La morte del secondo giovane indicata dal sogno - Si verificano tutte le circostanze Predette - Don Bosco scrive il panegirico di S. Filippo Neri - Parte per Alba ove deve esporlo dal pulpito alla Congregazione dei Sacerdoti - Al solito non ha un momento di tranquillità per una preparazione prossima - Improvvisa un nuovo discorso - Il panegirico che aveva scritto - Parte per Barolo - Facoltà settennale concessa da Pio IX di un altare privilegiato nella chiesa di Maria Ausiliatrice - IL CATTOLICO PROVVEDUTO: elogio dell'Unità Cattolica.
del 07 dicembre 2006
 I mesi passavano e gli alunni dell'Oratorio stavano aspettando con viva curiosità l'avveramento della seconda morte indicata dal sogno. Fatti i calcoli, sembrava ciò dovesse accadere in maggio al più tardi. Ed ecco morire nell'Oratorio il giovane Corecchio, dopo pochi giorni di malattia. L'Unità Cattolica del 26 maggio 1868 nel suo necrologio pubblica: “ Decessi nel 24 - 5 - 1868: Corecchio Pietro, di anni 16, di Santhià, studente”.
I parenti del giovane, circostanza predetta, erano stati a visitarlo. Don Bosco, invece, come egli aveva annunziato, non poté dargli l'ultimo addio: era, come diremo, fuori di Torino. Altre circostanze che identificavano essere il Corecchio il 2° del sogno, furono la pietà con cui ricevette gli ultimi Sacramenti e la sua morte edificante. A Don Bosco nel sogno era stato detto: “ Durò infermo otto giorni ”.
Don Michele Rua scrisse nel registro dei defunti: “ Maggio 1868. - “ Muore Corecchio Pietro di San Damiano (Santhià), nato il 25 novembre 1852. La sua assiduità alle sacre funzioni ed attitudine agli studii gli procacciò la protezione del suo parroco che gli ottenne un posto nell'Oratorio. Fu egli assennato e di poche parole: non mancava però della necessaria apertura di cuore coi superiori. Primeggiava nelle scuole per la sua diligenza e capacità e faceva sperare eccellente riuscita. Una malattia violenta, cui sopportò con tutta pazienza, lo tolse all'affetto dei parenti, superiori e compagni; ma lo trasportò nel paradiso”.
Si noti ancora una circostanza del sogno. Don Bosco aveva visto soltanto la bara di questo defunto, perché, dei tre, fu il solo che morì nell'Oratorio. Non vide la bara degli altri due, perchè il primo era morto nel Collegio di Lanzo, e il terzo, come vedremo, doveva morire nell'ospedale.
Il servo di Dio in que' giorni erasi recato in Alba, ove era stato invitato a fare il panegirico di S. Filippo Neri. Siccome era la festa della Congregazione dei preti, aveva scritto la sua predica, e non piacendogli quel primo lavoro, lo aveva rifatto.
Quindi davalo a Don Bonetti perchè lo esaminasse e lo correggesse, ma questi lo esaminò e lo lasciò quasi tale e quale era stato scritto. Come facesse D. Bosco a mantenere lucida e vigorosa la mente è cosa difficile a dirsi, mentre non aveva mai un momento di riposo. A percorrere un tratto di via che non richiedeva più di mezz'ora, egli ne impiegava due o tre, tanti eran quelli che lo fermavano o con lui si accompagnavano per trattare d'affari o di cose di anima. Nei carrozzoni della ferrovia, nelle stazioni s'incontrava sempre con persone che desideravano parlargli. Non v'era paese o città, ove non avesse benefattori, amici, conoscenti o giovani da esso educati.
 - Il solo luogo dove nessun viene a disturbarmi, è il pulpito, egli diceva, e per me salire in pulpito è un riposo.
Così gli era accaduto andando in Alba, ove aspettavalo il Vescovo Mons. Eugenio Galletti, coll'affetto di un santo desideroso d'intrattenersi con un altro santo. Non saprei dire quanto grande fosse la sua stima per D. Bosco e quante volte parlasse di lui ai chierici del suo Seminario, fra i quali si recava ogni sera.
