L'apostolato nelle carceri - Le prime accoglienze - I trionfi della carità - Ostacoli e ripugnanze superate - Franca risolutezza - L'amicizia colle guardie - Il carnefice e un suo figliuoletto - Consolantissimi frutti di conversioni.
del 20 ottobre 2006
 
   L’evangelizzare i prigionieri è un'impresa di non facile riuscita e che incontra in pratica non poche difficoltà, mentre quei luoghi di sventura e di sventurati sono i più bisognosi del ministero sacerdotale.
Non tutti i sacerdoti però hanno il coraggio di fermarsi in quegli ambienti oscuri, tra que' catenacci, quelle grosse inferriate, e que' ceffi che destano ribrezzo e paura al solo vederli; non tutti hanno le qualità di prudenza, di abnegazione, di pietà, di presenza di spirito e di scienza tutta propria a tale sorta di gente. Perciò molti, per altri rispetti zelanti sacerdoti, vuoi per mancanza di sanità o di tempo, vuoi per difetto di volontà eroica o di attitudine speciale a quel ministero, o non si accingevano alla difficile impresa, o al cospetto dei molti ostacoli presto si disgustavano e se ne ritraevano. Si aggiunga che l'autorità giudiziaria non sempre concedeva l'accesso nelle carceri, e questo bisognava ottenerlo come grazia. Perciò negli anni dei quali ragioniamo, si possono contare sulle dita gli apostoli delle carceri in Torino. Tali erano D. Mathis, Rettore della Misericordia e Missionario conosciuto per tutto il Piemonte, il Can. Borsarelli, D. Cafasso, il Teol. Borel ed il nostro D. Bosco, i quali ricorrevano ad, ogni sorta d'industrie per superare tutte quante le difficoltà.
Secondo che ci affermava lo stesso Teol. Borel e più tardi i Monsignori Bertagna e Cagliero, anche D. Bosco si adoperò molto per i poveri prigionieri. Allorchè il tempo glielo permetteva, spendeva intiere giornate nelle carceri. Più volte ivi dettava gli esercizi spirituali. Ogni sabato vi si recava colle saccocce piene, ora di tabacco, ora di pagnotte, ma collo scopo di coltivare specialmente i giovanetti che avessero avuta la disgrazia di essere colà condotti, assisterli, renderseli amici e così eccitarli a venire all'Oratorio, quando loro toccasse la buona ventura di uscire dal luogo di punizione. Nello stesso tempo però non trascurava gli adulti. L'uno dopo l'altro visitava i vari compartimenti. I carcerati non erano allora divisi per celle, ma agglomerati in camerate di venticinque o trenta persone, con niente altro che un pagliericcio che serviva loro di letto, di tavolino e di sedia. Ivi insieme stavano rinchiusi coloro che per la prima volta erano stati agguantati dalla giustizia ed i recidivi; questi facevano scuola a quelli di furti e di infamie; e colla prepotenza e col dileggio distruggevano il bene che il rimorso o la parola del sacerdote avevano incominciato a far nascere nel cuore eziandio dei perversi, ora rattenuti dalla paura e dal rispetto umano. I più anziani, affatto spudorati, gloriavansi dei delitti commessi, e tante maggiori pretese accampavano di superiorità, quanto maggiori erano le condanne subíte. Quindi è che, insorgendo questioni, volendo dire sempre essi l'ultima parola, rispondevano agli oppositori: - Volete insegnarla a me che sono già stato in galera!? Al primo suo comparire in alcuni di quegli antri, D. Bosco talvolta, da chi non lo conosceva ancora, veniva disprezzato ed insultato con ingiurie atroci, motti sconciamente maligni, ed allusioni infamanti per un sacerdote. Quella povera gente imbestialita dalle passioni non avrebbe sofferto ammonimenti e molto meno rimproveri; e però D. Bosco dominava il proprio risentimento, rispondendo colla pacatezza e col sorriso anche quando le stesse sue gentilezze quelli contraccambiavano con villanie, improperii e talvolta minacce. 
