Capitolo 22

Letture Cattoliche: I Beni dela Chiesa - Proposta dell'Episcopato al Governo per il ritiro della legge sui Conventi - Piazzate, menzogne e tradimenti - Massimo d'Azeglio al Re - Morte di un figlio di Vittorio Emanuele - Il Senato approva la legge -Preghiere nell'Oratorio - Ultimi avvisi salutari al Sovrano Parere de' Teologi Cesaristi - È apposta alla legge la firma reale - D. Bosco rimprovera un consigliere aulico -Vittorio Emanuele presso l'Oratorio - Sdegnose Parole d'un generale contro D. Bosco - Un amico dì più.

Capitolo 22

da Memorie Biografiche

del 28 novembre 2006

 I Cattolici vivevano in ansiosa aspettazione per l'esito temuto della legge Rattazzi. D. Bosco aveva già prima pubblicato la carta di fondazione di Altacomba con l'esposizione di tutte le maledizioni comminate a chi osasse espropriare i religiosi di quel convento. Ed ora pel mese d'Aprile colla tipografia Ribotta stampava in due fascicoli per le Letture Cattoliche un libro del Barone Nilinse intitolato: I beni della chiesa, come si rubino e quali siano le conseguenze; con breve appendice sulle vicende del Piemonte. Sul frontespizio stava scritto: Come i Per nessun diritto si può violare la casa di un privato e tu hai ardimento di mettere la mano sopra la casa,del Signore! S. Ambrogio. - Molti dei fatti descritti in,detto libro erano anche tolti da autori protestanti. Esponevano i tremendi castighi che nel corso dei secoli caddero sopra tutti coloro, che, regnanti o sudditi, avevano tolti, venduti, comprati i beni consacrati a Dio; e dimostravano che non solo gli spogliatori della Chiesa e degli Ordini Religiosi, ma eziandio le loro famiglie ne andarono colpite quasi sempre, avverandosi il terribile proverbio: “ La famiglia di chi ruba a Dio non giunge alla,quarta generazione! ”

   Questi due fascicoli levarono un gran rumore e servirono potentemente ad insinuare nell'animo di molti un salutare timore, distogliendoli dall'acquistar tali beni.

   La polizia se ne sgomentò per l'effetto che si temeva potessero produrre nelle popolazioni. Si parlò di sequestrati, ma poi si riflettè essere meglio non farne caso. Brofferio però in mezzo ai deputati giudicò essere quei fascicoli una provocazione insultante contro il potere legislativo, e gridò che bisognava cercarne I' autore e punirlo; ma nessuno appoggiò la sua invettiva, e si finì con mettere la cosa in tacere.

   Intanto il 23 aprile incominciò la discussione in Senato. I pareri erano discordi e le dispute talora degeneravano in contese, per soffocare la stringente eloquenza degli oratori cattolici. Battagliavasi già da tre giorni, quando il Senatore Mons. di Calabiana Vescovo di Casale, per, smascherare l'ipocrisia e sconcertare le trame dei nemici del clero, previo concerto coll'Episcopato, ottenuto il beneplacito della S. Sede, e avvertito il Re, propose di offrire al Governo la somma di 928.412 lire, purchè si ritirasse la legge. Tale somma era stata cancellata dal bilancio del corrente anno, e trovavasi prima assegnata a congrue e a supplementi di congrue dei parrochi delle province di terraferma. Per questa proposta i Ministri restarono impacciati, perchè la ragione sulla quale si erano più fortemente appoggiati per ottenere la soppressione dei conventi, era precisamente quella di aver danaro per queste congrue. Cavour allora pregava il Senato a sospendere le sedute, poichè il Re Vittorio aveva visto di buon occhio questa transazione. La moglie e la madre nell'estremo momento avevano fortemente perorato, presso il marito ed il figlio, la causa della Chiesa perseguitata. Era potente nel suo cuore il ricordo delle morenti, e sentivasi pronto ad accettare le condizioni offerte da Roma. Quando Monsignor Ghilardi, Vescovo di Mondovì, la sera prima di quella proposta fu a visitarlo per dargliene comunicazione e per mostrargli i vantaggi di quella transazione, ne fu così contento che, congedandosi il Vescovo a notte tardissima, lo accompagnò, a capo scoperto e dandogli il braccio, fino a metà della strada che fiancheggiava il duomo. L'indomani però, 27 aprile, i Ministri sì dimettevano. Il generale Giacomo Durando era stato in quel mentre incaricato della composizione di un nuovo gabinetto con queste condizioni: I° Di ricorrere ad uomini che pensassero come gli antichi ministri: 2° Di mettere per patto gli accordi con Roma. Una di queste condizioni distruggeva l'altra, ed erano indizii di un gran turbamento che agitava l'animo perplesso del Re.