Don Bosco aveva portato con sé il suo panegirico, ma le visite continue fino all'ultimo momento non gli permisero di dargli un'occhiata. Quindi, salito in pulpito, non si attenne a ciò che aveva scritto e si lanciò ex abrupto nell'argomento in modo poetico. Noi l'abbiamo già accennato nel secondo volume di queste Memorie; ma qui non possiamo fare a meno di ricordarlo di nuovo brevemente.
Finse di trovarsi sopra un dei colli di Roma, colla città distesa innanzi e di vedere un giovanetto che saliva verso di lui. Descrisse minutamente quel volto, quello sguardo, quel contegno, e poscia entrò in dialogo. Interrogò lo sconosciuto, donde venisse, che cosa facesse, perchè così solo e dimesso: quali fossero i suoi pensieri, i suoi progetti, la sua vita passata: se amasse il Signore, quale fosse la sua patria; e a tutte le interrogazioni facea seguire le risposte del giovanetto. Finì col dirgli: - Ami tu la Madonna? - A questo punto sospese il dialogo, descrisse le sembianze del giovanetto, il lampo degli occhi a tale domanda, il suo sorriso, la sua risposta e finiva col chiedergli:
 - Chi sei, come ti chiami?
 - Filippo Neri - rispose il giovanetto. Ciò fatto, stabilì senz'altro il suo argomento dicendo: - Vengo, o cari uditori, a dirvi che cosa sarà di questo giovanetto.
L'impressione che fece questa predica non si può narrare, benchè le parole di Don Bosco producessero in ogni circostanza effetti meravigliosi. Quest'impressione si può argomentare dalla predica che avea scritto e non recitò, e che ancora si conserva. Improvvisando non mutò la sostanza, ma tutti quei sentimenti da lui vennero esposti all'uditorio. Noi la riportiamo per intero, perchè si conosca il modo che teneva Don Bosco nel fare i panegirici. Popolare nelle idee, semplice nella lingua, affettuoso in ogni espressione, egli può servire di modello al predicatore evangelico, che a null'altro bada, fuorchè alla salute delle anime.
 
PANEGIRICO.
S. FILIPPO NERI.
 
Sebbene le virtù e le azioni dei Santi siano tutte indirizzate allo stesso fine che è la maggior gloria di Dio e la salvezza delle anime, tuttavia è diversa la strada tenuta per giungere al sublime grado di santità cui Dio li chiamava. La ragione sembra essere questa: nella maravigliosa dispensazione de' suoi doni suole Iddio per varii modi e per diverse vie chiamarci a sé, affinchè le varie virtù concorrendo tutte ad adornare ed abbellire la nostra Santa Religione, coprano, per così dire, la Santa Chiesa con manto di varietà, che la faccia comparire agli occhi del celeste Sposo come una Regina assisa sul trono della gloria e della maestà. Difatto noi ammiriamo il fervore di tanti solitari che o diffidenti di se stessi in tempo delle persecuzioni, o per timore di naufragare nel secolo, abbandonarono casa, parenti, amici ed ogni sostanza per andare in deserti sterili e appena abitabili dalle fiere. Altri, quai coraggiosi soldati del Re de' Cieli, affrontarono ogni pericolo e disprezzando il ferro, il fuoco e la morte stessa, offrirono con gioia la vita, confessando Gesù Cristo, e sigillando col proprio sangue le verità che altamente proclamavano. Quindi una schiera mossa dal desiderio di salvare anime portasi in lontani paesi, mentre molti altri tra noi collo studio, colla predicazione, colla ritiratezza, colla pratica di altre virtù, aggiungono splendore a splendore alla Chiesa di Gesù Cristo. Ve ne sono poi alcuni, fatti secondo il cuor di Dio, i quali racchiudono tale un complesso di virtù, di scienza, di coraggio e di eroiche operazioni, che ci fanno altamente palese quanto Iddio sia meraviglioso nei santi suoi: Mirabilis Deus in sanctis suis. Tutte le epoche della Chiesa sono glorificate da qualcuno di questi eroi della Fede. Il secolo decimosesto fra gli altri ha un S. Filippo Neri, le cui virtù sono oggetto di questa rispettabile adunanza e di questo nostro qualsiasi trattenimento.
