Congedo del Ministro La Margherita - Supplica al Re per l'emancipazione dei Valdesi e degli Ebrei - Pubblicazione delle prime Riforme civili - Libertà di stampa - Entusiastiche dimostrazioni popolari - Avvisi dell'Arcivescovo al clero e ai fedeli - D. Bosco benchè invitato non prende parte alle dimostrazioni - Processioni mensili in onor di S. Luigi e l'amore alla Chiesa tenuto vivo nei giovani - D. Bosco presso Mons. Fransoni - I seminaristi.
del 08 novembre 2006
 La lettera scritta dal Re al Conte di Castagnetto svelava decisioni prese. Infatti il 9 ottobre il Conte La Margherita, l'unico dei Ministri che non adulasse il Sovrano, fu congedato dal Ministero e nel governo ebbero pieno trionfo i liberali rimanendo padroni del campo. Carlo Alberto non tardò ad accorgersi del suo errore, ma troppo tardi.
Di questo si vide subito un primo effetto. Il Marchese Roberto d'Azeglio, fratello del Conte Massimo, si fece capo di una sottoscrizione, sollecitando quanti erano amici della libertà di ricorrere al Re e domandargli che gli Ebrei e i Valdesi cessassero di essere sottoposti a leggi speciali, fossero pareggiati agli altri sudditi, concedendo loro ciò che si chiamava emancipazione. Non pochi, anche del clero, che non avevano badato alle espressioni ereticali scritte in quella supplica, si lasciarono accalappiare dalle parvenze di giustizia e di libertà. Eppure tali decreti erano stati sanciti per difendere i cattolici dalle seduzioni dei Valdesi, dalle rapacità degli Ebrei, e dall'intolleranza e dall'odio degli uni e degli altri. Il Marchese si era rivolto eziandio al Vescovi, ma questi presentarono al Re una protesta contro la ragionevolezza del favore che s'implorava. D. Bosco pure fu sollecitato a porre la sua firma, facendogli osservare che si erano già sottoscritti sei canonici della metropolitana, dieci curati dalla città, e altri canonici, parroci e semplici sacerdoti in numero di cento. D. Bosco lesse quell'indirizzo e quindi rispose cori pacatezza:  - Quando vedrò qui la firma dell'Arcivescovo, allora vi apporrò anche la mia! - La supplica ebbe poco più di seicento firme, non tutte di Torinesi, e fu poi presentata al Sovrano il 23 dicembre.
Stretti al loro partito i Valdesi e gli Ebrei, si accinsero i liberali colle più vive istanze ad indurre Carlo Alberto a mettere in opera le desiderate innovazioni politiche e civili. Ma siccome il Re si mostrava irresoluto, i giornali stranieri, ispirati da Massimo d'Azeglio, incominciarono a parlare dell'influenza perduta dal Re del Piemonte e dell'opinione pubblica in Italia volta contro di lui. Carlo Alberto irritato e impaurito per quei biasimi e per quelle satire, si arrese, e dal 29 ottobre al 27 novembre pubblicava le prime riforme contenute in una serie di editti. Comprendevano: Un magistrato supremo di cassazione; discussione orale nella procedura criminale; abolizione del foro e di giurisdizioni speciali per alcuni enti civili; trasferimento dal militare al civile delle attribuzioni di polizia; riordinamento del Consiglio di Stato libertà ai comuni di eleggere tutti i propri consiglieri
libertà di stampa con censura preventiva. In questo ultimo editto, pur dichiarando vietata la stampa di opere che offendessero la religione e i suoi ministri, o la pubblica moralità; non si fece conto della Revisione Ecclesiastica; e nel fatto si tennero sottoposte alla censura civile anche le pubblicazioni pastorali dei Vescovi, i catechismi e tutti gli altri libri religiosi e di chiesa, e la stessa Bibbia.