   Intanto i settari cercavano coi loro soliti maneggi di influire sull'animo del Sovrano. I giornali minacciavano un finimondo se accettavasi la proposta di Calabiana e se Cavour non ritornava al potere. Gli studenti della Università facevano gazzarra gridando: Viva la legge Rattazzi! La plebaglia urlava. I Senatori avversi alla legge erano insultati per le vie. La solita turba prezzolata mandava a pezzi i vetri dell'abitazione di Monsignor Anzini presso il quale alloggiava il Vescovo di Casale. Le autorità pubblicavano illegali ed intempestivi manifesti. Dispacci, ogni giorno in gran copia, annunziavano al Re un'agitazione nelle province, che non esisteva. Egli riceveva continue lettere di dimissioni minacciate dai pubblici ufficiali d'alto grado. Era eziandio angustiato per le repentine venute di alcuni capi militari dichiaranti di abbandonare il comando della spedizione di Crimea, che da essi era stata voluta, qualora la Corona si fosse volta ad uomini non di loro gradimento. Uno straordinario apparecchio di forze militari spiegato sotto le finestre del palazzo del Re stava pronto a dissipare ribellioni immaginarie.

   Massimo d'Azeglio, appena seppe che il Re pareva inchinato a troncare l'opera cominciata contro la Chiesa, ne tremò tutto e cercò subito di parlargli. Andò al palazzo, ma non fu ricevuto. Allora osò scrivere al Re una lettera ne' termini seguenti: “Maestà, creda ad un suo vecchio e fedele servitore che nel servirla non ha mai pensato che al suo bene, alla sua fama ed all'utile del paese; glielo dico colle lagrime agli occhi ed inginocchiato ai suoi piedi, non vada più avanti nella strada che ha preso. È  ancora in tempo. Riprenda quella di prima. Un intrigo di frati è riuscito in un giorno a distruggere l'opera del suo regno, ad agitare il paese, scuotere lo Statuto, oscurare il suo nome di leale. Non v'è un momento da perdere. Le dichiarazioni ufficiali non hanno risolta la questione in ultimo appello. S'è detto che la Corona voleva cercare nuovi lumi. La Corona dica che questi lumi le hanno mostrate inaccettabili le condizioni  proposte. Siano considerate come non avvenute…..e le cose prendano il loro corso naturale costituzionale di prima. Il Piemonte soffre tutto, ma l'essere di nuovo messo sotto il giogo pretino, no, per .....

Veda in Spagna gli intrighi dei frati colla Regina per farle firmare un concordalo vergognoso a che cosa l'hanno condotta! Questi intrighi hanno rovinato Giacomo Stuart, Carlo X e molti altri. Maestà, lo sa, le cose che le ho predette sono avvenute; mi creda, non si tratta di religione, ma di interessi; Amedeo Il disputò trent'anni con Roma, e vinse. Sia ferma e vincerà anche V. M. ” La lettera porta la data del 29 aprile 1855.

   E quest'uomo, essendo presidente del Ministero, sul finire del dicembre 1849 in un convegno per un accordo tra i Ministri e i Deputati della sinistra, era uscito in questa singolare dichiarazione: che egli non s'intendeva molto di Costituzione e non aveva neppure letto lo Statuto.

   E fu lui il mal genio che volle ritrarre il Re dalla buona via, lui che non aveva neppur letto l'ART. 29 dello Statuto: Tutte le proprietà, senza alcuna eccezione, sono inviolabili.

   Intanto il generale Durando parve si travagliasse inutilmente per otto giorni in ricerche ed in conferenze per formare il nuovo Ministero. Ma era quella una commedia, e il 3 maggio, radunatosi il Senato, il generale Durando dichiarava che gli antichi Ministri avevano ripreso il portafoglio e Cavour la presidenza. Questi chiedeva subito che fosse continuata la discussione della legge Rattazzi e a tal fine stabilivasi il giorno 5 di maggio.

