Capitolo 22

Preziosi documenti di vita spirituale.

Capitolo 22

da Memorie Biografiche

del 07 dicembre 2006

 

          Castità, povertà, confessione ben fatta, sono tre cose sulle quali Don Bosco amava tornare con frequenza parlando ai suoi figli e per i suoi figli. Il 1880 ci offre due fatti, tre casi, un ammonimento e un sogno, che si aggirano intorno a questo triplice tema.

Il nostro monsignor Costamagna ricevette dalla persona interessata ampia facoltà di comunicare al primo storico del Beato quanto siamo per dire, 4 condizione però di tacerne il nome . Un giovanetto dell'Oratorio aveva la disgrazia di cadere e ricadere in grave colpa contro la virtù angelica, massime durante il tempo delle vacanze. Ora nell'autunno del 1880, ritornato dal paese con l'anima lorda di peccato; corse tosto a confessarsi da Don Bosco, il quale fece con lui una cosa che non si sa aver egli fatta mai con altri. Uditane l'accusa, strinse forte forte la faccia del penitente contro la sua, dicendogli: - Io voglio che di questi peccati tu non ne faccia mai più per tutta la tua vita! - Si direbbe che in quel momento l'amore della purezza dall'anima del confessore si trasfondesse tutto Dell'anima del piccolo peccatore; poichè questi, cresciuto e fattosi religioso, nel 1899 si protestava disposto a giurare dinanzi a Dio l'effetto prodigioso in lui operato da quella che monsignor Costamagna chiama “carezza straordinaria, eccezionalissima in Don Bosco ”. E l'effetto fu che gli parve di sentirsi sradicare dal cuore le malnate inclinazioni, a segno che ritornò alle vacanze, poi fece il soldato e nell'uno e nell'altro tempo si vide esposto a gravi pericoli di offendere Dio, ma non cadde mai più nelle sue vecchie miserie.

Sensibilissimo in materia di povertà Salesiana, Don Bosco si levava con energia non solo contro ogni infrazione, ma anche contro tutto ciò che gli sembrasse minacciarne da lungi la perfetta osservanza. A San Benigno nel secondo inverno un superiore della casa avrebbe voluto che si facessero a tutti i chierici i loro pastranini nuovi e che si fornissero certe tendine da guernire le finestre di camere private. Il prefetto Don Nai, che fra le insistenze del confratello e le strettezze delle finanze non sapeva che pesci pigliare, ne fece parola con Don Bosco, venuto a visitare la casa. Il Servo di Dio se ne mostrò assai dolente e ali rispose: - Stasera farò io una conferenza al personale. Radunatisi i superiori nella biblioteca, parlò della povertà nel vestire e nell'arredare le stanze, usando un linguaggio assai forte e reciso. Nelle cose udite parve a quel tale superiore di, riscontrare troppa severità; onde, allorchè, finito il suo dire, Don Bosco invitò i presenti a fare le osservazioni che credessero opportune, quegli notò non doversi disgiungere il decoro dalla povertà. Al che il Beato soavemente, ma con risolutezza ribattè: - Il decoro del religioso è la povertà.

Assisteva alla conferenza anche il chierico Filippo Rinaldi, il quale nel dicembre del 1930, parlando ai confratelli dell'Oratorio per l'esercizio della buona morte e ricordando il fatto, disse d'aver allora pensato fra sè che neppure la povertà dei cappuccini e degli ordini mendicanti era così rigida come quella voluta da Don Bosco. Il medesimo Don Rinaldi osservò che Don Bosco aveva parlato in tal modo della povertà proprio quando alle sue scuole di Tipografia apprestava i locali più grandiosi che vi fossero in Torino per stabilimenti congeneri, e costruiva il collegio magnifico accanto alla chiesa di San Giovanni Evangelista. Tale coincidenza suggerì a Don Rinaldi l'idea di una distinzione da farsi. - Non dobbiamo, disse, confondere la povertà interiore dei Salesiani e la povertà personale di ciascuno, coi bisogni dell'Opera Salesiana esterna, bisogni i quali esigono che Don Bosco sia ognora all'avanguardia del progresso, secondo l'espressione usata da lui col futuro Pio XI.

