Deferenza di Mons. Fransoni alle proposte di D. Bosco - Una importante conversione - Filantropia insidiosa - Gli Asili d'infanzia - Principio delle attinenze di Don Bosco co' Vescovi e coll'alta società piemontese.
del 20 ottobre 2006
 Don Bosco colla sua inesauribile attività passava dalle carceri agli Istituti, da questi all'Oratorio festivo e alle predicazioni e confessioni in pubbliche chiese. Siccome nulla intraprendeva senza informarne a voce o per iscritto Mons. Fransoni, spesso si recava al suo palazzo per visitarlo, e ne era sempre bene accolto e festeggiato. In ogni difficoltà che incontrava nelle sue svariate missioni, in ogni determinazione d'importanza che dovesse prendere, a lui domandava norme sul modo di governarsi; poi scrupolosamente s'atteneva ai suoi comandi o consigli. Dopo molti anni noi udimmo ancora D. Bosco parlare di tratto in tratto con riverenza ed amore delle sue intime relazioni coll'Arcivescovo; e da ciò potemmo argomentare di quanta benevolenza ei fosse oggetto. Eziandio i suoi rispettosi ragguagli quando era interrogato intorno a cose spettanti la diocesi, erano all'Arcivescovo bene accetti.
Non ultimo dei suoi pensieri, era quello del Catechismo, libretto che egli prediligeva fra i volumi più cari. Nello spiegarlo ai giovanetti aveva notate, nel Compendio della Dottrina Cristiana ad uso dell'Archidiocesi di Torino, alcune frasi da lui giudicate inesatte. Studiò, fece varie correzioni e si presentò a Mons. Fransoni, esponendogli le sue idee. Certe parole del libretto non gli sembravano d'accordo col testo ebraico e greco. Per es. il IX comandamento della legge di Dio così viene espresso nel Compendio: Non desiderare la donna d'altri. D. Bosco proponeva che si mutasse questa frase nella seguente, più esatta, più delicata, più generale, conforme al testo: Non desiderare la persona d'altri. L'Arcivescovo, trovò giuste le osservazioni, lodò le intenzioni di D. Bosco, ma non volle arbitrarsi a mutare alcuna cosa nel Catechismo della diocesi. Rimise quindi D. Bosco al Can. Ravina Filippo Vicario Generale, perchè esaminasse la questione e desse il suo parere. Così venne fatto; ma il Canonico Zappata ed altri del Capitolo Metropolitano da lui consultati, dopo aver udito e disputato, conclusero che nulla si dovesse mutare. Più tardi il Canonico Gastaldi Lorenzo, che conosceva queste idee di Don Bosco, quando venne Arcivescovo in Torino, accettò e fece introdurre nel Compendio della Dottrina Cristiana, se non tutte, varie di quelle modificazioni.
Oltre a ciò D. Bosco frequentando il palazzo arcivescovile prendeva viva parte alle gioie ed ai dolori del suo Superiore Ecclesiastico. E in quest'anno gli fu di grande consolazione, l'essere entrata nella Chiesa Cattolica una damigella protestante, sia per la conversione in se stessa, come pure per le circostanze che l'accompagnarono. Più volte ci narrò questo ed altri simili trionfi della grazia del Signore. Allora il Re e l'Arcivescovo erano ancora in perfetta armonia. Il fatto avveniva nel mese di giugno.
Una figlia del ministro del Re di Olanda presso la Corte di Savoia, contrariata dai parenti nella sua volontà di abiurare il protestantesimo e abbracciare la religione cattolica fuggiva dalla casa paterna e si ricoverava nel convento delle Canonichesse Lateranensi, ove l’immunità locale l'avrebbe salvata da ogni violenza. Il padre, spalleggiato dai Ministri di Prussia e d'Inghilterra, voleva a tutti i costi che la figlia ritornasse presso la famiglia. Mons. Fransoni rispondeva: - Il diritto naturale di abbracciare la vera religione essere superiore a quello dell'autorità paterna: la figlia essere in piena libertà di uscire da quell'asilo che essa erasi liberamente scelto; concedersi tuttavia al padre, o a persona da lui incaricata, di recarsi ad interrogare la fanciulla per accertarsi che il suo consiglio non fosse mutato; ma che giammai le avrebbe fatto l'ingiuria di permettere che fosse espulsa. - Le stesse ragioni esponeva il La Margherita a nome del Re, aggiungendo: - Il convento essere protetto dall'immunità ecclesiastica: questa costituire un diritto superiore ai privilegi diplomatici; e non potersi far violenza alla volontà della figliuola, perchè straniera. - Invano cercò fare opposizione il corpo diplomatico; e la damigella abiurò in mano di Monsignor Arcivescovo gli errori di Lutero e di Calvino, riconciliandosi poco dopo co' suoi genitori e perseverando fervorosa nella religione cattolica. Così a quei tempi era intesa la libertà di coscienza: il debole trovava appoggio e difesa contro l'ingiusta prepotenza del forte.