Ma in un trattenimento che cosa potrassi mai dire di un Santo, le cui azioni raccolte soltanto in compendio formano grossi volumi? Azioni che sole bastano a dare un perfetto modello di virtù al semplice cristiano, al fervoroso claustrale, al più laborioso ecclesiastico? Per queste ragioni io non intendo di esporvi diffusamente tutte le azioni e tutte le virtù di Filippo, perciocchè voi meglio di me le avete già lette, meditate ed imitate; io mi limiterò a darvi solamente un cenno di quello che è come il cardine intorno a cui si compierono, per così dire, tutte le altre sue virtù; cioè lo zelo per la salvezza delle anime! Questo è lo zelo raccomandato dal Divin Salvatore quando disse: Io son venuto a portare un fuoco sopra la terra, e che cosa io voglio se non che si accenda? Ignem veni mittere et quid volo nisi ut accendatur? Zelo che faceva esclamare l'Apostolo Paolo di essere anatema da Gesù Cristo pe' suoi fratelli: Optabam me esse anathema Pro fratribus meis.
Ma in quale critica posizione mi sono mai messo, o Signori! Io che appena potrei essere vostro allievo, pretendo ora di farvela da maestro? È vero, ed appunto per fuggire la taccia di temerario richiedo preventivamente benevolo compatimento, se nella mia pochezza non potrò corrispondere alla vostra aspetttiva. Spero per altro tutto dalla grazia del Signore e dalla protezione del nostro Santo.
Per farmi strada al proposto argomento ascoltate un curioso episodio. È di un giovanetto che appena in sui vent'anni di età, mosso dal desiderio della gloria di Dio, abbandona i propri genitori, di cui era unico figlio, rinuncia alle vistose sostanze del padre e di un ricco zio che lo vuole suo erede: e solo, all'insaputa di tutti, senza mezzi di sorta, appoggiato alla sola Divina Provvidenza, lascia Firenze, va a Roma. Ora miratelo: egli è caritatevolmente accolto da un suo concittadino (Caccia Galeotto): egli si arresta in un angolo del cortile di casa: sta col guardo verso la città assorto in gravi pensieri!
Avviciniamoci ed interroghiamolo:
 - Giovane, chi siete voi e che cosa rimirate con tanta ansietà?
 - Io sono un povero giovanetto forestiero; rimiro questa grande città, e un pensiero occupa la mente mia; ma temo che sia follia e temerità.
 - Quale?
 - Consacrarmi al bene di tante povere anime, di tanti poveri fanciulli, che per mancanza di religiosa istruzione camminano la strada della perdizione.
 - Avete scienza?
 - Ho appena fatto le prime scuole. Avete mezzi materiali?
 - Niente; non ho un tozzo di pane fuor di quello che caritatevolmente mi dà ogni giorno il mio padrone.
 - Avete chiese, avete case?
 - Non ho altro che una bassa e stretta camera il cui uso mi è per carità concesso. Le mie guardarobe sono una semplice fune tirata dall'uno all'altro muro, sopra cui metto i miei abiti e tutto il mio corredo.
 - Come dunque volete senza nome, senza scienza, senza sostanze e senza sito, intraprendere un'impresa così gigantesca?
 - È vero: appunto la mancanza di mezzi e di meriti mi tiene sopra pensiero. Dio per altro che me ne inspira il coraggio, Dio che dalle pietre suscita figliuoli di Abramo, quel medesimo Iddio è quello che.....
Questo povero giovane, o Signori, è Filippo Neri, che sta meditando la riforma dei costumi di Roma. Egli mira quella città, ma ahi! come la vede! La vede da tanti anni schiava degli stranieri; la vede orribilmente travagliata da pestilenze, da miseria, la vede dopo essere stata per tre mesi assediata, combattuta, vinta, saccheggiata e si può dire distrutta.