 

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Per l'ammissione al noviziato o ai voti Don Bosco in una seduta del Capitolo Superiore propose e risolse tre casi importanti. Primo caso. Un giovane si presenta per chiedere di essere ascritto al noviziato. Il poverino ha avuto una catena di miserie fino al tempo degli esercizi spirituali; ma allora si mostra risolutissimo nel bene. - Si ammetta alla prova, - conchiuse Don Bosco. Secondo caso. Un altro ha deciso di fare la domanda dei voti e le cose sue vanno bene; ma prima della professione si deve recare in famiglia, e qui abyssus abyssum invocat. Udito il parere degli altri, che ignoriamo quale fosse, Don Bosco parlò così: - No! no! no! Ai giovani che fanno pasticci fino all'ultimo, io rispondo: No, non farti chierico! Costoro nel tempo del noviziato sanno frenarsi; ma poi l'incendio si ridesta sempre. Bisogna quindi che andiamo tutti d'accordo nell'essere più rigorosi, perchè crescono ogni giorno più gl'incentivi al male e si vedono altrove cadute che mettono spavento.

In questa sua osservazione Don Bosco include, come si vede, anche l'ammissione al noviziato; ma non sembra che qui egli si contraddica. Quelli che da lui son chiamati “pasticci ” si devono intendete nel senso insinuato dalla frase biblica di poco avanti, con la quale non alludeva solo a fragilità personali, ma al far getto del pudore; infatti parlando del secondo caso, aveva pure soggiunto: - Come potrebbe poi questo tale andar a predicare nel suo paese? - Il suo pensiero è dunque che non solo dalla professione religiosa, ma anche dalla vestizione chiericale debba essere escluso chiunque “fino all'ultimo ” abbia scandalosamente mancato contro la moralità.

Terzo caso. Un individuo, che è vissuto nel mondo ed ha passato nella dissipazione la sua gioventù, tiene da un anno buona condotta e domanda di essere ascritto e di farsi prete. Don Bosco non volle nemmeno che si consigliasse a un tale soggetto di cominciare la prova, massime se al suo passivo c'entrasse Sodoma. - Tutti d'accordo, disse, aiutatemi, perchè simile gente non venga mai accettata.

Un ammonimento infine egli diede il 14 novembre, mentre nel Capitolo Superiore si riesaminavano i regolamenti abbozzati dal secondo Capitolo Generale. Don Bosco disse: - Ora vedo nella Congregazione un bisogno, quello di metterla, al riparo dalla freddezza e dal decadimento col promuovere lo spirito di pietà e di religiosa vita comune. Voglio distruggere la smania di andare ai bagni, quando questi non siano ordinati dai medici. Vi sono di coloro che ci vanno contro le prescrizioni dei Superiori. Il pericolo è maggiore per i chierici. In quanto ai giovani della riviera, sarà molto difficile impedire che ci vadano. Giova poi ripetere nei vari collegi ciò che le deliberazioni stabiliscono riguardo alla moralità. Si studi attentamente questo punto. Vediamo sovente venir chiusi collegi e messi in prigione i maestri. Qui in Italia non si ha la malignità di dubitare di noi. Ma alla Navarra e a Saint-Cyr abbiamo accettata una successione senza inventario e prima di noi ci furono casi orrendi. Al principio dell'anno scriverò una lettera ai Direttori, toccando i punti principali per la conservazione della moralità. Siamo esatti specialmente nell'ordinare che tutti facciano l'esercizio della buona morte e preti e chierici e coadiutori e si sorveglino attentamente tutti e vi sia esattezza nella levata e assistenza alla meditazione. In tutti i tempi, ma specialmente ora, per noi la moralità è questione di vita o di morte. Guai se il pubblico venisse a sapere cose infamanti di noi! Sacrifichiamo la nostra vita, ma si sostenga sempre e sempre trionfi la moralità.