Per altro, intrecciate colle gioie non mancavano cause di ansietà e timori. Mons. Fransoni e D. Bosco avevano preveduto e segnalato ove il movimento settario volesse approdare e vedevano come non pochi del clero, accecati dagli scritti del Gioberti, si disponessero inconsciamente ad appoggiare il movimento rivoluzionario. Scaltra era la manovra. I sediziosi del 1821 e dei 1831 e gli amici della Giovane Italia avevano studiato efficacemente di riconciliarsi gli animi e di acquistar credito coll'introdurre e promuovere opere ed istituzioni che favorissero l'educazione popolare, la letteratura, la scienza, il commercio e la costruzione delle ferrovie. Stavano loro a cuore in modo speciale le scuole di metodo, le scuole serali e domenicali, i ricoveri di mendicità. Erano tutte cose sostanzialmente buone che dovevano incontrare il plauso degli onesti senza dare occasione di sospetti. Ma un occhio per poco esperto scorgeva benissimo essere quelle, opere di filantropia e non di carità, che, avvantaggiando l'uomo per l'uomo, erano utili ed oneste, ma non secondo lo spirito del Vangelo, il quale insegna che solo chi fa del bene al povero per Gesù Cristo, avrà per mercede eterna Gesù Cristo medesimo. E questa esclusione dello spirito cristiano, da parte di quella gente, doveva mettere sull'avviso i prudenti e far loro conoscere come quelle opere servissero ad un proselitismo eterodosso, e come, coprendosi i loro autori sotto il palliativo di bene del popolo, tramassero contro la religione e lo stato. Così con fine settario si erano introdotti in Toscana gli Asili infantili, e a Pisa li promoveva la protestante Matilde Calandrini, che esercitava per sistema nella stanza della scuola le cerimonie del culto evangelico. Intorno a lei si aggruppavano eretici, increduli, sedicenti filosofi indifferenti in fatto di religione, per coadiuvarla, dicevano, nell'educare il popolo. Lorenzo Valerio con altri, fra i quali l'Abate Ferrante Aporti, estendevano questa istituzione. L'Aporti era considerato come l'introduttore in Italia degli Asili d'infanzia, secondo il piano del protestante scozzese Owen, capo di una setta sansimoniana. Aveva egli eretto il suo primo Asilo in Cremona nel 1830 e nello stesso tempo insegnava un suo metodo come far scuola nelle classi elementari.
Benchè esistesse già in Torino fin dal 1825 un fiorente asilo d'infanzia veramente cattolico, fondato dal Marchese Barolo, contro il quale le sette mossero poi aspra guerra, pure i liberali volevano introdotti quelli del nuovo sistema; e patrocinavano l'erezione di una cattedra, che addestrasse i maestri nell'arte pedagogica. Mons. Dionigi Pasio, Vescovo d'Alessandria Presidente del Magistrato della Riforma, si lasciò ingannare da questi Signori e servì inavvedutamente ai cupi disegni della setta, la quale lavorava a porre il germe di un perfido insegnamento. Mons. Pasio scrisse a Milano richiedendo il Console sardo di un Professore di abilità distinta, e il Governatore Generale della Lombardia, interpellato, propose l'Abate Aporti, del quale faceva i più grandi elogi, e Monsignore consigliò Carlo Alberto a farlo venire in Torino. Il Re aveva informato di questi progetti Mons. Fransoni, il quale era contrario ai disegni di Mons. Pasio. Infatti il Santo Padre Gregorio XVI nel 1839, con una circolare ai Vescovi dello Stato Pontificio, aveva fatto proibire gli Asili d'infanzia in quanto erano della qualità promossa dal medesimo Aporti.
