quando saremo tutti in paradiso! Siate solamente buoni, e non temete! - E che! Credete voi che il Signore abbia creato il paradiso per lasciarlo vuoto? Ma ricordatevi che il paradiso costa sacrificii. - Sì, sì! Ci salveremo mediante la grazia di Dio ed il suo aiuto, che non mancano mai, e la nostra buona volontà. - Deus omnes homines vult salvos fieri, dice S. Paolo. Intendete questo latino? Vult: Dio vuole. Dio non mentisce, Dio non burla! Omnes: Tutti vuole salvi.... Per parte sua non mancherà mai. Guardiamo di non mancar noi. - Preghiamo, perchè la preghiera fatta per questo fine è infallibilmente impetratoria! È di fede che otterrà ciò che dimanda. Nell'udire anche una sola di queste sue parole i giovani si sentivano oltremodo incoraggiati a farsi buoni e virtuosi per guadagnarsi il regno celeste.

Se qualcuno gli dimandava: - Ed io mi salverò? Rispondeva: - Voglio vedere che tu andassi all'inferno! Voglio che siamo sempre insieme in paradiso! Fa quello che puoi e confida nella misericordia di Dio che è infinita! Tenetevi pur sicuri dell'eterna salute, purchè corrispondiate alle grazie che Dio ci fa continuamente.

A chi mostrava troppo timore misto a diffidenza, per cagione dei propri peccati, rispondeva: - Gesù Cristo è morto per i peccatori; disse egli stesso essere venuto a questo mondo per guarire i malati e cercare e salvare le pecorelle smarrite. La Madonna è chiamata con ragione refugium peccatorum. Facciamo dunque la nostra parte, ricorriamo a Lei, in Lei confidiamo, e saremo salvi, perchè essa è potente. - Esortava quindi a confidare eziandio nei meriti di questa buona Madre e di ricorrere e confidar pure nell'intercessione dei Santi.

Con questa sua fiducia e speranza facevasi abile strumento della misericordia di Dio. Per lui speranza, misericordia, confessione erano sinonimi. Aveva una gran fede nel Sacramento della Penitenza, e coglieva ogni occasione per raccomandarlo, opportunamente ed importunamente con una costanza inarrivabile. Anche ragionando con persone ragguardevoli, sapeva insinuare in bel modo un pensiero che le invitasse a mettere in sesto le cose dell'anima. Era ben difficile che parlasse alcuni giorni di seguito alla stessa udienza senza che insegnasse a ben confessarsi e ne inculcasse la frequenza. Nelle prediche, nelle conferenze, nelle parlate ai giovani aveva sempre un'osservazione su questo argomento. Il suo sospiro era di portar tutti in paradiso, il suo timore che qualcuno deviasse dalla buona strada. Egli attendeva con ardente zelo alla conversione dei peccatori, logorando la vita, per così dire, nell'amministrare il Sacramento della Penitenza; e fu ben presto così nota la sua carità, che sapendosi aver qualche infelice rifiutato di riconciliarsi con Dio, essendo in punto di morte, si correva a chiamare D. Bosco come l'uomo desiderato e giudicato capace di condurre a salvezza quel disgraziato.

Egli poi coll'esempio confermava le sue parole: ogni settimana regolarmente confessavasi da D. Cafasso; e ciò faceva, come fece poi sempre, non in luogo recondito, ma in pubblica chiesa, sicchè i fedeli potevano osservarlo; e tanto nella preparazione, quanto nell'accusa e nel ringraziamento dava a conoscere che praticava un atto degno di tutta la venerazione siccome stabilito da Gesù Cristo medesimo. Egli in ogni sua azione ricopiava in sè il Divino Modello, che prima coepit facere e poi docere.

Ma vediamolo all'opera. È in questo tempo che incominciò a predicare pubblicamente in alcune chiese di Torino, dettando tridui, novene ed esercizi spirituali. Le sue prediche erano quasi sempre una spiegazione od uno svolgimento di un testo scritturale, coi riflessi dogmatici e morali opportuni, e con un esempio edificante ben descritto e particolareggiato.