 

***

 

Per le giovani speranze della Congregazione Don Bosco nella notte dall'otto al nove agosto ebbe un sogno che narrò ivi stesso la sera del giorno io durante gli esercizi spirituali degli ascritti. Ne esistono due redazioni; una di Don Barberis è affrettata, l'altra è evidentemente una traduzione dal francese, ma fatta maluccio: erano parecchi quell'anno i Francesi a San Benigno. Ci serviremo della seconda per integrare la prima. Il sogno si potrebbe intitolare: Un misterioso convito, Don Bosco parlò press'a poco in questo modo:

 

Prima di tutto dovete sapere che i sogni si fanno dormendo. Io mi sognavo di trovarmi qui in San Benigno (cosa strana, perchè si sogna quasi sempre di trovarsi in luoghi e circostanze diverse da quelle che presentemente sono in realtà) e precisamente di trovarmi in una gran sala, come sarebbe il nostro refettorio di qui, anzi più grande ancora.

Questa sala molto grande era tutta illuminata ed io pensava tra me: - Che Don Barberis abbia fatta questo proposito? Ma dove avrà potuto prendere tanti denari?

Là vi erano molti giovani a pranzo seduti intorno alle mense. Ma non mangiavano. Quando entrai io in compagnia di un altro, essi presero del pane in atto di chi è per dar principio al suo pasto.

La sala era elegantemente illuminata, ma di una luce che non lasciava vedere di dove venisse. Le posate, le tovaglie, le salviette erano così bianche che le nostre più candide, messe vicino a quelle, sembrerebbero sucide. Posate, bicchieri, bottiglie, piatti erano tutti così lucenti e belli, che io sospettai di sognare e diceva tra me: - Ma io sogno! Mai più in S. Benigno tante ricchezze! Pure sono qui e non sogno.

Intanto osservavo quei giovani che stavano là, ma non mangiavano. Domandai: - Che cosa fanno lì, elle non mangiano? - Mentre diceva questo, tutti si misero a mangiare.

Io guardava e vedeva tanti giovani delle nostre case e molti di quelli che sono qui a fare gli esercizi. Non sapeva che dirmi e domandava al mio compagno che mi dicesse che cosa significasse tutto quello, ed egli mi rispose: - Sta attento un momento e capirai tutto il mistero.

Mentr'egli proferiva queste parole, si cambiò la luce che vi era prima, ne comparve un'altra più risplendente ancora, e mentre facevo per appressarmi a veder meglio, eccomi comparire una schiera di venustissimi giovanetti come angeli, che tenevano in mano un giglio, e si misero a passeggiare sopra la tavola senza toccarla coi piedi. I commensali si alzarono e col sorriso sulle labbra stavano osservando. Quegli angeli distribuivano gigli qua e là e coloro che li ricevevano si sollevavano anch'essi da terra, come se fossero spiriti. Osservando quali erano i giovani che ricevevano i gigli; io li conosceva; ma apparivano così belli e risplendenti, che non mi sarei immaginato di trovare di meglio in paradiso. Domandai che cosa significassero quei giovani che portavano il giglio; mi fu risposto: - Non hai predicato tante volte la bella virtù della purità?

- Sì, diss'io; la predicai e la insinuai tanto nel cuore dei miei giovani.

- Ebbene, ripigliò il mio compagno, quelli a cui vedi il giglio in mano sono appunto coloro che seppero conservarla.

Non sapeva proprio che dirmi. Standomi tutto meravigliato, vidi comparire nuovamente un'altra schiera di giovani che passeggiavano sulla tavola senza toccarla e avevano in mano tante rose e le andavano distribuendo; e chi le riceveva acquistava in quel momento e riteneva poi uno splendore bellissimo in volto.