Consigliandosi colla sua fina prudenza, e sapendo che per riuscire conviene essere discreto, si limitava sul principio a far brevi visite, parlava loro con affettuoso rispetto, dava ai più adulti l'appellativo di Signore, dimostrava per essi una grande compassione ed un vivo desiderio di alleggerire le loro pene, li esilarava con qualche facezia, e poichè l'amore viene dall'utile, distribuiva sovvenzioni e regali. E la sua pazienza inalterabile li colpiva e li ammansava.
La carità preparava i suoi trionfi. Molti di quei disgraziati non avevano forse mai sentita una sincera parola d'affetto. Rigettati dalla società, puniti dalla giustizia, traditi dai complici, avviliti innanzi al mondo, degradati agli occhi propri, senza alcun appoggio per poter risorgere, furiosi per la privazione della libertà, essi vivevano di odio. Con questa sorta di gente non valgono i ragionamenti; rispondono con una alzata di spalle, con una imprecazione, con una bestemmia. Il solo amore sincero, amore di fatti e non di parole, amore di sacrificio, è il più persuasivo di tutti i linguaggi. Quando conoscono che nessun interesse move il prete a recarsi fra di loro, che altro non cerca che il loro bene, che dicendo di amarli non mentisce, si commuovono, un senso di riconoscenza penetra nei loro cuori, sentono di essere amati e concedono la confidenza desiderata. - Che interesse può avere, riflettono, questo prete a venir qui da noi? Bisogna adunque che sia divina la religione che lo guida, che siano vere quelle dottrine che ci insegna!
“Tuttavia, così continuava a narrarci il Teologo Borel, quanto ci voleva talora per giungere al punto di loro indirizzare l'evangelo della salute, facendo tacere la loro rozza e beffarda ignoranza! Tale era il loro abbrutimento, che talvolta le stesse parole dei prete riuscivano occasione di scandalo. I motti convenzionali per indicare il vizio e le varie specie e modi di esso sono tanti, che colui il quale non è ben avvertito e non possegga una lunga esperienza, parlando o predicando in simili luoghi corre pericolo ad ogni istante di sentirsi interrompere da un solenne e villano sghignazzamento, sicchè deve fare uno sforzo indicibile per mantenersi serio e calmo e non perdere il filo del ragionamento. Eppure per quanto si studi, non si possono schivare tutte le parole divenute equivoche per causa della malizia umana, poichè eziandio a non poche delle più sante quei disgraziati attribuiscono un pravo significato. E però quando fa d'uopo pronunziarle, bisogna che prima il predicatore, interrompendo la frase con digressioni e con severi ammonimenti, fulmini la malignità del vizio e dica l'etimologia retta della parola che sta per proferire.”
” Inoltre, quegli esseri così rozzi non possono ad un tratto aver la forza di elevarsi fino ai pensieri del soprannaturale. Perciò conviene sovente incominciare a farveli salire per scalini più bassi: dimostrare loro che le colpe attirano anche danni temporali, che dall'essere virtuosi ne viene anche un gran cumulo di vantaggi su questa terra”.
In tal modo si diportava D. Bosco coi prigionieri e dopo che se li era guadagnati e fatti amici, chiedeva loro spesso di fare per lui, per fargli piacere, quello che essi gli avrebbero ricusato, se avesse loro semplicemente dimostrato esser quello un dovere da compiersi. E così, per far cosa grata a D. Bosco, cessavano dal turpiloquio, dalle bestemmie, dalle risse. Il detenuto si inteneriva al vedersi amato e stimato da un prete conosciuto per santo. Ed in questa maniera D. Bosco li tirava a sè per condurli a Dio, che loro descriveva come amorosissimo padre, sempre al loro fianco per beneficarli, mentre tutti coloro, da cui si credevano amati, li avevano posti in abbandono; ed acquistava tale ascendente sopra di essi, che al suo comparire tutti lo accoglievano con allegria e cordialità.