Questa città deve essere il campo in cui il giovane Filippo raccoglierà copiosissimi frutti. Vediamo come si accinga all'opera. Col solo aiuto della Divina Provvidenza egli ripiglia il corso degli studii; compie la filosofia, la teologia, e, seguendo il consiglio del suo Direttore, si consacra a Dio nello stato sacerdotale. Colla Sacra Ordinazione si raddoppia il suo zelo per la gloria di Dio. Filippo, divenendo sacerdote, si persuade con S. Ambrogio che: Collo zelo si acquista la fede, e collo zelo l'uomo è condotto al possesso della giustizia. Zelo fides aquiritur, zelo iustitia possidetur (S. Amb. in ps. 118). Filippo è persuaso che niun sacrifizio è tanto grato a Dio quanto lo zelo per la salvezza delle anime. Nullum Deo gratius sacrificium offerri potest quam zelus animarum (Greg. M. in Ezech.). Mosso da questi pensieri parevagli che turbe di cristiani, specialmente di poveri ragazzi, di continuo gridassero col profeta contro di lui! Parvuli petierunt panem et non erat qui frangeret eis. Ma quando egli poté frequentare le pubbliche officine, penetrare negli ospedali e nelle carceri e vide gente di ogni età e di ogni condizione data alle risse, alle bestemmie, ai furti e vivere schiava del peccato, allorchè cominciò a riflettere come molti oltraggiavano Dio Creatore senza quasi conoscerlo, non osservavano la divina legge perchè la ignoravano, allora gli vennero in niente i sospiri di Osea che dice: (IV 1 - 2): A motivo che il popolo non sa le cose dell'eterna salvezza, i più grandi, i più abominevoli delitti hanno inondato la terra. Ma quanto non fu amareggiato l'innocente suo cuore quando si accorse che gran parte di quelle povere anime andavano miseramente perdute, perchè non erano istrutte nelle verità della Fede? Questo popolo, egli esclamava con Isaia, non ha avuto intelligenza delle cose della salute, perciò l'inferno ha dilatato il suo seno, ha aperte le sue smisurate voragini, e vi cadranno i loro campioni, il popolo, i grandi ed i potenti: Populus meus quia non habuit scientiam, propterea... infernus aperuit os suum absque ullo termino, et descendent fortes eius, et Populus eius, et sublimes, gloriosique eius ad eum (Isaia v, 13 - 14).
Alla vista di que' mali ognor crescenti, Filippo, ad esempio del Divin Redentore che, quando diede principio alla sua predicazione, altro non possedeva nel mondo se non quel gran fuoco di divina carità che lo spinse a venire dal Cielo in terra; ad esempio degli Apostoli che erano privi di ogni mezzo umano quando furono inviati a predicare il Vangelo alle nazioni della terra, che erano tutte miseramente ingolfate nell'idolatria, in ogni vizio o, secondo la frase della Bibbia sepolte nelle tenebre di morte, Filippo si fa tutto a tutti nelle vie, nelle piazze, nelle pubbliche officine; s'insinua nei pubblici e privati stabilimenti, e con quei modi garbati, dolci, ameni che suggerisce la vera carità verso il prossimo, comincia a parlare di virtù, di religione a chi non voleva sapere né dell'una né dell'altra. Immaginatevi le dicerie che si andavano spargendo a suo conto! Chi lo dice stupido, chi lo dice ignorante, altri lo chiamano ubbriaco, né mancò chi lo proclamava pazzo.
Il coraggioso Filippo lascia che ciascuno dica la parte sua, anzi dal biasimo del mondo egli è assicurato che le opere sue sono di gloria a Dio; perchè quanto il mondo dice sapienza è stoltezza presso Dio: perciò procedeva intrepido nella santa impresa. Ma chi può mai resistere a quella terribile spada a due tagli quale è la parola di Dio? Ad un sacerdote che corrisponde alla santità del suo ministero? In breve tempo le persone di ogni età, di ogni condizione, ricchi e poveri, dotti e ignoranti, ecclesiastici e borghesi, dalla più alta classe sino agli apprendisti, agli spazzini, ai mozzi, al piccolo, al grande muratore, cominciano ad ammirare lo zelo del Servo di Dio; vanno ad ascoltarlo; la scienza della fede si fa strada nei loro cuori: cangiano il disprezzo m ammirazione, l'ammirazione in rispetto; quindi in Filippo altro più non si vede che un vero amico del popolo, un zelante ministro di G. C. che tutto guadagna, tutto vince, a segno che tutti cadono vittima fortunata della carità del novello Apostolo. Roma cangia di aspetto, ognuno si professa amico di Filippo, tutti lodano Filippo, parlano di Filippo, vogliono veder Filippo. Di qui cominciarono le meravigliose conversioni, gli strepitosi guadagni di tanti ostinati peccatori, di cui a lungo parla l'autore della vita del Santo (V. Bacci).
