Chierici dell'Archidiocesi nell'Oratorio - Tutte le classi ginnasiali in casa - Accettazioni notevoli di alcuni allievi - L'Ospizio pieno di giovani - Sottoscrizione di condoglianze al Papa - Presentimenti di mali pubblici - Sogno: la marmottina - Mezzi per vivere lungamente - Doti necessarie in un Direttore di collegio - Efficacia di una parola e di uno sguardo di D. Bosco - Timore di abusi e concessioni - Fermezza di Don Bosco nel congedare uno scandaloso, nel rimproverare un disobbediente - È sciolto e riordinato il corpo della musica istrumentale - Un giovane perdonato - Domanda di vestiarii al Ministro della guerra.
del 30 novembre 2006
 Sul principio dell'anno scolastico 1859 - 60 i chierici nell'Oratorio, appartenenti all'Archidiocesi di Torino, erano una ventina; D. Bosco riusciva nel suo disegno di istituire tutte le scuole Ginnasiali in Valdocco per non essere più costretto a mandare i giovani in città presso gli esimi e caritatevoli professori D. Picco e Bonzanino. Della prima ginnasiale, la quale contava ben 96 alunni, fu professore il Ch. Celestino Durando, della seconda il Ch. Secondo Pettiva, della terza il Ch. Giovanni Turchi, della quarta e quinta il Ch. Giov. Batt. Francesia. A questi nel nobilissimo arringo successero altri e poi altri ancora, che istruiti e fatti maestri, si videro attorniati da numerosissimi fanciulli, speranze della Chiesa, e germi della futura Congregazione. Così D. Bosco si vedeva rivivere ne' suoi giovani chierici, che da lui avevano appreso e fatto proprio lo spirito di pietà e di sacrifizio.
Santa Teresa infatti stimava più l'azione che non la sola orazione e diceva quindi: “ Il profitto dell'anima non consiste in pensar molto, ma sì in molto amare. E se mi si domanda come acquistare questo amore rispondo: Col determinarsi ad operare e soffrire per Dio, e facendolo poi in effetto, quando l'occasione se ne presenta, specialmente quando si ha da eseguire atti di ubbidienza ”. Così furono compiuti i desiderii e le fatiche sopportate per tanti anni da D. Bosco.
L'Oratorio si era ripopolato coi giovani ritornati dalle vacanze e con quelli novellamente accettati. È grazioso il modo col quale uno di questi si fece iscrivere fra gli studenti.
Nell'ottobre, un certo Domenico Parigi, in età di 14 anni, partiva tutto solo dalla casa paterna, veniva nell'Oratorio attratto dalla fama di D. Bosco, e saliva alle stanze del Superiore. D. Bosco si vide innanzi un giovanetto sconosciuto, sul volto del quale brillava la purezza e l'innocenza dell'anima.
- Chi sei tu, o mio caro?
- Sono Parigi Domenico di Chieri.
- E che cosa vuoi da me?
- Che mi tenga con lei qui nell'Oratorio.
- Ma tu non sei stato ancora accettato.
- E che importa? Mi accetti adesso.
- Ascolta: facciamo le cose regolarmente. Ritorna a Chieri, di' ai tuoi parenti che ti accompagnino qui e così ci parleremo e stabiliremo le condizioni convenienti.
- Oh! a casa io non ritorno pi√π.
- Allora scrivi una lettera.
- Io non scrivo; scriva lei!
D. Bosco lo guardò per un istante, sorrise di tanta franchezza: -Ebbene, scriverò io!
E il giovanetto rimase, fece tutte le classi di latinità, studiò da prete in seminario e morì prevosto di S. Francesco al Campo nel 1899.
Un'altra accettazione degna di nota fu quella del giovanetto ebreo Jarach, di 13 anni. D. Bosco si era già occupato della conversione di parecchi altri Israeliti e li aveva battezzati nella sua chiesa. Il padre di Jarach, dotto Rabino di Ivrea, convertito da più anni, era stato da Mons. Moreno accolto nel suo seminario, ove impiegò tutta la vita insegnando ai Chierici la lingua ebraica e dando lezioni di Sacra Scrittura. Il Vescovo aveva anche ritirato una sua figlia, che abbracciata la fede cristiana, entrava in un convento e faceva la sua professione religiosa.
Accenneremo ancora all'arrivo nell'Oratorio, il 20 di ottobre, di Rossi Giuseppe, nativo di Gambarana Lomellina sui 24 anni, il quale era stato spinto a venire con D. Bosco, dalla lettura del Giovane Provveduto. “ Quando mi trovai, egli scrisse, per la prima volta alla presenza di D. Bosco, al vedere la sua benevolenza paterna, l'affabilità con cui mi accolse, rimasi grandemente edificato, e ne ricevetti in me una profonda e cordiale impressione e un sentimento di affetto figliale verso di lui. ” Da quel punto Rossi fu degno compagno di Buzzetti nell'amore a D. Bosco e nell'aiutarlo nella gestione materiale dell'Oratorio. Quando egli entrò i giovani ricoverati erano circa trecento.
Il conto nel quale dalla gente era tenuto l'Oratorio è dimostrato dalle lettere seguenti. D. Bosco così scriveva. al Barone Feliciano Ricci a Cuneo.
 