D. Bosco allora colla sua persuasiva parola insegnava e spiegava a que' cari amici la dottrina cristiana. Spesse volte ravvivava il suo dire con paragoni graziosi e famigliari, o con arguti apologhi, o colle parabole del santo Vangelo adattate alla loro intelligenza ed ai loro bisogni spirituali. Non tralasciava di esporre qualche fatto portentoso tratto dalla Santa Scrittura o dalla Storia Ecclesiastica in prova di ciò che insegnava; e con ameni racconti rendeva sempre più desiderate le sue conferenze. Per questo metodo i prigionieri imparavano facilmente e più non dimenticavano le verità e i precetti del catechismo, e nei loro cuori si trasfondeva la convinzione e la fede dell'amorevole maestro. Così eziandio gli ostinati sentivansi vinti, accoglievano i buoni propositi che loro ispirava la grazia divina e a poco a poco s'inducevano, ad una buona confessione.
Ma tutto questo improbo lavorio non procedeva regolarmente in modo di chi, volendo giungere ad una meta, continua a salire guadagnando strada. Ora rimaneva interrotto, e bisognava riprenderlo; ora tutto andava in fumo, e bisognava cominciare da capo. Il sopraggiungere tutte le settimane di nuovi prigionieri rotti al malfare, le misure disciplinari colle quali il Direttore era costretto a punire le loro insubordinazioni, le risse e gli odi accesi fra di loro per futili motivi, le sentenze dei tribunale più gravi delle temute, dissipavano le speranze del buon prete, il quale però con una costanza e fortezza da santo ricominciava le sue fatiche e le continuava imperturbabile. Intanto pregava, si raccomandava alle preghiere dei tanti Istituti, ne' quali esercitava il sacro ministero, ripetendo quel motto che eragli famigliare: “Io posso ogni cosa in colui che mi conforta”.
Quindi non si stancava di raddoppiare le premure e le visite e ripetere catechismi ed ammonizioni eziandio quando o non volevano ascoltarlo o lo ascoltavano con indifferenza. Ma D. Bosco non vedeva altro in essi che un'anima preziosa, bellissima, benchè deturpata, destinata pel cielo e che egli doveva salvare. Infatti, come afferma il Teol. Borel, non si lagnava mai di tanti incomodi ed eziandio di tante ingratitudini.
Con quel suo sguardo acutissimo e direi quasi spirituale, D. Bosco studiava nei singoli individui le inclinazioni, i desideri, le lotte interne, e trovava all'improvviso e scopriva soavemente nei loro cuori dei germi di virtù soffocati dalle spine dei vizi, dei ricordi della loro innocente fanciullezza, di amore al paese natio, di oppressione per la lontananza dalla famiglia, di desolazione per l'onore perduto, e questi germi sapeva così ben coltivare, da costringerli in fine ad inginocchiarsi davanti a Dio, risoluti di mutar vita. Quai lugubri e desolanti racconti non avrà udito in quelle confidenze, in quegli sfoghi, quando il prigioniero colla testa appoggiata sulla sua spalla gli scopriva con abbandono di figlio le miserie più occulte! E il poveretto nel luogo stesso dove gli uomini lo condannavano e punivano, otteneva misericordia e perdono. E D. Bosco quindi gli parlava dell'amore infinito che Dio portavagli, mesceva le proprie lagrime alle sue e facevagli accettare i castighi, dell'umana giustizia con spirito di cristiana espiazione. Così egli passava molte ore a confessare in cameroni comuni, umidi, sudici e fetenti, tra il chiasso dei maldisposti, e con indicibile cordoglio, di non poter disporre a suo talento dei posto e delle persone per dare libero sfogo al suo zelo. Sonvi cose che umanamente ributtano; eppure non eravi modo di porvi riparo. Ivi bisognava che il confessore si scegliesse un posto ove minore fosse il disturbo. Non vi erano sedie, ed il sacerdote era costretto a sedersi sopra di un lurido pagliericcio e talora anche presso un immondo recipiente, dal quale doveva ritrarsi alquanto allorchè un prigioniero veniva per qualche sua necessità. Quale schifezza! E D. Bosco con una pazienza eroica superava tante ripugnanze. Egli però alla bontà ed alla pazienza univa pure una franca risolutezza, se faceva d'uopo.