   Senonchè, mentre in senato si discuteva sul malaugurato progetto, il 17 maggio la casa reale fu coperta nuovamente di gramaglia. La compianta Regina Maria Adelaide aveva messo alla luce un maschio gli 8 di gennaio di quest'anno. Il bambino, Vittorio Emanuele Leopoldo Maria Eugenio godeva di ottima salute e prosperava; quando in breve fu ridotto agli estremi ed andò a raggiungere la madre. In quattro mesi il Re aveva perduto la madre, la moglie, il fratello ed il figlio. Il sogno di D. Bosco erasi pienamente avverato.

   Ciò non ostante, il 22 maggio con 53 voti contro 42 il Senato approvò la legge con qualche modificazione proposta dal senatore Des - Ambrois. Erano soppressi gli Ordini religiosi designati dalla legge col sequestro immediato d'ogni loro proprietà; ma i membri si lascerebbero morire nei conventi obbligandoli però ad abitare in quelle case che sarebbero designate dal ministero e con un assegno corrispondente al reddito netto dei beni ora posseduti dalle loro case; non maggiore però di 500 lire per ogni religioso o religiosa professa e di 240 lire per ogni frate laico o conversa.

   La legge così modificata era cosa certa che il Parlamento si sarebbe affrettato ad approvarla. D. Bosco, deplorando tanto male, aveva fatto pregare in molti Istituti della città, e non solo aveva esortati i suoi giovani a speciali pratiche di pietà, ma eziandio a digiunare a pane ed acqua per un giorno intero. E tutti l'ubbidirono, ci raccontò D. Turchi Giovanni.

   In uno di questi giorni D. Bosco stava in refettorio dopo la cena. Aveva intorno i chierici Turchi Reviglio, Savio Angelo, Francesia, Cagliero, Rua ed altri, e parlandosi di quella legge uscì a dire: - Manca più solo la firma di Vittorio Emanuele perchè molti conventi siano distrutti. Se io potessi parlare al Re gli direi: Maestà, non sottoscrivete questa legge, altrimenti sottoscriverete a molte altre disgrazie su di voi e sulla vostra famiglia.

   Qualcuno dei presenti lo interrogò! - Non sarebbe bene che qualcheduno di noi scrivesse al Re?

     - Certamente; e tu, Savio, ti senti di scrivere?

     - Io sì, rispose Savio Angelo; dica pure.

     - Scrivi dunque così: “ Sacra Reale Maestà! Ieri m sono trovato in una conversazione, e tra le persone presenti vi era D. Bosco. Si parlava delle cose del giorno e della legge Rattazzi passata al Senato. D. Bosco disse: Se io potessi parlare al Re gli direi: Maestà, non sottoscrivete la legge soppressiva dei conventi, altrimenti sottoscrivereste a molte disgrazie su di voi e sulla vostra famiglia. Dì ciò vi avverto come suddito fedele, affezionato ed ossequente ”.

   Il chierico scrisse e pose la firma: Savio Angelo di Castelnuovo d'Asti.

   Ma spedita questa lettera, D. Bosco non fu ancor soddisfatto; quindi, agitato da una santa impaziente commozione, scrisse un'ultima lettera in latino, nella quale ripeteva la frase: “ Dicit Dominus: Erunt mala super mala in domo tua ”. Non più scongiurava, minacciava ancor più gravi castighi se avesse posto la sua firma alla legge. Quindi si affrettò a mandarla ad uno dei capi valletti di servizio, uomo che nel palazzo reale aveva moltissimo credito, e la confidenza del Re. Si chiamava Occhiena, era di Castelnuovo, suo amico, un po' suo parente, ed i cui figli frequentavano l'Oratorio. Il Re era partito nello stesso giorno per Susa. Il Sig. Occhiena, ricevuta la lettera: - Sta bene, rispose al latore: di' a D. Bosco che appena il Re sarà di ritorno gli sarà consegnata. Vado a metterla nelle sue stanze.

     - Ma è pressantissima: bisogna che il Re la legga subito.