Ma Dio aveva inviato Filippo specialmente per la gioventù, perciò a questa rivolse la sua speciale sollecitudine.
Considerava egli il genere umano come un gran campo da coltivarsi. Se per tempo si semina buon frumento si avrà abbondante raccolto; ma se la seminagione è fuor di stagione, si raccoglierà paglia e loppa. Sapeva eziandio che in questo campo mistico vi è un gran tesoro nascosto, vale a dire le anime di tanti giovanetti per lo più innocenti e spesso perversi senza saperlo. Questo tesoro, diceva Filippo in cuor suo, è totalmente confidato ai sacerdoti, e per lo più da essi dipende il salvarlo o il dannarlo.
Non ignorava Filippo che tocca ai genitori aver cura della loro figliuolanza, tocca ai padroni aver cura dei loro soggetti; ma quando questi non possono, o non sono capaci, oppure non vogliono, si dovranno lasciar andare queste anime alla perdizione? Tanto pi√π che le labbra del sacerdote devono essere il custode della scienza e i popoli hanno diritto di cercarla dalla bocca di lui e non da altri.
Una cosa al primo aspetto sembrò scoraggiare Filippo nella coltura dei poveri ragazzi ed era la loro instabilità, le loro ricadute nel medesimo male e peggio ancora. Ma si riebbe da questo panico timore al riflettere che molti erano perseveranti nel bene, che i recidivi non erano in numero stragrande, e che costoro medesimi colla pazienza, colla carità e colla grazia del Signore, per lo più si mettevano in fine sulla buona strada, e che perciò la parola di Dio era un germe, il quale, o più presto, o più tardi, produceva il sospirato frutto. Egli pertanto sull'esempio del Salvatore che ogni giorno ammaestrava il popolo: erat quotidie docens in templo, e con premura chiamava i ragazzi più discoli a sé, andava ovunque esclamando: Figliuoli, venite da me, io vi additerò il mezzo di farvi ricchi, ma delle vere ricchezze che non falliranno mai; io v'insegnerò il santo timor di Dio: Venite, filii, audite me, timorem Domini docebo vos. Queste parole, accompagnate dalla grande sua carità e da una vita che era il complesso di ogni virtù, facevano sì che turbe di fanciulli da tutte parti corressero al nostro Santo. Il quale ora indirizzava la parola ad uno, ora ad un altro; collo studente faceva il letterato, col ferraio il ferraio, col falegname il capo falegname, col barbiere il barbiere, col muratore il capo mastro, col calzolaio il mastro ciabattino. In tal modo, facendosi tutto a tutti guadagnava tutti a Gesù Cristo. Perciocchè quei giovanetti, allettati da quelle caritatevoli maniere, da quegli edificanti discorsi, sentivansi come tratti dove Filippo voleva; a segno che succedeva l'inudito spettacolo che per le vie, per le piazze, per le chiese, per le sacrestie, nella stessa sua cella, durante la messa, e fino nel tempo di preghiera, egli era preceduto, seguito, intorniato da ragazzi che pendevano dalle sue labbra, ascoltavano gli esempi che raccontava, i principii di catechismo che loro andava esponendo. E poi? Ascoltate. Questa turba di ragazzi indisciplinati ed ignoranti, di mano in mano che venivano istruiti nel catechismo, dimandavano di accostarsi al Sacramento della Confessione e della Comunione, cercavano di ascoltare la S. Messa, udire le prediche, e a poco a poco cessavan dalle bestemmie, dall'insubordinazione, e infine abbandonavano i vizi, miglioravano i costumi, talmente che migliaia di sventurati fanciulli i quali, già battendo la via del disonore, avrebbero forse terminata la loro vita nelle carceri o col capestro, con loro eterna perdizione, per lo zelo di Filippo furono ai loro parenti restituiti docili, ubbidienti, buoni cristiani, avviati per la strada del Cielo. Oh Santa Cattolica Religione! O portenti della parola di Dio! quali maraviglie non operi mai tu per mezzo del ministro che conosca e compia i doveri di sua vocazione!