Un giorno entrò nell'infermeria, essendo stato chiamato da un giovanastro gravemente ammalato che voleva confessarsi. Si assise vicino al letto e mentre confessava vide accanto al cuscino un coltellaccio dimenticato da un imprudente carceriere. D. Bosco lo prese destramente e lo mise nella sua tasca. Il prigioniero, finita la confessione, si volta ove era il coltello. Cerca li qua, cerca di là, fruga sotto il cuscino, mette la mano sotto il pagliericcio... - Ma che cosa cercate, o buon giovane? gli chiese D. Bosco. È forse questo che cercate? - E gli fece vedere il coltello.
 - Ah! sì, sì, datemelo, datemelo.
 - Oh no; io non ve lo do!
 - Ma io lo voglio.
 - Non ve lo do, ma voi dovete dirmi che cosa volevate farne.
 - Ecco; da uomo d'onore qual sono, vi dirò. Da mesi gemo in questo carcere senza essere condannato o liberato: quindi aveva deciso di colpire lei per essere così giustamente punito.
A quel che parve l'infelice così parlava per ischerzo, ma D. Bosco conosceva che con certa gente non si poteva fare troppo a fidanza. Tuttavia anche con questa si adoperava in modo da trarla ai piedi di G. C.
Ma tanti vantaggi non si potevano ottenere senza una grande e continua prudenza. Vi erano le guardie, delle quali era necessario avere la benevolenza per ottenere un libero accesso e perchè non suscitassero incagli od impedimenti al bene che desideravasi di fare alle anime. Costoro sia per il loro mestiere, sia per essere non solo segregati, ma tenuti in poco conto, anzi in orrore dal consorzio civile, divengono ombrosi, bruschi e facili al disprezzo. Una leggiera infrazione del regolamento carcerario per parte del prete, un suo atto meno garbato che potesse esser preso in mala parte, una parola di compassione pei carcerati male intesa, poteva esser causa di un ostile rapporto all'autorità, la quale non avrebbe mancato di vietargli l'accesso alle carceri. Perciò D. Bosco trattava i carcerieri con molta deferenza e con espressioni di stima e di amicizia, che in tante circostanze erano certamente frutto di grande virtù. La sua pace nel dissimulare quando i loro tratti erano scortesi, il suo spirito di carità nell'intercedere per coloro che erano puniti, la sua generosità nel far scorrere nelle loro mani con urbane proteste mance non piccole ed altri regali, gli avevano acquistato un grande ascendente sopra di essi. Rechiamo un fatto che vale mille altri.
Un giorno D. Bosco uscendo dal luogo, ove stavano i cercerati, non avendo alcuna guardia che lo accompagnasse alla porta, sbagliò scala ed entrò in una stanza, che prima d'ora non avea mai vista. Quivi trovò un uomo con sua figlia e la moglie, i quali al vederlo entrare rimasero confusi ed interrotti. Quell'uomo era il carnefice. D. Bosco si accorse dello sbaglio e delle stanze nelle quali si trovava, e cordialmente augurò a tutti il buon giorno. Quella gente non assuefatta a ricevere visite e ad essere trattata con rispetto, corrispose al saluto, e gli chiese che cosa desiderasse. D. Bosco, che aveva già preso il suo partito: - Ecco, disse, mi sento, molto stanco ed ho bisogno di una tazza di caffè; avreste la bontà di darmelo? - A questa domanda inaspettata con gioia e premura:
 - Sì sì, esclamò la famiglia ad una voce. - E la figlia corse a farlo. Il carnefice guardava D. Bosco meravigliato e con una certa commozione:
 - Ma lei, D. Bosco, sa in casa di chi è venuto?
 - Certo che lo so, in casa di un bravo uomo.