Car.mo Sig. Barone,
 
La Divina Provvidenza non mancherà d'aiutarci tutti. In seguito alla sua lettera, che fa vedere l'assoluto bisogno di ricoverare il giovane Magliano, mi sono determinato di fargli fare un salto a tutti i postulanti che eccedono il numero di mille è fargli un posto pel primo lunedì dopo l'Epifania del 1860. Partecipi questa notizia al benemerito Sig. Cav. Ferraris, e gli dica che, come presidente della Società di S. Vincenzo, è obbligato di compensare con qualche Ave Maria l'accettazione del suo raccomandato.
Io non fisso alcuna oblazione entrando; solo Le dico che gli speciali bisogni in cui versa questa casa sono gravi e perciò la raccomando alla carità di Lei, benemerito Sig. Barone, del cavalier Ferraris e della medesima Conferenza di S. Vincenzo. Se non li ha ancora ricevuti, avrà quanto prima i libri che fu compiacente richiedermi.
A Lei in particolare, Sig. Barone, auguro la santa virtù della pazienza, e raccomandando me e li miei poveri giovani alla carità delle divote sue preghiere, mi professo sempre con pienezza di stima
Di V. S. Car.ma
Torino, 16 dicembre 1859.
Obbl.mo ed Aff.mo servitore
Sac. Bosco Giovanni.
 
 
Alcuni giorni dopo D. Bosco rispondeva eziandio ad altro cospicuo personaggio.
 
Car.mo nel Signore,
 
Ho un bel pensare, ma non è più possibile di fare posti in questa casa, che è letteralmente piena. Di più nel corso dell'estate ne mandai parecchi in campagna da mio fratello che d'inverno non sa che farne. Perciò di mano in mano che si fa qualche posto, bisognerà che raccolga quei poverelli, che poltrirebbero nell'ozio e nell'abbandono. Che farei? Pregherò il Signore Iddio che aiuti Lei e la madre, affinchè fra tutti possano salvare l'anima a questo ragazzo. Dio benedica Lei e le tante sue occupazioni, e in quel che posso mi creda sempre
Torino, 21 dicembre 1859.
Aff.mo amico
Sac. Bosco Giovanni.
 