     - Allora riporta a D. Bosco che stia tranquillo; la lettera sarà spedita all'istante. - E chiamato un valletto, gli ordinò di sellare il cavallo e gli consegnò la lettera. Il valletto raggiunse il Re a S. Ambrogio.

       - Una lettera per Vostra Maestà.

       - Una lettera? Dalla a qualcuno del seguito, la leggerò quando sarò in comodo: ora ho altri affari per le mani.

     - Ma è pressantissima e parla di cose che importano molto a Vostra Maestà.

     - E chi è che me la manda?

     - D. Bosco.

     - Contacc! Ne ha sempre delle nuove costui. Mi scrive cose che mi danno da pensare. Dammi quel foglio.

Il Re aperse la lettera, e dopo una rapida scorsa:

         - L'ho detto io, esclamò; sempre così. Riportala, custodiscila, e poi quando sarò di ritorno me la darai. - Così dicendo si avviò; ma fatti pochi passi, si volse indietro, chiamò il paggio. - Ma no, gli soggiunse; dalla a me quella lettera. - E messala in saccoccia continuò il viaggio.

   Il Re ne era stato sconvolto, tanto più che lo addolorava la morte del figlio, come udì il Ch. Cagliero dalla bocca del Marchese Fassati, che aveva vista la lettera dì D. Bosco aperta sul tavolino del Re. Il Sovrano, ritornato a Torino, fece leggere a qualche Ministro la lettera di Don Bosco dicendo: - Guardate quello che mi scrive D. Bosco. Dite voi ora se debbo firmare la legge. - Non sappiamo quale risposta abbiano data que' signori, ma il 28 maggio, ritornata la legge alla Camera dei Deputati, veniva approvata con 95 suffragi contro 23. Essa dunque conteneva cinque disposizioni principali. La soppressione di quei conventi che non attendevano alla predicazione, all'educazione, o all'assistenza degli infermi; quella dei benefici e dei capitoli collegiali nelle città che non oltrepassavano i 20.000 abitanti; l'erezione di una cassa ecclesiastica; le pensioni da assegnarsi ai religiosi; e finalmente una tassa speciale da imporre sui corpi morali ed enti ecclesiastici non soppressi.

  Quando la legge venne presentata al Re per la firma egli rispose; - Sospendiamo; lasciatemi che possa pensarci un po' sopra. - È  forse in questa occasione che il generale La Marmora o qualcuno della sua famiglia si presentò a colloquio segreto da D. Cafasso alle due dopo mezzanotte, intrattenendovisi fino all'alba.

  I Ministri pertanto vedendo che la coscienza del Re era turbata e predisposta contro di loro, o per secondare una sua domanda, o per propria iniziativa, gli proposero di radunare alcuni teologi di Corte dei quali aveva stima, i quali giudicassero i suoi dubbi. Il Re acconsentì. In quel momento era così risoluto, che se i teologi lo avessero consigliato bene, o non avrebbe firmato, o almeno la legge sarebbe stata rimandata a tempo più remoto. I Ministri convocarono allora in palazzo quattro ecclesiastici, Dottori in diritto canonico, tutti cortigiani, allievi dell'Università, discepoli e ammiratori di Nepomuceno, Nuytz. Vittorio Emanuele recossi subito in mezzo a loro, propose la questione, e consegnando ad essi le lettere dì D. Bosco perchè le esaminassero, soggiunse che voleva gli fossero restituite. Quindi per non essere d'impedimento alla libera discussione, andò nella sala vicina, ove aspettando la risposta si mise a passeggiare in preda a viva agitazione.

   I Teologi discussero in poco tempo la questione, ed il Re, stato richiamato, rientrò. Ed ecco il responso di quei signori: -Maestà, non si spaventi di ciò che ha scritta D. Bosco. Il tempo delle rivelazioni è passato, quindi non deve tener conto delle profezie e delle minacce di Don Bosco. In quanto alla legge sui conventi dover ritenersi che, per quell'autorità per cui una cosa è creata, può eziandio distruggersi. Dallo Stato procedere il privilegia di potersi costituire una società in corpo morale e quindi essere lo Stato in pieno diritto di ritogliere questo privilegio, colle conseguenze naturali che ne derivano. Perciò il potere civile essere pienamente libero di dare da sè sola quelle disposizioni legislative che da lui saran credute necessarie all'esistenza o no delle corporazioni religiose, degli altri enti ecclesiastici e dei loro possedimenti. Non sussistere il diritto della Chiesa vantato dagli avversariidella legge.