Si avvicinava pertanto l'ora delle prime avvisaglie mosse dai fautori dell'errore contro la Chiesa. Ora D. Bosco nel proseguimento della sua missione aveva necessità di mettersi in relazione coi Prelati di Santa Chiesa, colle persone più nobili, più religiose della città e del Regno, appartenenti al Clero secolare, agli Ordini religiosi, alla Magistratura, ed eziandio al Consiglio del Sovrano. Questi dovevano essere i suoi più insigni benefattori, i suoi consiglieri e sostegni vigilanti. E la Divina Provvidenza operava tale avvicinamento, che senza le circostanze da lei preordinate, non sarebbe stato nè così facile nè così sollecito.
Frequentando l'Arcivescovado, D. Bosco s'incontrava non di rado coi Vescovi che venivano per intendersi coi Metropolitano, e parimenti con i Prelati di altre Provincie Ecclesiastiche del Regno, i quali di frequente capitavano in Torino eziandio per recarsi alla Corte. Io credo che in queste occasioni abbia fatto conoscenza con tanti venerandi personaggi. Infatti, fin dal principio della sua carriera sacerdotale, noi lo vediamo trattare, direi quasi alla pari, salvo il rispetto dovuto al carattere episcopale, con Mons. Filippo Artico Vescovo di Asti, con Mons. Modesto Contratto Cappuccino Vescovo di Acqui, con Mons. Giovanni Pietro Losana di Biella; è familiare dei vescovi Mons. Clemente Manzini di Cuneo Carmelitano scalzo, Mons. Luigi Moreno d'Ivrea, Mons. Alessandro Vincenzo Luigi d'Angennes di Vercelli, Mons. Jacopo Filippo Gentile di Novara; è intimo amico del Domenicano Mons. Giovanni Tommaso Ghilardi vescovo di Mondovi, che godeva gran credito in Corte e zelantissimo nel promuovere la pietà e propugnare i diritti ecclesiastici. A questi e ad altri si aggiunga il nuovo Vicario Apostolico presso la Corte Sabauda, Mons. Antonio Antonucci Arcivescovo di Tarso. Così D. Bosco da questi primi anni fino agli ultimi suoi giorni ebbe la fortuna di poter seguire il consiglio dell'Ecclesiastico: “Frequenta le adunanze dei seniori prudenti e unisciti di cuore alla loro saviezza, affine di poter ascoltar tutto quello che di Dio si ragiona e non siano ignote a te le sentenze degne di lode”.
Ma quanto lo stesso Episcopio, era pure convegno del fiore .della società piemontese il Convitto di S. Francesco d'Assisi. Venivano a consultare D. Guala molti Vescovi e prelati inferiori. Erano suoi penitenti Giannantonio Oddone nel 1845 eletto Vescovo di Susa e Luigi dei Conti di Calabiana, nel 1847 consacrato per reggere la Diocesi di Casale; il Cavalier Vasco, il Cav. Gonella, il Conte di Collegno, Silvio Pellico, la Marchesa di Ruffia, la Marchesa Falletti di Barolo, che da lui dipendeva nella fondazione delle sue opere di carità, e molti altri fra i primari personaggi di Torino. Aveva stretta relazione coi Padri della Compagnia di Gesù, col Padre Bresciani e Felice, mentre i Padri Franco, Merlino e Felice venivano a predicare a S. Francesco d'Assisi. Sovente s'intrattenevano con lui e discorrevano a lungo il Conte Avogadro della Motta, il Conte Clemente Solaro della Margherita. Perfino il Conte Barbaroux era venuto a consultarlo nella compilazione del Codice Albertino. Richiedevano la direzione spirituale di D. Cafasso, oltre un gran numero di popolani, alcuni Vescovi e molti parroci, sacerdoti, avvocati, militari, medici e negozianti. Si confessavano da lui ogni settimana quasi tutti i Canonici della Metropolitana: non pochi nobili, fra i quali Sambuy, Cays, La Margherita, e varie fra le più cospicue dame della città. In lui aveva posta tutta la sua confidenza la Duchessa di Montmorency, la quale in tutto a lui si rimetteva non solo per le cose dell'anima, ma nella direzione degli affari domestici e più tardi nelle generose largizioni che per sua mano faceva all'Oratorio di S. Francesco di Sales.
Questi illustri personaggi noi li vedremo fin dal principio degli Oratori festivi, dichiararsene amici in tutti quei modi che era loro possibile; e quindi, con molte altre notissime persone, essere testimonii delle meraviglie di gran parte della vita di D. Bosco. Presso di loro non tardò D. Bosco ad essere in grande venerazione, e lo riguardavano come un uomo tutto del Signore. È questo un giudizio che noi abbiamo ascoltato dalle stesse loro labbra.
 
 
 
 
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