Dopo il principio delle scuole primo atto solenne di D. Bosco fu il dare al sommo Pontefice una prova dell'ardente affezione, che a lui portava l'Oratorio di Valdocco e la viva parte che prendeva a' suoi dolori per la rivolta, l'irreligione, il malcostume, la persecuzione del clero, introdotte ufficialmente nelle Romagne. Egli perciò il 9 novembre a nome suo e de' suoi giovani scriveva al Papa Pio IX una rispettosa lettera, nella quale esternavagli sentimenti di condoglianza per i fatti già succeduti e che succedevano a danno della religione e della Santa Sede; e in pari tempo esponevagli quanto in Torino si praticava dai buoni per opporre un argine alla colluvie dei mali, che da ogni parte inondavano. Finiva con promettere che avrebbero i suoi alunni ricorso continuamente al trono della grazia per ottenergli in tante angustie l'aiuto divino.
D. Bosco la fece sottoscrivere da tutti i suoi giovani, e la spedì per mani sicure.
Ma in quei giorni, asserì D. Ruffino, D. Bosco appariva soprappensiero. Aveva egli narrato di aver visto in sogno un uomo di alta statura il quale, girando per le vie di Torino, toccava or l'uno or l'altro dei cittadini con due dita nella faccia. I toccati diventavano neri e cadevano morti. Era forse questa un'epidemia morale?
Intanto il buon padre proseguiva a tener ogni sera un discorsetto alla comunità. Un nostro vecchio amico di quei tempi così ci narrava.
“ Una delle prime sue parlate che udii (1859) fu sulla frequenza dei Sacramenti. Questa generalmente non era ancor bene avviata fra i giovani venuti dalle case loro. Egli raccontò un sogno. Gli era parso di essere vicino alla porta dell'Oratorio ed osservare i giovani di mano in mano che rientravano. Vedeva in quale stato si trovasse ciascheduno in faccia a Dio. Quand'ecco entrare nel cortile un uomo che portava una piccola cassetta. Costui andò in mezzo ai giovani. Venne l'ora fissata per le confessioni e quell'uomo aperta la cassetta, tirò fuori una marmottina e la faceva ballare. E i giovani invece di entrare in Chiesa gli facevano corona attorno, ridendo e schiamazzando per i suoi lazzi, mentre egli lentamente si ritirava nella parte del cortile più lontana dalla cappella. D. Bosco descrisse prima, senza far nomi, lo stato della coscienza di molti giovani, quindi venne a narrare gli sforzi e le insidie del demonio per distrarli e svogliarli dall'andarsi a confessare. Con quella marmottina fece ridere molto il suo uditorio, ma lo fece anche riflettere seriamente sulle cose dell'anima. Tanto più che poi in privato svelava, ai singoli che lo richiesero, ciò che essi credevano neppur l'aria dovesse conoscere. Ed era la verità. Questo sogno determinò la maggior parte dei giovani a confessarsi molto spesso e generalmente ogni settimana e la santa Comunione divenne molto frequentata.
” Ricordo eziandio che parlando D. Bosco della sanità del corpo e dell'importanza d'usare mezzi convenienti per non rovinarla, il Ch. Bongiovanni Giuseppe domandò la parola, e ottenutala chiese: - Che cosa si deve fare adunque per conservare la buona sanità, e campar lunga vita? - Don Bosco gli rispose dirigendo la parola ai giovani: - Vi dirò un segreto, ossia una ricetta, che servirà per risposta al chierico Bongiovanni e che sarà di gran vantaggio a tutti voi. Per conservare la sanità e vivere lungamente è necessario: 1° Coscienza chiara, cioè coricarsi alla sera tranquilli, senza timori per l'eternità. - 2° Mensa frugale. - 3° Vita attiva. - 4° Buone compagnie ossia fuga dai viziosi. E spiegava brevemente questi quattro punti ”.
La parola di D. Bosco era quella adunque che dirigeva sapientemente la casa. Un certo Zerega Giusegge, ligure, impiegato nell'arsenale di Torino, nel 1859 veniva spesse volte nell'Oratorio, accolto come carissimo amico; e si meravigliava della facilità colla quale D. Bosco guidava tanta gioventù. Egli semplice, ma esperto meccanico, meditava di occuparsi dei giovani operai, quando fosse tornato a Genova, desiderava abbracciare lo stato ecclesiastico e infatti moriva sacerdote, parroco e pieno di meriti. Perciò un giorno domandò a D. Bosco, quali fossero le doti necessarie ad un direttore per regger bene un collegio od un ospizio; e Don Bosco gli rispose: - È necessario che un direttore abbia piena influenza sui giovani, e per averla bisogna: 1° che sia stimato santo - 2° che sia reputato dotto in ogni ramo di scienza, specialmente in quelle cose che interessano gli alunni. Se interrogato non sa rispondere dica al giovane: “ Ora non ho tempo, domani ti darò risposta. ” E bisogna che abbia pazienza e s'istruisca su quel punto per poter rispondere con precisione. - 3° Che i giovani sappiano di essere amati.
La potenza mirabile di D. Bosco stava in questo: egli aveva in mano il cuore de' suoi fanciulli. Con una sua parola ei li metteva nella pi√π grande allegria, al modo stesso che con l'ombra sola di un suo rimprovero, li faceva cadere nella pi√π profonda tristezza. Fra tanti fatti da noi conosciuti, ci limitiamo a raccoglierne alcuni.