     - Ma insomma, disse il Re, che poco intendeva di quelle frasi: in coscienza posso firmare questa legge?

     - Può firmarla! risposero quei Dottori!!!

   In questo stesso giorno, 29 maggio, il Re la sottoscrisse. Furono Colpiti 35 Ordini religiosi, 334 case e 5406 persone. Nello stesso tempo un Decreto reale dichiarava soppressa l'Accademia di Superga, che dopo l'espulsione dell'Audisio era rimasta senza convittori; e il danaro che, in gran copia erasi accumulato nella cassa di quell'amministrazione, più tardi con altro Decreto, si spese in assegni temporanei e vitalizi a beneficio di preti spretati e di certi teologi singolarmente benemeriti del governo nazionale. Quante angosce queste leggi apportarono specialmente alle povere religiose! E molti preti furono processati per aver adempiuto al loro dovere nell'amministrazione dei Sacramenti.

   Il giorno dopo il famoso parere dato dai teologi al Re, uno di questi, canonico in un paese di provincia, incontravasi con D. Bosco presso il Rondò di Valdocco. D. Bosco lo salutò, il canonico rese il saluto e, fermatosi, chiese:

         - Lei è D. Bosco?

         - Per servirla.

         - È  lei che ha scritto al Re certe lettere insolenti? Sì, sono io; ma non erano insolenti, sebbene quali un suddito fedele è obbligato a scrivere al suo Re, per ritrarlo da un mal passo che sta per fare.

     - Ed è lei dunque che si azzarda di imporre le sue opinioni e a dettar leggi, mentre dovrebbe invece obbedire? Stupisco ben bene che abbia osato tanto.

-Ed il Re ha seguito il mio consiglio?

     - Il Sovrano era nel suo diritto. Si trattava di un privilegio della Corona.

     - E avete riconosciuto nel Re questo diritto?

      - Certamente!

      - E lo avete consigliato a firmare?

      - Senza dubbio.

       - Mi perdoni: prima di andare avanti, io vorrei farle una interrogazione. Stamane ha celebrato la S. Messa?

     - Ciò non ha che fare con quanto debbo dirle per suo rimprovero.

     - La prego; ha celebrato stamane o non ha celebrato? - Sì, ho celebrato. E perchè no?

     - E prima di celebrare si è almeno andata a confessare?

     - Quale domanda mi fa! E perchè?

     - Come! Osa accostarsi alla sacra mensa, senza aver chiesto perdono al Signore del consiglio ingiusto dato al Re, e riparato in quanto potrà al danno ed allo sfregio che per colpa loro ha ricevuto la Chiesa?

   Il canonico restò offeso a questa invettiva. Per sua scusa trasse fuori tutti gli argomenti coi quali nell'Università Torinese si dava al Re ogni supremazia riguardo a certi diritti che giustamente la Chiesa rivendicava per sè. D. Bosco ribattè una per una tutte quelle false proposizioni e lo lasciò confuso e sbalordito.

   In quel momento il canonico allontanossi assai disgustato con lui, ma non tardò a divenire suo amico e benefattore insigne; e fu tale sino alla morte. Gli errori imparati in gioventù da certi perfidi professori hanno tale veleno da ottenebrare le verità più evidenti.

   Varie altre erano state le lettere confidenziali che D. Bosco aveva scritte al suo Sovrano, e finchè ebbe speranza di ritrarlo da un passo che prevedeva rovinoso, non cessò dallo scrivergli, talmente che il Re un giorno esclamò: - Io non ho più un istante di pace! D. Bosco non mi lascia vivere! - E incaricò una persona di Corte di riferire a D. Bosco queste sue parole.

  Ma questa rimostranza non avendo ottenuto il suo effetto, mentre la questione si agitava nelle Camere, Vittorio Emanuele, preoccupato ed impaziente, dopo i primi e dolorosi casi, volle conoscere personalmente il luogo ove abitava quel prete, causa a lui di tanto sgomento.