Prese eziandio ad esercitare il sacro ministero nel tribunale di penitenza nella chiesa di S. Francesco d'Assisi, attendendovi tutte le mattine per alcune ore. La sua carità, lo zelo, la rara prudenza, e la destrezza nell'interrogare non tardò ad essere conosciuta. Tra i suoi penitenti si annoveravano eziandio parecchi degli stessi sacerdoti suoi compagni; fra i quali D. Giacomelli, che lo scelse tosto per suo confessore. Egli attesta che D. Bosco ebbe subito un numeroso concorso di fedeli, che assiepavano il suo confessionale. Si applicava con tanto amore ad ascoltarli, che tale ministero pareva fosse a lui il più gradito, il più caro, il più conforme al suo cuore. A qualunque ora fosse chiamato ad esercitarlo, vi si prestava prontamente, senza mai fare la minima osservazione in contrario, o per la stanchezza, o per l'ora incomoda, o per altra occupazione, eccettuato il tempo di scuola. Le sue maniere franche inspiravano confidenza eziandio in coloro che per dignità o per età erano a lui maggiori. Allorchè qualcuno gli si avvicinava in sagrestia richiedendolo del suo ministero sacerdotale, si accorgeva a colpo d'occhio, se era di quelli che avessero gravi imbrogli nella coscienza e sorridendo: - Mio caro signore, l'avverto che non vorrei impiegare il mio tempo inutilmente. Se sono cose grosse, va bene; allora io son contento; ma per minuzie non c'è la spesa. - Questi poveretti respirando per quella facezia, gli rispondevano; - Non dubiti che lo contenteremo. - Così va bene; e fra noi amici ce l'intenderemo subito. - Così guadagnavasi la confidenza; e più l'accusa era intricata, la questione difficile, tanto più esso godeva nel vedere l'operazione della divina misericordia.

Di lui si può ripetere ciò che egli scrisse di D. Cafasso: “Poche parole, un solo sospiro del penitente bastavano per fargli conoscere lo stato dell'anima. Non parlava molto al confessionale, ma quel poco era chiaro, esatto, classico, e per modo adattato al bisogno, che un lungo ragionamento non avrebbe ottenuto miglior effetto”. Egli soleva dire che in mezz'ora avrebbe sbrigato qualsiasi confessione generale. Era breve a segno, che in poche ore confessava centinaia di persone rimandandole con una pace ed allegrezza vivamente sentita. Talora però era costretto a portar seco un liquore amaro, per far cessar la nausea ed i vomiti eccitati dall'udire la narrazione di certe colpe. Una puzza orrenda che emanava da certe persone infette dal peccato, sentivala al solo avvicinarsi di esse, prima ancora che aprissero bocca per parlare. Egli alle volte diceva loro amorevolmente che passassero ad altro confessionale di rincontro. Ma se insistevano pregando lui stesso ad usar loro quella carità, egli vi si prestava, ma con tale suo tormento, che a stento gli permetteva di ascoltarli sino alla fine. E da ciò i penitenti comprendevano la ragione, per cui egli avevali pregati di rivolgersi ad altri, e ben s'accorgevano che a lui era palese lo stato di loro coscienza prima che glielo avessero manifestato. Ciò accadevagli specialmente, quando venivano certi bellimbusti, che, indifferenti e quasi sorridendo, narravano le loro nefandità. Quest'orrore istintivo di D. Bosco era tanto più singolare, poichè esso di certe colpe sapeva solo quanto bastava per giudicarne la gravità della malizia, il pericolo dell'occasione, la necessità di uno o l'altro rimedio, ma nulla più. Monsignor Cagliero attesta che D. Bosco all'età di sessantotto anni non comprendeva come fossero possibili certe offese di Dio. Egli portò sempre odio profondo, fin dalla sua prima età, contro ogni cosa che potesse appannare in qualsivoglia modo, anche il più leggiero, quella virtù che rende gli uomini simili agli angioli. Ciò abbiamo inteso molte volte dalla stessa sua bocca. Da quanto si è narrato si può arguire come già fin d'allora fosse guidato da una luce che non era umana.

Le sue fatiche però non erano limitate alla sola chiesa di S. Francesco d'Assisi. D. Cafasso lo inviava a confessare e predicare nelle prigioni, nell'Albergo di Virtù, nelle Scuole Cristiane dei Fratelli, nel Collegio Governativo di S. Francesco di Paola, nell'Istituto delle Fedeli Compagne, ove eziandio faceva conferenze, catechismo e scuola di lingua italiana alle giovanette quivi educate; e nel Ritiro detto delle Figlie del Rosario, fondato dal Padre Bernardo Sappelli Domenicano, ove sono educate da una Comunità di Terziarie di S. Domenico un gran numero di fanciulle pericolanti. D. Bosco estese eziandio la sua carità al Monastero del Buon Pastore, aperto nel 1843, per cura del Conte Solaro De La Margherita, dalle Suore fondate in Francia nel 1642 dal P. Eudes, il cui scopo è di emendare le giovani traviate e preservare le figlie che sono vicine a cadere. Avendo queste Suore eziandio una classe di fanciulle a pensione, ne lo ripagarono varie volte col dare ricovero alle sorelline dei giovani del suo Oratorio, le quali altrimenti sarebbero rimaste abbandonate e prive di guida. Ed in queste e più altre Case di beneficenza e di educazione in Torino attendeva al sacro ministero non solo di giorno, ma ancora fino a sera molto avanzata, avendone licenza da D. Cafasso. E tale apostolato continuò per anni ed anni fino ad oltre il 1860. In tutti questi Istituti lasciò un ricordo indelebile del suo zelo e della sua prudenza, come ci assicurava Mons. Cagliero, il quale a lui succedette in varie di queste Pie Case per la direzione spirituale.