I Vescovi reclamarono l'osservanza delle leggi sancite dal Concilio Lateranense V e dal Tridentino, non per loro vantaggio ma pel bene dei popoli, per la difesa della fede, per la sicurezza del trono, per la gloria del Re. Ma nulla ottennero e Mons. Andrea Charvaz offeso rinunziava alla sua diocesi di Pinerolo.
Intanto dal 29 ottobre Torino fu in preda a un delirio di feste, e più mesi durarono le manifestazioni entusiastiche di tripudio per quelle riforme. Si incominciò con una splendida illuminazione spontanea combinata prima. Turbe immense di popolo vestite a festa, ornate sul petto di coccarde tricolori, con una selva di bandiere percorrevano le piazze e le vie acclamando, l'Italia, Carlo Alberto, Pio IX, Gioberti. Quasi ogni giorno serenate coi canti degli inni patriottici. I capi setta spargevano e allargavano quel movimento in tutte le classi operaie: ad ogni poco si tenevano pubbliche adunanze e banchetti; le società commerciali mandavano messaggeri al Re per offrirgli vite e sostanze qualora a difesa della patria volesse cavare la spada dal fodero. Carlo Alberto non poteva uscire di palazzo senza essere assordato dalle grida di plauso e dai battimani. Il 2 novembre partendo egli alla volta di Genova, dove lo aspettavano altri chiassosi trionfi, fu accompagnato dalla moltitudine fino al Po con fiori e sbandierate. Altra luminaria generale si accese pel 4 novembre onomastico del Re, e si cantò un solenne “Te Deum” nella chiesa del Miracolo. E l'anima di tutte queste ed altre scaltrissime evoluzioni fu Roberto d'Azeglio.
Mons. Fransoni vedendo allora che a molti ecclesiastici anche provetti si era appigliato l'ardor febbrile di novità, di sottoscrizioni e feste civili, e con lodi esagerate levavano al cielo le Riforme, Carlo Alberto, e Pio IX, l'undici novembre con un avviso pubblicato nelle sagrestie, cominciò col vietare al clero di prendere parte alle dimostrazioni politiche, dicendo fra l'altro che i ministri della Chiesa debbono essere i primi a dimostrare la loro devozione al Re, ma non già con secolareschi festeggiamenti, sebbene con l'osservare premurosamente i doveri che ad esso li legano. - E il 13 novembre con una circolare ai parroci, data licenza di cantare il “Te Deum” se ne fossero richiesti, ingiungeva loro di esporre al popolo: che il modo di rendere grazie al Signore e averlo propizio alle nostre preghiere si è, liberar l'anima dalla schiavitù del peccato: nè potersi sperar bene da chi, mentre si fa promotore di qualche sacra funzione, sprezza le leggi ecclesiastiche esservi sempre stati di tali che per celare le loro opere malvagie si coprono del manto di religione.
A questo franco parlare rumoreggiavano contro il santo prelato le recriminazioni tra i liberali, alle quali facevano eco un buon numero di ecclesiastici secolari e regolari con apprezzamenti che indicavano la mancanza in loro di una netta cognizione dei fatti. Si diceva essere Mons. Fransoni partigiano dell'Austria e dei Gesuiti, nemico dell'Italia, osteggiatore dello stesso Sommo Pontefice che era acclamato e benedetto da tutto il mondo. Si spargeva a Voce e a stampa che Pio IX sarebbe stato il capo e il centro della lega Italica; che si era alleato con Carlo Alberto, del quale era nota la grande pietà, per la cacciata degli Austriaci; e che gli aveva mandata in dono una spada da sè benedetta e col motto cesellato: In hoc gladio vinces, e altre panzane di simile conio. Fra i critici di Monsignore vi erano alcuni preti che sentendo il peso della disciplina ecclesiastica, speravano fosse venuto il tempo di scuotere il giogo dell'autorità episcopale; vi erano religiosi che facevano combriccole manifestando desideri di riforme interne nei loro conventi, di mutazioni di qualche regola un po' austera, di temperamento all'autorità, del Superiore, di un regime popolare di maggior libertà e che poi furono dimessi o chiesero d'uscire di congregazione. Ma il clero pio, laborioso, e seriamente occupato nel sacro ministero, era coll'Arcivescovo.