I giovani sentendo ancor nelle ossa la dissipazione delle vacanze, una sera dopo le orazioni non si prendevano tanta cura di far silenzio appena ricevutone il segno. D. Bosco era in cattedra e dopo aver atteso per qualche minuto, ad un tratto esclamò con tutta pacatezza: -Ma sapete che io non son contento di voi? - E li mandò a letto senza permettere che gli baciassero la mano. Era questo il castigo più forte e più temuto, perchè il più sensibile, che il buon padre potesse infliggere ai suoi figli; e non fu bisogno d'altro, poichè da quel giorno memorabile D. Bosco non aveva che a comparire, perchè si potesse anche udir volare una mosca: il campanello, che aveva avuto fino allora parecchio da fare in mezzo a tutto quel frastuono, divenne affatto inutile, giacchè si tremava al solo pensiero di veder rinnovata quella punizione.
Avendo bisogno di una poesia per l'onomastico di una benefattrice egli incaricò un suo alunno di mettergli insieme alcuni versi. Questi però alla sera non aveva sodisfatto il suo compito. Ma non volendo andare a letto, senza aver prima baciata la mano a D. Bosco, sperò che questi si fosse dimenticato dell'incarico datogli, e sebbene un po' angustiato, presentossi con aria disinvolta ad augurare la buona notte al servo di Dio, che appena vedutolo gli domandò: - E la poesia?
- Ma ......
- Allora per un'altra volta saprò a chi indirizzarmi. - Il povero giovane ne restò tanto male, che ci volle l'industriosa sollecitudine di D. Bosco a dissipare quella dolorosa impressione.
Tale era il suo costume quando scorgeva che uno turbavasi per un avviso un po' serio; lo troncava, dava all'alunno una dimostrazione d'affetto, per così levar da lui ogni specie di amarezza.
Un altro aneddoto di genere diverso ci conduce alla stessa conclusione. D. Bosco, conoscendone il bisogno grave, ordinava che al mattino nei giorni di digiuno si desse ad alcuni chierici caffè con latte. Il cuoco, uomo bizzarro, piccole miserie della vita umana, preparava tazze piccole e latte in così poca quantità che non bastava per tutti. Quei chierici chiesero al cuciniere che fornisse loro latte a sufficenza, ma egli rispose bruscamente, che non dovevano pretenderne di più. Si rivolsero allora a chi rappresentava l'economo, il quale benchè gli dicessero essere quella concessione fatta dallo stesso D. Bosco, rispose trattarsi di una novità ed egli nulla sapere di tali ordini. Allora deliberarono di appellarsi a D. Bosco. Tre di essi salirono alla sua stanza. Due si fermarono fuori, ma in modo di udire, uno entrò per esporre le lagnanze di tutti. Guastò però la frittata, perchè sbadatamente e riferendo nell'intenzione le sue parole al cuoco e non a D. Bosco, concluse la narrazione di quel gravame con dire: - Perchè poi sa, Don Bosco, in casa nostra un po' di polenta l'abbiamo ancora! - I due che erano fuori udendo questa sparata si ritirarono in fretta in fretta. D. Bosco profondamente ferito nel cuore rimase interdetto, guardò il suo interlocutore con uno sguardo velato dalle lacrime e non disse parola. Quel poveretto allora si scusò e dileguossi. Quante volte un solo sguardo soave e benigno di D. Bosco calmò impazienze e vivacità ora subitanee, talora giustificate, sapendo egli tollerare e dimenticare! Ed è perciò che gli animi esasperati per un istante non diminuivano in lui la loro affezione.
Pareva che per essi avesse scritto l'Ecclesiastico nel capo XXII: Chi punge l'occhio ne preme le lacrime, e chi punge il cuore ne tragge fuori gli affetti.... Quand'anche tu avessi tirata fuori la spada contro l'amico per impeto subitaneo, non disperare: perocchè puoi tornare in grazia con esso. Se avrai detto all'amico Parole d’ira, non temere: vi è luogo alla pace, purchè non vi sia stata maldicenza, nè rimprovero d'ingratitudine, ne superbia disprezzatrice, nè manifestazione di segreto, nè colpo di tradimento.
D. Bosco non aveva tardato ad imporre al cuoco di eseguire senza ridicole economie le disposizioni date. Ciò che sempre sorreggeva e consolava i suoi chierici era il conoscere la carità di chi li aveva adottati per figli. Il suo cuore era così tenero, che non gli permetteva di dare una negativa, quando gli era chiesto qualche favore. Tuttavia temendo gli abusi e assolutamente non volendoli, schivava che a lui si ricorresse nelle cose, che spettavano a dispense in quanto alle regole di materialità della vita, e li rimandava al Prefetto. Allora era facile a concedere, ma indirettamente. Egli però sapeva prevenire una domanda quando conoscevala giusta. Molte volte vedendo nel refettorio qualcuno di quei suoi buoni figliuoli non reggere al cibo comune diceva sotto voce una parola al Prefetto, perchè glielo facesse cambiare. Così D. Bosco regolavasi in varii altri casi di simile natura, e i chierici e anche i giovani restavano compresi da quei tratti di squisita bontà.