 - Ma come lei si degnò di venire in casa del carnefice? Io so che siete un buon cristiano (e questo era vero, poichè tutte le mattine che vi era un'esecuzione capitale, esso mandava cinque franchi ad una chiesa vicina, facendo celebrare Messa pel morituro) e ciò mi basta e voglio che siamo amici.
Quel povero uomo, che in vita sua non si era mai visto trattato così amorevolmente da persone distinte, era fuor di sè ed offeriva a D. Bosco quanto aveva in casa. D. Bosco, sedette e venne il caffè con una sola tazza.
 - Recate un'altra tazza, disse D. Bosco, voglio che lo prendiamo insieme.
 - Oh questo poi no, rispose il carnefice, troppo onore! io prendere il caffè in sua compagnia?
Ma la seconda tazza era stata portata e D. Bosco empiutala, la porse al carnefice, il quale a stento potè trangugiare quella bevanda, perchè nuovi e mai provati affetti gli rendevano stentato il respiro.
D. Bosco, preso il caffè, si trattenne ancora alquanto e poi partì lasciandolo colla sua famiglia incantati di quella visita insolita.
La notizia di simili gentilezze correva subito fra le guardie, le quali esclamavano D. Bosco essere un bravo uomo, anzi un santo prete, ed erano disposte a favorirlo ogni qual volta le richiedesse di un piacere a vantaggio o spirituale o corporale dei suoi cari carcerati. Da esse era informato dell'arrivo di nuovi prigionieri e delle loro disposizioni o tendenze; otteneva tolleranza, se fosse trascorsa l'ora fissata per la sua permanenza in quel luogo; veniva subito avvertito se nell'infermeria eravi qualche infermo aggravato. E questo era eziandio il motivo per cui quando sopravvennero più tardi ordini vessatori contro la frequenza di D. Bosco alle carceri, pure egli ebbe sempre accesso libero, benchè prudentemente circospetto, fino al 1870.
D. Bosco servivasi inoltre di questo suo ascendente per indurre le guardie stesse ad aggiustare con Dio i conti della loro coscienza. Diceva loro:
 - Voi che siete gli esecutori della giustizia umana, prendetevi guardia dal cadere nelle mani della giustizia divina. - E le sue parole erano prese sempre in buona parte. Le guardie andavano, spesse volte a visitarlo all'Oratorio ed a confessarsi. Lo stesso carnefice non di rado venne per più anni alle funzioni nella chiesa di Valdocco, ma essendo stato riconosciuto dai giovanetti, i quali manifestavano grande ribrezzo alla sua persona, cessò dalle sue visite verso il 1870. Dalle parti di Valdocco però volgeva sempre il piede nelle sue passeggiate, fermandosi sui viali a guardare quei tetti e quella cupola, che gli ricordavano un uomo che forse solo al mondo gli aveva professato stima ed affetto sincero.
Anche il suo figlio frequentò l'Oratorio. Era buonissimo, e si confessava da D. Bosco, pel quale nutriva un grande amore. Voleva entrare nella carriera ecclesiastica; ma venendo a conoscere che per la professione del padre gli era chiusa la via al santuario, ne provò tanto dispiacere, che venne ammalato., e deperendo rapidamente la sua sanità, morì consunto assistito da D. Bosco.
D. Bosco adunque, benvisto dalle guardie e amato dai carcerati, andava eziandio a predicare alle carceri del Senato, alla Generala ed alle Carceri Correzionali. D'ordinario predicava al giovedì e poi diceva ai detenuti:
 - Tornerò a farvi una visita sabato, ma voglio che mi prepariate un bel regalo.
 - E che cosa vuole da noi?
 - Qualche cosa che sia grossa molto, madornale: altrimenti è inutile che io venga: di miserie da nulla non so che farne.
 - Ebbene! dica e siamo pronti.
 - Ciascheduno in particolare mi dia la parte sua. Ma cose grosse, cose grosse.
Capivano che si trattava di confessarsi e si mettevano a ridere.
 - Ebbene verrò io che le ho più grosse di tutti, incominciava uno.
 - C'è quel là, proseguiva un altro indicando un compagno, che le ha fatte più madornali di te.