Pertanto, un lunedì di buon mattino, vestito alla borghese venne in Valdocco a cavallo con un suo aiutante di campo e fece un giro intorno all'Oratorio. Visto il chierico Cagliero lo chiamò a sè e gli chiese notizie di D. Bosco. Il chierico rispose che D. Bosco si trovava in chiesa, ma, stanchissimo per le confessioni, la predicazione e le assistenze ai giovani del giorno precedente. Ciò udito, il Re si allontanò, ma dopo qualche giorno ritornava in carrozza.

   Pochi momenti prima che giungesse sul Rondò, Don Bosco scendeva dalla sua camera e diceva a Goffi che era portinaio: - Io ho molto da fare, e se venisse anche il Re gli dirai che non ci sono. - Ciò detto, ritornò in camera. Ed ecco il generale Conte d'Angrogna sceso dalla vettura reale, viene all'Oratorio e chiede di D. Bosco. Avuta la risposta da Goffi, ritornò presso il Re che lo attendeva. 11 Ch. Francesia, che osservò ogni cosa, lo vide risalire in vettura e questa avviarsi alla fucina delle canne.

   Il Re però aveva parlato al generale con qualche vivacità dell'ardire di D. Bosco nello scrivergli certe minacce, e quegli, uomo d'indole impetuosa, credè suo dovere, chiedere conto a D. Bosco delle supposte offese fatte al Sovrano.

   Il Conte d'Angrogna dunque entrava vari giorni dopo a cavallo nel cortile dell'Oratorio seguito dal suo attendente e balzato a terra, dopo aver chiesto ove fosse D. Bosco, entrò difilato nella sua camera.

D. Bosco si alzò in piedi.

     - Lei è D. Bosco? gli chiese il generale con modi risentiti.

     - Sono io.

       - È  lei che ha osato scrivere certe lettere al Re volendogli, imporre il modo di governare il regno?

- Io in persona ho scritto; ma non ho mai inteso imporre la mia volontà a nessuno!

    Il generale lo interruppe, e prese ad inveire contro D. Bosco chiamandolo impostore, fanatico, ribelle, nemico del Re, del quale l'accusava aver vilipeso l'onore, oltraggiata la maestà, messa sotto i piedi l'autorità sovrana.

   D. Bosco a quando a quando cercava di interrompere quel torrente d'ingiurie e sforzavasi di dimostrargli come le sue lettere non fossero irriverenti, il fine del suo scrivere essere stato di illuminare il Re; sè amare il proprio Sovrano ed essere pronto a qualunque sacrificio per dargli pegno della propria fedeltà. Ma quel signore .smaniava sempre più, e non capiva, o non voleva capir ragioni; perciò alzando la voce: - Orsù, io non sono venuto perchè la questione finisca in sole parole: lei deve dare soddisfazione degli insulti che ebbe l'ardire di indirizzare al Re.

     - E in che modo?

     - In primo luogo, in nome di Sua Maestà, le intimo di non scrivergli più cose che alludano alla sua Corte ed alla famiglia reale. Il Re è adiratissimo, e se lei non obbedisce si ricorrerà a misure dispiacenti. E ora sieda e scriva ciò che io le detterò.

     - Purchè non sia una ritrattazione, una negazione della verità, lo sono pronto, disse D. Bosco; e sedutosi, prese la penna.

   Il generale incominciò a dettare una formula, colla quale chiedevasi umili scuse al Re, pregandolo a tener come non avvenute le minacce e le profezie scritte.

      D. Bosco posò la penna: - Non è possibile che io scriva simile dichiarazione.

     - E pure lei deve scriverla a qualunque costo.

     - E quando io l'abbia scritta, sarà lei responsabile in faccia a Dio di ciò che potrà accadere?

     - Qui Dio non c'entra, gridò il generale, e voglio che scriva.

     - D. Bosco si alzò: - Ed io non scrivo.

   A questa risposta, il generale furibondo, messa la mano sull'elsa della spada, intimò di pensar meglio ai casi suoi. Pareva volesse sfidarlo a duello. Ma D. Bosco, con una calma ammirabile, gli rispose che egli non aveva armi per difendersi e che le sole sue difese erano la ragione e la religione. - Del resto, signor Conte, io potrei sfidarla a chi di noi due prega di più. Lei pregherebbe meglio e più di me avendo maggior tempo libero, e perciò sicuramente sarebbe sua la vittoria.