Qualcuno dirà: Queste meraviglie operò S. Filippo perchè era un Santo. Io dico diversamente: Filippo operò queste meraviglie perchè era un sacerdote che corrispondeva allo spirito della sua vocazione. Io credo che se animati dallo spirito dello zelo, di confidenza in Dio ci dessimo noi pure davvero ad imitare questo Santo, otterremmo certamente gran risultato nel guadagno delle anime. Chi di noi non può radunare alcuni fanciulli, far loro un po' di catechismo in una casa od in chiesa, e se fosse mestieri anche nell'angolo di una piazza o in una via, e colà istruirli nella fede, animarli a confessarsi e quando occorre ascoltarli in confessione? Non possiamo noi ripetere con S . Filippo: Fanciulli, venite a confessarvi ogni otto giorni, e comunicatevi secondo il consiglio del confessore?
Ma, come mai, fanciulli dissipati, amanti del mangiare, del bere e di trastullarsi, come mai poterli piegare alle cose di chiesa e di pietà? Filippo trovò questo segreto. Ascoltate: Imitando la dolcezza e la mansuetudine del Salvatore. Filippo li prendeva alle buone, li accarezzava, agli uni regalava un confetto, agli altri una medaglia, una immaginetta, un libro e simili. Ai più discoli poi e ai più ignoranti che non erano in grado di gustare quei sublimi tratti di patema benevolenza, preparava un pane loro più adattato. Appena egli poteva averli intorno a sé, subito si faceva a raccontare loro amene storielle, li invitava a cantare, a suonare, a rappresentazioni drammatiche, a salti, a trastulli di ogni genere. Finalmente i più restii, i più vanerelli erano per così dire strascinati nei giardini di ricreazione cogli strumenti musicali, colle bocce, colle stampelle, colle piastrelle, con offerte di frutta e di piccole refezioni, di colazioni, di merende. Ogni spesa, diceva Filippo, ogni fatica, ogni disturbo, ogni sacrifizio è poco, quando contribuisce a guadagnare anime a Dio. Così la camera di Filippo era divenuta quale una bottega da negoziante, come luogo di pubblico spettacolo, ma nel tempo stesso fatta casa di orazione e luogo di santificazione. Così Roma vide un sol uomo, senza titoli, senza mezzi e senza autorità, armato dal solo usbergo della carità, combattere la frode, l'inganno, la scostumatezza ed ogni sorta di vizio, e tutto superare e tutto vincere a segno che molti, che la voce pubblica chiamava lupi rapaci, divennero mansueti agnelli. Queste gravi fatiche, questi schiamazzi e disturbi, che a noi sembrano forse appena sopportabili qualche momento, furono il lavoro e la delizia di San Filippo per lo spazio di oltre a sessant'anni, cioè durante tutta la sua vita sacerdotale, fino alla più tarda vecchiaia, fino a tanto che Iddio lo chiamò a godere il frutto di tante e così prolungate fatiche.
Rispettabili signori, àvvi qualche cosa in questo Servo fedele che non si possa da noi imitare? No che non v'è. Ciascuno di noi nella sua condizione è abbastanza istruito, è abbastanza ricco per imitarlo, se non in tutto, almeno in parte. Non lasciamoci illudere da quel vano pretesto che talvolta ci avviene di ascoltare: Io non sono obbligato; ci pensi chi ne ha il dovere. Quando dicevano a Filippo che non avendo cura di anime non era tenuto a lavorare cotanto, rispondeva: “ Il mio buon Gesù aveva forse qualche obbligo di spargere per me tutto il suo sangue? Egli muore in croce per salvare anime, ed io suo ministro mi rifiuterò di sostenere qualche disturbo, qualche fatica per corrispondere? ” Ecclesiastici, mettiamoci all'opera. Le anime sono in pericolo e noi dobbiamo salvarle. Noi siamo a ciò obbligati come semplici cristiani, cui Dio comandò aver cura del prossimo: Et mandavit illis unicuique de proximo suo. Siamo obbligati perchè si tratta delle anime dei nostri fratelli essendo noi tutti figli del medesimo Padre Celeste. Dobbiamo anche sentirci in modo eccezionale stimolati a lavorare per salvare anime, perchè questa è la più santa delle azioni sante: Divinorum divinissimum est cooperari Deo in salutem animarum (Areopagita). Ma ciò che ci deve assolutamente spingere a compiere con zelo quest'ufficio si è il conto strettissimo che noi, come ministri di G. C., dovremo rendere al suo Divin Tribunale delle anime a noi affidate.