D. Cafasso lo mandava ancora all'Ospedale di Carità, Ospizio di circa un migliaio tra vecchi e vecchie, ragazzi e ragazze, all'Ospedale dei Cavalieri dell'Ordine di S. Maurizio e Lazzaro e a quello di S. Luigi per gli infermi di consunzione incurabile, tre opere assistite dalle Suore di S. Vincenzo, dette le Bigie dal colore dell'abito, rampollo delle Figlie della Carità. Inoltre andava a confessare e a predicare, avendone l'occasione, nell'Ospedale Maggiore o di S. Giovanni, ove le Figlie della Carità lo coadiuvarono grandemente nell'assistenza spirituale degli infermi, e fra queste contò un bel numero di eroiche benefattrici e nel raccogliere giovani abbandonati e nel mantenerli col loro proprio peculio e colle elemosine che sapevano ottenere dalle persone facoltose. Non dobbiamo ommettere che il nome di S. Vincenzo de' Paoli per mezzo delle Conferenze andrà unito a molte fondazioni degli Ospizii di D. Bosco in ogni parte del mondo. Di più, D. Bosco molte volte recavasi agli Ospedali invitato, quando trattavasi di assistere qualcuno che riputavasi bisognoso della sua parola nei momenti estremi; e talora portavasi di propria volontà al letto di chi conosceva impreparato alla morte. Nè lo tratteneva dal frequentare quelle corsie il pericolo di contrarre le malattie dei poveri infermi, come attesta D. Rua; e così continuò fino al 1870.

Intanto non dimenticava la Piccola Casa della Divina Provvidenza e l'invito che avevagli fatto il Venerabile Cottolengo. Ivi, benchè egli fosse ancora così giovane, erano moltissimi gli infermi che volevano a lui confidare le proprie colpe e le pene che li angustiavano. Molte volte avveniva che non poteva ritornare al Convitto, se non ad ora tarda, quando dai convittori era già stato detto il rosario. Il Teologo Guala, che pur doveva sapere della licenza concessa da D. Cafasso, al suo arrivo lo sgridava alquanto: - Venga, venga a casa all'ora stabilita. - Ma D. Bosco, senza difendersi, nè risentirsene, rispondeva con umiltà: - Ma da fare al Cottolengo oh! quanto ce n'era! - E il Teol. Guala replicava: - Stia all'orario: il di più lo farà un'altra volta. Pare che il Rettore così parlasse per mettere alla prova la virtù del suo allievo. Infatti lasciollo continuare nelle sue visite, così fruttuose per le anime, più volte alla settimana; ed in esse D. Bosco diede prova di eroismo sacerdotale sorprendente. Da quelle infermerie, dove anche un gran numero dei giovani del suo Oratorio trovarono le cure più affettuose, D. Bosco non si allontanò fino al 1874; e dal principio fino al 1860 sovente vi andava tre, quattro volte al giorno, spesso invitato, spesso spontaneamente. Verso il 1845 era scoppiata la malattia epidemica delle petecchie, e D. Bosco continuò a recarsi presso quei miserelli, sicchè contrasse ei pure il morbo e ne riportò traccia per tutto il tempo della sua vita; e sembra con non piccolo suo tormento, come osservò D. Rua e sentì da lui raccontare. D. Sala, che ne curò il corpo dopo morte, lo vide tutto ridotto in stato da far pietà, come se un erpete si fosse diffusa su tutta la sua cute, specialmente nelle spalle. Un cilicio dei più orribili non avrebbe potuto maggiormente straziarlo, e forse come tale Iddio glielo concesse, perchè nessuno venisse a conoscere il suo straordinario amore alla mortificazione ed alla penitenza.

 

 

 

 

 

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