   Il Conte però sbuffava scuotendo la spada, ma Don Bosco per finir quella scena, preso un piglio risoluto: - Olà, esclamò: crede lei forse di intimorirmi con queste sue minacce? Glielo dico apertamente: io non ho paura.

   Questa risolutezza non aspettata arrestò alquanto la foga del generale, il quale rispose: - Come? Lei dunque non ha paura di me?

     - No, non ho paura perchè so con chi tratto in questo momento. Lei è un gentiluomo, un soldato valoroso e non vorrà certamente far violenza ad un povero prete, disarmato, il quale poi all'ultimo ha fatto ciò che credeva meglio per il bene dell'anima del suo Re. Io di ciò sono tanto sicuro, signor generale, che se avessi saputo che lei intendeva di recarsi in casa mia, le avrei tolto l'incomodo di questa visita; io stesso sarei andato al suo palazzo, ove con tranquillità avremmo potuto trovare il modo di dar soddisfazione al Re e nello stesso tempo salvare la mia coscienza. Io sapeva lei essere persona così gentile e rispettabile, che al mio comparire avrebbe tirata fuori una bottiglia e avrei bevuto alla sua salute.

   Il generale mirava D. Bosco e non sapeva più nè che dire nè che fare. L'ira si era calmata, e meravigliato del cambiamento dei sentimenti in lui prodottosi mezzo sbalordito, salutò D. Bosco ed uscì. Montò a cavallo, uscì dal cancello, si fermò, rientrò nel cortile, ridiscese e fu di nuovo nella camera di D. Bosco: -Dunque lei dice, ripigliò, che verrebbe in casa mia?

     - Sicuramente.

     - E avrebbe coraggio?

     - Certo che ci vengo.

     - E se la prendessi in parola?

     - Mi prenda pure.

      - Venga domani alle II.

       - Non posso a quell'ora, perchè ho un affare di molta importanza. Mi fissi lei un'altra ora e che le sia comoda.

     - Alle tre dopo mezzogiorno.

     - Ebbene: domani alle tre dopo mezzogiorno sarà a riverirla.

Il generale guardò fissamente D. Bosco, e poi partì.

   Il giorno dopo D. Bosco fu esatto all'appuntamento. Fu accolto con ogni cortesia e con calma si formulò la lettera da mandarsi al Re. D. Bosco la sottoscrisse. In questa dicevasi rincrescere molto a D. Bosco del dispiacere dato al Re, non essendo sua intenzione di offenderlo menomamente: in quanto alle predizioni il Sovrano le tenesse in quel conto, che giudicava più conveniente alla sua tranquillità. Concludeva promettendo che non avrebbe scritte più simili lettere. - È  da notarsi che la legge era già stata firmata, e i fatti avvenuti nessuno poteva negarli. Tuttavia D. Bosco disse poi che non avrebbe mai sottoscritto quel foglio se non fosse stato per evitare un maggior male e disgustose conseguenze.

   La conversazione di D. Bosco col generale durò per lunga ora, sempre più cordiale ed ilare. Il D'Angrogna voleva che D. Bosco si fermasse a pranzo con lui, ma, D. Bosco si scusò col dire di aver già pranzato. Allora il generale, fermando D. Bosco che voleva partire: - Almeno, gli disse, prima di uscire abbia la compiacenza di assaggiare il vino delle mie vigne: voglio che sigilliamo la nostra amicizia.

   Data una voce, comparve il domestico con una bottiglia e con una guantiera colma di biscotti. Riempiti i bicchieri D. Bosco guardò il generale e sorrise: sorrise pure il generale e preso un biscotto, l'offerse a D. Bosco.

   D. Bosco scherzando domandò: - C'è nessuna materia eterogenea in questo biscotto?

   Il generale pure scherzando: - Oh questo poi! Veda! mangio io metà del suo biscotto. - E così fece. Dopo alcuni minuti si strinsero la mano, si divisero e da quel punto furono amici.

   Il Conte d'Angrogna, volendo poi far battezzare un suo moro che aveva condotto seco dall'Africa, lo consegnò a D. Bosco perchè lo rendesse Cristiano.

 

 

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