Oh il gran conto, conto terribile che i genitori, i padroni, i direttori, e in generale tutti i sacerdoti dovranno rendere al tribunale di Gesù Cristo delle anime loro affidate! Quel momento supremo verrà per tutti i Cristiani, ma, non facciamoci illusione, verrà anche per noi sacerdoti. Appena saremo svincolati dai lacci del corpo e compariremo davanti al Divin Giudice, vedremo in modo chiaro quali fossero gli obblighi del nostro stato, e quale ne sia stata la negligenza. Davanti agli occhi apparirà l'immensa gloria da Dio preparata ai suoi fedeli, e vedremo le anime... sì, tante anime che dovevano andarlo a godere, e che per nostra trascuratezza nell'istruirle nella fede andarono perdute!
Che terribile posizione per un sacerdote quando comparirà davanti al Divin Giudice che gli dirà: Guarda giù nel mondo: quante anime camminano nella via dell'iniquità e battono la strada della perdizione! Si trovano in quella mala via per cagion tua; tu non ti sei occupato a fare udire la voce del dovere, non le hai cercate, non le hai salvate. Altre poi per ignoranza, camminando di peccato in peccato, ora sono precipitate nell'inferno. Oh! guarda quanto è grande il loro numero! Quelle anime gridano vendetta contro di te. Ora, o servo infedele, serve nequam, dammene conto. Dammi conto di quel tesoro prezioso che ti ho affidato, tesoro che costò la mia passione, il mio sangue, la mia morte. L'anima tua sia per l'anima di colui che per tua colpa si è perduta: Erit anima tua pro anima illius.
Ma no, mio buon Gesù, noi speriamo nella vostra grazia e nella vostra infinità misericordia che questo rimprovero non sarà per noi. Noi siamo intimamente persuasi del gran dovere che ci stringe d'istruire le anime affinchè per cagion nostra non vadano miseramente perdute. Onde per l'avvenire, per tutto il tempo della vita mortale, noi useremo la più grande sollecitudine affinchè nessuna anima per nostra colpa abbia da perdersi.
Dovremo sostenere fatiche, stenti, povertà, dispiaceri, persecuzioni ed anche la morte? Ciò faremo volentieri, perchè voi ce ne deste luminoso esempio. Ma voi, o Dio di bontà e di clemenza, infondete nei nostri cuori il vero zelo sacerdotale, e fate che siamo costanti imitatori di quel Santo, che oggi scegliamo a nostro modello, e quando verrà il gran giorno, in cui dovremo presentarci al vostro Divin Tribunale per esser giudicati, possiamo avere non già un biasimo di riprovazione, ma una parola di conforto e di consolazione. E voi, o glorioso S. Filippo, degnatevi d'intercedere per me indegno vostro divoto, intercedete per tutti questi zelanti sacerdoti che ebbero la bontà di ascoltarmi e fate che in fine della vita tutti possiamo udirci quelle consolanti parole: Hai salvate anime, hai salva la tua: Animam salvasti, animam tuam praedestinasti.
'Mentre il Servo di Dio predicava, molti che conoscevano ed ammiravano il suo zelo per la salvezza delle anime, specialmente della gioventù, videro nelle sue parole il suo ritratto, sicché, a quando a quando, mentre egli additava le sante industrie di S. Filippo, andavano ripetendo sotto voce:
 - Don Bosco! Don Bosco! ...
Com'ebbe finita la sua orazione, partiva per Barolo e poi tornava a Torino, ove continuavano ininterrotti i preparativi per la consacrazione della chiesa.