Fra tanti vaneggiamenti spiccava brillantemente l'esimia prudenza di D. Bosco, fermo di non prendere mai parte, o, da solo o con i suoi giovani, alle dimostrazioni di piazza. Egli vedeva chiaro, che sotto il colore di libertà si mirava a sommuovere i popoli contro i diritti di tutti i legittimi principi e in modo speciale contro quelli del Romano Pontefice. Perciò non si mostrava favorevole alle innovazioni politiche, ma si asteneva egualmente dall'opporvisi con atti o parole ostili. Era suo programma, diceva, fare il bene, il solo bene e a qualunque costo. Tuttavia non potè mantenere senza molestie il suo proposito. Persone autorevoli ed influenti sapendo che egli poteva disporre di tante centinaia di giovani, fra i quali un bel numero di adulti, lo invitarono ad accrescere con quelli le turbe che accorrevano alle feste ed alle sfilate; ma egli non ostante le profferte, le insistenze e i rimproveri, sempre ricusò.
Un giorno si incontrò con Brofferio, il quale gli disse: Domani in piazza Castello è già fissato il posto per lei e per i suoi giovani. - E se io non andassi, rispose D. Bosco vi saranno altri che l'occuperanno. Io ho affari urgentissimi che non permettono dilazioni.
 - Ma crede forse che ci sia dei male nel dar una pubblica testimonianza del proprio amore alla patria? Osservò Brofferio con un leggero tono sarcastico.
 - Io credo niente, ma le faccio osservare che sono un semplice prete, senza autorità riconosciuta dai poteri dello Stato ed il cui ufficio si limita al predicare, confessare e fare il catechismo. Io non posso esigere ubbidienza dai giovani fuori della mia cappella, e quindi non è possibile che mi prenda responsabilità in circostanze così solenni.
Intanto D. Bosco preparava dimostrazioni e sfilate di altro genere. Il due settembre aveva comprato per 27 lire una statua di Maria SS. Consolatrice col suo piedestallo, e deliberò che in quell'anno e nell'anno successivo si portasse processionalmente nel dintorni dell'Oratorio quando ricorrevano le feste principali della Gran Madre di Dio Stabilì eziandio che in onor di S. Luigi la prima Domenica di ciascheduno mese si facesse una bella processione nel recinto dell'Oratorio, fissando per l'esercizio mensile della Buona Morte l'ultima Domenica. Questo esercizio fu arricchito da Pio IX con una Indulgenza Plenaria applicabile alle Anime sante del Purgatorio, e a tutti quelli che intervenissero alla processione furono concessi 300 giorni. Ora mentre in città sventolavano per le vie mille bandiere, e musiche e canti erano eccitati da passioni patriottiche, nell'Oratorio schiere di giovani, seguendo umili gonfaloni, uscivano dalla chiesuola colla piccola statua di S. Luigi tra gigli e fiori, giravano intorno all'orto di mamma Margherita cantando le glorie dell'innocenza e della purità e ritornavano davanti all'altare per essere benedetti dal Divin Salvatore. La processione mensile si fece regolarmente per un anno o poco più, cioè per tutto il tempo che durarono le dimostrazioni in città. - Queste e altre pratiche di pietà, che erano assolutamente necessarie in quei giorni, fecero un bene immenso, e D. Bosco stesso si meravigliava nel vedere come i giovani si lasciassero da esse attirare. Ogni arte, come vedremo, la più lusinghiera, la più atta a colpire la fantasia, ad irritare gli affetti patriottici, ad accendere le passioni si adoperava dai settari, per rappresentare la Chiesa come nemica della libertà e del benessere dei popoli. Quindi per più anni in molti dei popolani si dovette deplorare mancanza o languore di fede; e irriverenza, anzi avversione contro i Vescovi e i Sacerdoti. Non si può formare idea fino a qual punto giungessero le vertigini delle teste riscaldate. D. Bosco diceva umilmente a D. Turchi Giovanni: - Quanto sono contento d'esser sacerdote! Se non fossi tale, che cosa mai sarebbe stato anche di me in quei tempi? - Ciò che sentiva eragli norma per far giungere al cuore dei giovani la sua parola, dissipare i pregiudizi, insegnare la verità, tenere acceso in essi l'amore alla religione.