“ D. Bosco, scrisse il Canonico Ballesio, in tutta la sua condotta verso di noi, si vedeva che l'unico suo pensiero e desiderio era la gloria di Dio, ed il nostro maggior bene morale, religioso e civile, con una gravità, dolcezza, prudenza tutta sua propria, lontana da ogni esagerazione ”.
Ne' suoi atti non scorgevasi nè violenza, nè debolezza.
Pareva non si potesse adirare: tosto che gli si accendeva il primo moto d'ira ei lo frenava sollecito: e violentando sè stesso con moderato sorriso si raddolciva. Nello stesso tempo però, ed eziandio questa era carità, dimostravasi di una fortezza abituale, risoluta nell'esercitare la virtù della giustizia, sostenendo i diritti della moralità e dell'ordine disciplinare. Dire altrimenti è un falsare il carattere di D. Bosco.
Ci scriveva Mons. Cagliero: “ Durante il mio chiericato, un giovanetto semplice ed innocente, e mio aiutante di sacrestia, era stato vittima di scandalo da parte di un adulto. D. Bosco non appena lo venne a sapere, ne sentì un estremo dolore, si turbò e pianse in mia presenza. Quindi fu sollecito a riparare all'innocenza tradita con paterna dolcezza; ma con pari fortezza procurò che fosse subito allontanato il colpevole dall'Oratorio ”.
D. Bosco quantunque sempre dolcissimo, non passava facilmente sopra le mancanze di disciplina. Il Ch. Marcello nel mese di maggio, benchè fosse assistente, non arrivava mai in tempo alla lettura spirituale ed alla benedizione, che si dava tutte le sere. Per questa ed altre mancanze di vigilanza D. Bosco non aveva lasciato di ammonirlo.
Il Chierico doveva recarsi tutte le feste all'Oratorio di Vanchiglia, ma conduceva con sè qualcuno della casa, contro il volere dei superiori. E fu avvertito senza frutto.
Una domenica al mattino, celebrandosi in Vanchiglia non so quale solennità, egli, senza intesa con D. Bosco o con D. Alasonatti, condusse a quella festa varii giovani. Don Bosco volle porre termine ad un tale disordine conosciuto da tutti, e togliere un cattivo esempio che poteva facilmente trovare seguaci.
Alla sera adunque innanzi all'intera comunità dopo le orazioni, toccò il fatto della grave disubbidienza di chi avesse condotto fuori di casa i giovani senza averne licenza. Quindi parlando, cosa insolita in quell'ora, il dialetto piemontese, e con tono marcato di amarezza, si fece a chiedere in pubblico, chiamandoli per nome, ai singoli giovani sopra accennati: - Dove sei stato questa mattina?
- All'Oratorio di Vanchiglia.
- E chi ti condusse?
- Il Ch. Marcello.
Così domandò agli altri che ripetevano la stessa risposta. In mezzo ad un profondo silenzio risuonavano, con brevi pause, lentamente, le parole: - E tu?... Marcello! Finite queste interrogazioni D. Bosco espresse il suo vivo dispiacere con poche e secche frasi, ma calme. Fra gli altri era presente D. Albera Paolo.
Simile fortezza lo guidava nell'esigere obbedienza a' suoi comandi e a punire chi ostinato tentasse ribellarsi. Nel corpo della musica istrumentale, numeroso e ben addestrato, eravi un distinto organista, vivente nell'Oratorio come pensionante, che dava in Torino molte lezioni di pianoforte, e largamente retribuito. Pareva ed era buono, ma di testa esaltata e poco sofferente di obbedienza. Con questo compagno ed ammirato maestro di musica i giovani suonatori avevano contratto grande famigliarità e talora davano ascolto a certe sue massime contrarie alla sommissione dovuta ai superiori. In mezzo a loro perciò si manifestava qualche atto di indisciplinatezza, benchè leggero: ma parve che un avviso di D. Bosco avesse posto rimedio al male incipiente.
Tuttavia D. Bosco vigilava. Per qualche anno, per motivi speciali, aveva loro permesso che nella festa di Santa Cecilia, allorchè occorreva in giorno feriale, andassero a fare una passeggiata ed un pranzo campestre in luogo da lui designato. In quest'anno incominciò a proibire tale svago. I giovani musici non fecero rimostranze, ma sobillati da qualche loro capo, con promessa di ottenere da D. Bosco licenza, ed anche colla speranza dell'impunità, una metà di essi risolvette di uscire dall'Oratorio e imbandire un pranzo, qualche settimana prima della festa di S. Cecilia. Avevano presa questa ultima decisione, perchè D. Bosco non fosse prevenuto e non mettesse impedimenti.
In uno degli ultimi giorni di ottobre pertanto si recarono in una vicina osteria. Il solo Buzzetti, invitato all'ultimo momento, si rifiutò di unirsi a quei disobbedienti e venne ad avvertirne D. Bosco. Con tutta calma il Servo di Dio dichiarò sciolto il corpo musicale, ordinando a Buzzetti di ritirare e chiudere tutti gli strumenti e di pensare a quali nuovi allievi consegnarli, perchè li studiassero e si esercitassero. All'indomani mattina mandò a chiamare ad uno per uno tutti quei musici riottosi e si lamentò con essi che lo costringessero ad essere severo. Diede quindi loro qualche avviso per la salvezza dell'anima, e senz'altro li rimandò chi ai loro parenti, chi ai loro benefattori, chi raccomandò a qualche padrone di fabbrica. Una lettera di D. Bosco al Barone Feliciano Ricci, a Cuneo, in data 3 novembre 1859, dà ragione del suo operato.
 