Con un nuovo Breve, del 25 maggio, il Sommo Pontefice per sette anni concedeva alla Chiesa di Maria Ausiliatrice la grazia insigne di avere Privilegiato l'altar maggiore.
In que' giorni la libreria dell'Oratorio aveva messo in vendita il libro intorno al quale D. Bosco, aiutato da Don Bonetti, aveva lavorato per più anni. Avevalo desiderato ardentemente la Contessa Callori, che ne aveva largamente sovvenuta la stampa, ed alla quale Don Bosco, come abbiam visto, aveva già inviato la prima copia. Era desso quel libro del quale più volte abbiam visto cenno nelle lettere a lei dirette dal Servo di Dio. Portava per titolo: Il Cattolico Provveduto per le pratiche di pietà con analoghe istruzioni secondo il bisogno dei tempi. Constava di 766 pagine. L'opera era dedicata a Maria SS. coll'entusiasmo e l'affetto di un figlio, che vede avvicinarsi il compimento di un voto ardentissimo per la gloria della sua. Madre celeste; e la dedica ha la data del 24 maggio.
 
All'Augusta Regina del Cielo - Alla gloriosa sempre Vergine Maria - Concepita senza macchia originale - Piena di grazie e benedetta fra tutte le donne - Figlia dell'Eterno Padre Genitrice del Verbo increato - Sposa dello Spirito Santo Delizia della Santissima Trinità - Fonte inesausta di fede, di speranza e di carità - Avvocata degli abbandonati - Sostegno e difesa dei deboli - Ancora di confidenza - Madre di misericordia - Rifugio dei Peccatori - Consolatrice degli afflitti Salute degli infermi - Conforto dei moribondi - Speranza nei mali che opprimono il mondo - Eccelsa benefattrice del genere umano - A voi che in questo giorno - La Chiesa Cattolica proclama - Aiuto dei Cristiani - Un indegno vostro servo non potendo fare altro - Questo libro umilmente consacra. - 24 maggio 1868.
La Prefazione diceva:
 
Al Lettore
 
In questo libro, o cattolico lettore, troverai una copiosa raccolta di pratiche di pietà ricavate dai più accreditati autori. Due cose si ebbero specialmente di mira: guidare il cristiano alle fonti da cui tali pratiche traggono origine, osservando come esse fondansi sulla Bibbia o sopra instituzioni ecclesiastiche, totalmente consentanee a quanto è rivelato nei libri santi.
In secondo luogo si preferiscono le preghiere e gli esercizi divoti a cui sono annesse le sante indulgenze, perché, mentre esse racchiudono l'approvazione ecclesiastica, servono sempre più a far conoscere i tesori inesauribili che la divina misericordia ha confidato all'infallibile magistero della Chiesa per vantaggio dei fedeli.
In quanto poi alle preghiere furono di preferenza scelte quelle composte, dette, o approvate dai santi, oppure usate nella Liturgia della Chiesa.
Spero che tu, o lettore, se non sarai totalmente soddisfatto, degnerai almeno di benigno compatimento al buon volere del povero compilatore che ti augura ogni celeste benedizione e si raccomanda alla carità delle valide tue preghiere.
 
Sac. GIOVANNI BOSCO.
 
L'Unità Cattolica del 30 Dicembre 1868 così ne parlava:
 
Fra le molte operette che il Sac. Bosco spesso va pubblicando a vantaggio della pietà e della religione, con molto piacere annunciamo Il Cattolico provveduto di pratiche di pietà con analoghe istruzioni. Noi lo abbiamo attentamente letto da capo a fondo, e senza parlare del merito letterario, della chiarezza dei pensieri dell'unzione morale, per le quali cose l'autore è già per molte altre pubblicazioni conosciuto, noi ci limitiamo qui ad assicurare il lettore, che vi troverà non una nuda raccolta di preghiere, ma il racconto biblico ed ecclesiastico sopra cui ciascuna pratica è basata. Così che, mentre il cuore trova un pascolo nella pietà, l'intelletto viene illuminato e rassodato nelle fondamenta della religione. È un volume in 16, di 766 pagine. Si vende a fr. 2, 50, in legatura semplice, alla tipografia dello stabilimento di San Francesco di Sales.
 
 
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