Tutte queste cure non lo distoglievano dal prendere parte alle angustie e ai dolori di Mons. Fransoni, e siccome per lui vi era sempre portiera alzata nel palazzo Arcivescovile, negli ultimi mesi del 1847 e nei primi del 1848 vi si recava tutte le sere verso le 5½ e vi rimaneva fino alle 8. Sovente il giovane Francesco Picca venendo dalle scuole di Porta Nuova lo incontrava, ed era invitato da lui ad accompagnarlo. - Ben volentieri - Gli rispondeva - ma dove è incamminato?
La risposta era quasi sempre la stessa: - Dall'Arcivescovo. - Qui il giovane prete e il venerando prelato s'intrattenevano sui gravissimi avvenimenti che si andavano succedendo con tanta rapidità; e D. Bosco era sovente incaricato di missioni difficili e delicate, poiché vi erano tali che spiavano ogni parola, scritto, o passo dell'Arcivescovo. I tempi si facevano ogni giorno più tristi. Le Commissioni che dovevano vigilare sulla stampa permettevano che fossero impressi libri scellerati, lasciavano libera la via a tutti i più empi volumi e fascicoli stampati in Francia e in Svizzera, e non cercavano di interdire romanzi, commedie, tragedie, poesie piene di odio contro la Chiesa, che già da tempo si introducevano clandestinamente nelle case, nelle università e quando si - poteva anche nei conventi e nei seminari. Nello stesso tempo i capi delle sette incominciavano a maneggiare l'arma strapotente del giornalismo e videro per i primi la luce “L'Opinione”, “Il Risorgimento”, “La Concordia”.
Se ciò già tanto affliggeva Monsignore, più grave ancora gli fu un dolore, che direi quasi domestico. Si manifestava nei seminaristi un'inquietudine insolita, un'intolleranza di disciplina. Incontrato un giorno il Nunzio Apostolico per le vie della città, non gli diedero quelle mostre di riverenza che erano doverose. La lettura di certi libri, il rumore di tante feste, i consigli clandestini dei mestatori avevano accesa ed esaltata anche la mente dei chierici. Avvezzi a non veder nelle cose oltre la corteccia, si erano lasciati sedurre dalle lustre di rispetto alla religione, che avevano saputo apporre i settari a quel movimento nella sua origine, e chiamavano codini, gesuiti, pessimisti, uomini che non capivano nulla, quei sacerdoti i quali si adoperavano a farli rinsavire, pronosticando tutt'altro che giorni felici per la patria e per la Chiesa.
Ed ecco il 4 dicembre essendosi preparata una grande ovazione a Carlo Alberto che ritornava da Genova, la maggior parte di essi decisero di pigliarvi parte. L'Arcivescovo ne fece loro severo divieto, dichiarando che avrebbe riputati indegni degli ordini sacri i chierici contravventori ai suoi ordini. Nello stesso tempo aveva disposto che si lasciassero aperte le porte del Seminario, Ma circa 80 chierici uscirono a sera tarda e si unirono alla folla acclamante. Nella solennità poi dei Santo Natale Mons. Fransoni che Pontificava, ebbe l'ingrata sorpresa di vedere i suoi seminaristi schierati in presbitero, col petto fregiato di coccarde tricolori.
A queste angosce però dovettero recare qualche lenimento le preghiere e le comunioni dei giovani di Valdocco alla messa di mezzanotte e l'apertura dell'Oratorio di S. Luigi a Porta Nuova.
 
 
 
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