Ill.mo e Benemerito Signore,
 
Ho ricevuto con vero piacere la venerata lettera di V. S. benemerita con cui nella solita sua carità raccomanda il giovane Rossi. Questo povero ragazzo, oltre ad altre cose, fu compromesso insieme con altri di questa casa, che contro mia proibizione vollero andare a fare un pranzo fuori di questa in luogo da non tollerarsi, cioè in una bettola. Li mandai a chiamare mentre pranzavano, feci ripetere la chiamata dopo il pranzo, perchè dolevami troppo prendere gravi misure contro ad una ventina di giovani fuorviati. Quattro soltanto in fine si arresero e si umiliarono: gli altri si mostrarono assai più baldi. Dopo il pranzo andarono a girovagare per la città; la sera andarono a cenare nello stesso posto e vennero a casa a notte tarda mezzo ubbriachi; tra questi ultimi eravi il Rossi. Siccome li aveva più volte minacciati, se mostravansi ostinati, di cacciarli dalla casa, così dovetti farlo col massimo mio rincrescimento. Tuttavia in seguito alla sua lettera terrò qui il Rossi in casa per alcuni giorni e vedrò se mi riesce di collocarlo altrove come spero. In quanto all'altro ragazzo di cui parla, ci parleremo a bocca o Le scriverò altra volta, sistemato che sia il gran numero di giovani raccolti or ora in questa casa.
La ringrazio poi di tutto cuore della generosa limosina, che fa a questa casa e L'assicuro che non mancherò di pregare il Signore, perchè benedica Lei e la sua famiglia, mentre con pienezza di stima mi professo
Di V. S. benemerita
Obbl.mo servitore
Sac. Bosco Giovanni.
 