E un terzo al secondo: - Oh per questo tu sei un tomo, che d√°i dei punti a tutti noi.
 - Sì, venga gridavano in coro, e ci saranno delle belle storie da raccontare e da udire.
 - E così mi piace, concludeva D. Bosco. Che ci sia la spesa di mettersi in confessionale.
 - Oh non dubiti: esclamavano i prigionieri stringendosi vieppiù a lui; verremo, verremo.
 - Io son dieci, io venti, io trent'anni che non mi sono confessato! - E tutti ridevano e con essi rideva D. Bosco, e si dividevano promettendo di rivedersi al sabato.
Al sabato D. Bosco recavasi alle carceri. I prigionieri, che voleano confessarsi, erano inginocchiati in fila. Talora in questo momento accadevano delle scene singolari per la precedenza del posto: - È un'ingiustizia, diceva uno a chi era quasi il primo, levati di lì. Ha diritto di andare il primo quel che è laggiù ultimo della fila. È da soli sei anni che ti sei confessato, mentre quel là è già da quattordici anni che non va ai Sacramenti!
 - Ma io le ho grosse come il mondo! capisci! ed ho il diritto di essere preferito!
 - Ed io che le ho più grosse ancora non ho tante pretese quante ne hai tu. Dunque cedi il posto.
 - Oh bella! vuoi tu scommettere che per birbonerie ti supero di molto?
L'arrivo di D. Bosco faceva cessare questi strani dialoghi; incominciavano le confessioni. D. Bosco teneva per regola che, confessando i rozzi ed i fanciulli, bisogna farli parlare essi con opportune interrogazioni, perchè altrimenti quasi subito si divagano. In questo esercizio aveva imparato a condurre le confessioni in modo che riuscivano molto brevi. I carcerati quindi erano contenti, soddisfatti, e andavano volentieri a confessarsi da lui.
Talvolta però dopo una settimana d'istruzione, mentre avevano promesso di confessarsi alla vigilia della Domenica, per rispetto umano o per inganno del demonio, venuto D. Bosco nessuno muovevasi per andare a lui. La carità però finiva sempre con trionfare. E un primo che si arrendeva, sentendosi felice dopo la confessione, induceva i compagni ad imitarlo.
Questo lavorio apostolico produsse consolantissimi frutti di conversioni. Anche i più riottosi finivano per affezionarglisi sinceramente, e questa loro affezione la manifestavano col recarsi a fargli visita allorchè uscivano di prigione.
Quando poi egli sapeva che taluno aveva scontata omai la pena, si prendeva sollecitudine di trovargli un impiego presso qualche onesto padrone, specialmente se era giovane e sprovveduto di mezzi di sussistenza: e in appresso s'interessava della sua morale condotta e adoperava ogni industria, affinchè non ritornasse più alla mala vita e coll'onore salvasse anche l'anima. Parecchi, posti in libertà, conducendo col suo aiuto una vita regolata, giunsero perfino ad ottenere una posizione onorata nella società. In Torino vi erano, non è trascorso gran tempo, ancora molti di quelli antichi prigionieri, divenuti per lo zelo di D. Bosco ottimi padri di famiglia e buoni cristiani. Molti si ricordavano del buon prete e venivano all'Oratorio conservandosi sempre in amichevole relazione con lui.
Accadde eziandio più volte che alcuni di costoro dopo anni ed anni che avevano scontata la loro pena, ricordando D. Bosco e le sue affabili maniere, si sentivano spinti a ritornare a Dio; quindi, venendo all'Oratorio dai loro paesi, si presentavano a D. Bosco dicendo: - Sono quel tale che lei ha confessato alle carceri: si ricorda ancora di me? D'allora in poi non mi sono più confessato. Ora però vengo a lei, perchè mi aggiusti la coscienza, desiderando proprio di farmi bravo. - Di ciò furono testimoni D. Rua Michele, il Sig. Giovanni Tamietti, il Sig. Tomatis Giuseppe, Buzzetti Giuseppe ed altri.
 
 
 
 
 
 
 
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