Domandai al mio compagno che cosa volesse significare quest'altra schiera di giovani che avevano le rose; ed egli mi rispose: - Sono quelli infiammati d'amore di Dio. - Vidi allora che tutti avevano sulla fronte a caratteri d'oro scritto il proprio nome, e mi feci pi√π dappresso per poterli veder meglio, e anzi feci per prender nota dei loro nomi, ma essi ad un tratto sparirono tutti.

Con loro scomparve pure la luce, sicchè io rimasi all'oscuro, in un'oscurità però nella quale ci si poteva vedere ancora alquanto. Vedevo facce rosse quasi di fuoco, ed erano di coloro che non avevano ricevuto nè il giglio nè la rosa. Vidi pure alcuni che si affaticavano attorno a una corda limacciosa pendente dall'alto e si sforzavano di arrampicarvisi e andare in alto; ma la corda cedeva sempre e veniva giù un poco, di modo che quei poverini erano sempre a terra con le mani e la persona infangate.

Stranamente maravigliato di vedere in quella sala un simile giuoco, domandai con insistenza che cosa mai volesse significare quello che io vedeva. Mi fu risposto:- La corda è, come tu predicasti, la confessione, corda alla quale chi sa bene attaccarsi arriverà certamente al cielo: e questi sono appunto quei giovani che vanno ancora sovente a confessarsi e si attaccano a questa corda per potersi innalzare; ma si attaccano alla corda cioè vanno a confessarsi senza tutte le disposizioni necessarie, con poco dolore e poco proponimento, e perciò non possono arrampicarsi; quella corda si rompe sempre e non possono mai innalzarsi, ma scivolano giù e sono sempre allo stesso piano.

Io voleva prendere il nome anche di quelli, ma ebbi appena il tempo di scriverne due o tre, che essi sparirono dai miei occhi. Con essi sparì pure quel po' di luce ed io rimasi in una totale oscurità.

In mezzo a quella oscurità vidi uno spettacolo ancor più desolante. Certi giovani di un aspetto tetro avevano attortigliato al collo un gran serpentaccio, che con la coda andava al cuore e sporgeva innanzi la testa e la posava vicino alla bocca del meschino, come per mordergli la lingua, se mai aprisse le labbra. La faccia di quei giovani era così brutta che mi faceva paura; gli occhi erano stravolti, la loro bocca era torta ed essi erano in una posizione da mettere spavento.

Tutto tremante domandai nuovamente che cosa mai volesse quello significare e mi fu detto: - Non vedi? Il serpente antico stringe la gola con doppio giro a quegl'infelici per non lasciarli parlare in confessione e colle fauci avvelenate sta attento, se aprono la bocca per morderli. Poveretti! Se parlassero, farebbero una buona confessione e il demonio non potrebbe pi√π niente contro di loro. Ma per rispetto umano non parlano, tengono i loro peccati sulla coscienza, tornano pi√π e pi√π volte a confessarsi senza osare mai metter fuori il veleno che racchiudono nel cuore.

Allora dissi al mio compagno: affinchè io possa ricordarmi.

- Su, su, scrivi, mi rispose.

- Ma non c'è tempo, diceva io.

- Su, su, scrivi.

     - Dammi i nomi di tutti costoro, affinchè io possa ricordarmi.

Mi posi a iscrivere, ma n  e scrissi pochi, perchè sparirono tutti dai miei occhi. E il mio compagno mi disse: - Va'; di' ai tuoi giovani che stiano attenti e conta loro quello che hai visto.

- Dammi un segno, gli risposi, affinchè mi possa ben persuadere se questo è semplicemente un sogno oppure un avvertimento che il Signore vuol darmi per i miei giovani.

- Bene, mi disse, sta' attento!