Uno tra questi trovò perdono. Egli era abile in cucina, barbiere, imbiancatore, factotum insomma per il teatro, per le feste e per ogni lavoro manuale.
Alla sera di quel giorno, dopo che D. Bosco ebbe parlato ai giovani, ecco il Ch. Rua dire a D. Bosco: - Signor D. Bosco, se mi permette avrei da patrocinare una causa, che mi sta a cuore.
- E quale?
- Il giovane Pietro E.... fu congedato dalla casa. È giusta la punizione, che fu data a quelli che non vollero ubbidire. Ma il poveretto, inesperto per la giovane età, si lasciò ingannare dai compagni, i quali lo assicurarono aver ottenuta da lei la licenza. Non trasgredì adunque per malizia il suo divieto. Perciò in nome suo le domando perdono e chiedo grazia. - Il giovane colla testa bassa tutto confuso era in mezzo ai compagni.
D. Bosco rispose: - E             non avrebbe dovuto credere alle affermazioni dei compagni... Aveva inteso da me chiaramente l'ordine dato... Sapeva non esser io solito mutar d'intenzioni... La ragione esposta non vale a scusarlo. Tuttavia poichè sei tu che intercedi per lui, sospenderò di rimandarlo a suo padre.... Lo terremo ancora un po' di tempo in prova e vedremo! -
D. Bosco intanto chiedeva al Ministro della guerra, generale La Marmora, vestiarii per i suoi giovanetti che gli furono concessi, ma non sappiamo con quale larghezza.
 
Ill.mo Sig. Ministro,
 
Espongo rispettosamente a V. S. Ill.ma come, nel bisogno di provvedere ad un numero di oltre cento giovanetti ricoverati nella casa annessa all'Oratorio di S. Francesco di Sales, e anche per provvedere ad un numero di oltre mille cinquecento, che frequentano gli Oratorii maschili di Valdocco, di Portanuova e di Vanchiglia, io ricorreva al Ministero della guerra per ottenere a titolo di sussidio alcuni oggetti di vestiario che, o per la forma o perchè molto usati, non potevano più servire ad uso delle regie truppe. La dimanda fu sempre accolta con favore, e questo benemerito Ministero veniva in mio soccorso. Le strettezze della corrente annata mettendomi in posizione assai più calamitosa degli anni scorsi, mi trovo nella necessità di ricorrere a Vostra Eccellenza Illustrissima, supplicandola a voler prendere in benigna considerazione lo stato infelice di questi poveri ed abbandonati giovani, e concedere loro quegli oggetti di vestiario, che ad essi sono di prima necessità, onde ripararsi dal freddo nella prossima invernale stagione, e poter così continuare nel lavoro e guadagnarsi il pane in qualche onesto mestiere.
Noto qui solamente che, attesa l'assoluta povertà di questi, si riceverà colla massima gratitudine qualsiasi genere di vestiario, siano scarpe, tuniche, giacchette, camicie, mutande, lenzuola, coperte, calzoni, e comunque siano rimessi e logori: siano anche cenci di coperte od altro, tra di noi si aggiustano e si fanno servire ad occorrere ai nostri bisogni.
Pieno di fiducia nella nota di Lei bontà, coi sentimenti della più viva e sincera gratitudine, anche a nome dei mentovati giovanetti, mi professo
Di V. S. Ill.ma
Obbl.mo supplicante
Sac. Bosco Giovanni.
 
 
 
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