Allora ricomparve la luce che cresceva sempre più e ricomparvero quei giovani che avevano il giglio e le rose. La luce cresceva ad ogni istante, sicchè potei osservare che quei giovani erano tutti contenti; una gioia d'angeli splendeva nel loro volto.

Osservavo con una meraviglia indescrivibile e intanto la luce cresceva sempre e crebbe tanto Che poi dette in una terribile detonazione. A quel fregore mi svegliai e mi trovai nel mio letto tanto stanco che ancora adesso mi risento di quella stanchezza.

Ora voi date a questo sogno quella fede che si può dare ai sogni; per me intanto vi dirò che mi pare esservi anche del vero. Ieri sera e quest'oggi ho voluto fare degli esperimenti e indagando ho trovato che il mio sogno non era tutto un sogno e che soltanto una misericordia straordinaria del Signore può salvare certi disgraziati.

 

***

 

Stanno bene qui due salutari avvertimenti rivolti a preti per ritrarli da fatue vanità mondane e da certa dannosa ostinatezza nel fare a proprio modo; li rivolse però in forma un po' originale, felicissimo com'era nel trovare motti di spirito atti a correggere.

Un giorno del 1880 sedeva alla mensa di un signor M. nella sua villeggiatura di Moncalieri fra molti invitati. I più di questi per onorare l'anfitrione avevano al petto le loro decorazioni cavalleresche; anche alcuni preti si fregiavano di simili croci. Arrivati al punto in cui la conversazione cominciava a farsi viva, Don Bosco uscì a dire: - Bella figura che faccio io qui senza titoli! Non sono commendatore, non sono cavaliere, non sono professore, non ho neppure la patente di prima mignin [prima elementare inferiore]. Quando mi presenterò a San Pietro, egli mi dirà: Come? Valeva la spesa vivere tanto senza ottenere una patente, una croce? Va', va' via! E mi darà le chiavi sul muso.

Tutti ridevano anche per il modo con cui proferiva queste parole. Poi la signora disse: Lei non ha nulla, perchè non ha voluto accettare nulla. I convitati fecero silenzio. Come? le rispose egli. Io non voler accettare nulla?... Provi un po' lei a darmi qualche migliaio di lire per i miei poveri giovani, e vedrà se non voglio accettare nulla! - La signora imbarazzata a una conclusione così improvvisa, cercava di cavarsela in qualche maniera, ma senza trovar parole che avessero senso; allora Don Bosco la rimorchiò, cambiando bellamente discorso.

Qui egli aveva dato una lezione alla vanità specialmente dei preti; altrove, sempre a tavola, la lezione fu d'altro genere. In novembre erasi recato a fare la predica dei morti nella parrocchia di San Martino Tànaro. Il parroco, uomo conosciuto per l'ostinatezza nelle sue idee, aveva fondato una piccola congregazione religiosa femminile, impiegando un capitale di dodicimila lire ed esigendo da ogni postulante lire mille di dote, la qual somma egli assicurava con un'ipoteca, qualora non venisse subito sborsata. In quel giorno aveva invitato a pranzo parecchi preti. Comparve in tavola un bel tacchino. Don Bosco prese per sè solamente la testa e battendola col coltello diceva: - Oh che testa dura, che testa dura! - Il parroco gli porse nuovamente il piatto, perchè si servisse meglio. - Lasci che compia il mio affare, rispose egli. - E continuava a picchiare e a ripetere: - Oh che testa dura! - Finalmente riuscì a spezzare l'osso. Chi avrebbe detto, esclamò allora, che in una testa Cosi dura vi fosse così poco cervello! -I vicini che l'udirono, intesero molto bene che la lezione era per il parroco; ma questi sembrò non badarvi punto. Certo è che la sua fine dimostrò quanto avesse bisogno di una lezione somigliante. Infatti, morto nel 1890, lasciò un testamento così poco giudizioso, che il municipio, pur riconoscendone le benemerenze a pro del paese, non ardì nemmeno decretargli una lapide commemorativa, come, taluno aveva proposto.

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