Giovanni alle vacanze - Singolare ricreazione nell'ora del riposo meridiano - Prima lettera pastorale di Mons. Luigi Fransoni, Vescovo di Fossano ed amministratore della Diocesi Torinese - Un secondo sogno - Giovanni è inscritto come studente nel Collegio di Chieri - Il parroco e i suoi compaesani lo provvedono per le spese della pensione.
del 10 ottobre 2006
Finito con poca soddisfazione quest'anno scolastico, sempre incerto del suo avvenire, ma rassegnato, Giovanni ritornava presso la madre. In famiglia frattanto era accaduto un'importante mutazione. Mamma Margherita e il fratello Giuseppe, che omai aveva diciott'anni, stretta società con certo Giuseppe Febraro, si erano accomodati in mezzadria nel podere detto il Susambrino, proprietà allora Matta, la quale stendevasi sopra una collina a metà via tra i Becchi e il paese di Castelnuovo e che dopo alcuni anni venne comprata dal cavaliere Pescarmona. Giuseppe prese stanza nella casa colonica, mentre il Febraro aveva cascina e terreni propri confinanti col Susambrino. Margherita alternava la sua residenza ora in questa nuova abitazione ed ora ai Becchi, secondo l'esigenza dei lavori campestri e dei raccolti. Il fratellastro Antonio, definita la divisione dei beni paterni, dimorava solo in quella parte di casa che eragli stata assegnata, coltivava il suo piccolo tratto di terreno e recavasi bracciante in giornata presso quei proprietari che avevano bisogno dell'opera sua. Giovanni prese alloggio presso il fratello Giuseppe, che lo amava svisceratamente, ed ebbe libertà di darsi intieramente a' suoi libri. Possedeva una piccola biblioteca religiosa, formata dei volumi che gli aveano donati o imprestati il maestro D. Lacqua, il parroco di Moncucco e D. Calosso, fra cui v'erano pure le opere ascetiche del B. Alfonso Maria de' Liguori e qualche catechismo ragionato che mandava a memoria. Egli però non volle essere di peso al fratello. Sua occupazione ordinaria pertanto era di condurre due vacche al pascolo nelle valli sottostanti, e talora prestare mano nella coltivazione del podere. S’era poi formato in un angolo della casa come un piccolo laboratorio, e andava rappezzando le proprie vesti e quelle di Giuseppe, e sopra di un fornello riattava gli strumenti agricoli che si erano guastati.
Una ragazzetta, certa Rosa Febraro, figlia del sunnominato Giuseppe Febraro, che poi, sposatasi con un Cagliero, divenne cugina di Mons. Giovanni Cagliero, Vicario Apostolico della Patagonia, conduceva pure il suo armento a pascolare da quelle parti. Essa racconta come talora il giovanetto Bosco fosse sì profondamente assorto nelle sue idee, da non accorgersi punto come le sue vacche sbandatesi entrassero nei terreni coltivati, e che essa affrettavasi a ricondurle al proprio luogo. Giovanni avvedendosi poi del servizio, ringraziavala con poche parole, e alcuna volta, approfittando delle ingenue esibizioni della fanciulla, a lei lasciava la custodia de' suoi animali e secondo il solito si ritirava all'ombra dei salici o delle siepi a pregare o a leggere qualche libro.
In quella solitudine Giovanni aveva trovato modo di stare occupato nelle stesse ore di ricreazione, specialmente nei calori meridiani, quando i contadini solevano riposare, avendo per regola costante di non abbandonarsi mai al sonno durante il giorno. “Quando è tempo di alzarti da mensa, non istare a bada; vattene il primo a casa tua e ivi divertiti e scherza e fa quel che ti piace, ma senza far peccati e senza parlare con superbia”. È una cosa da nulla quella che ora io noto; ma anche le cose piccole e da nulla possono entrare in un gran quadro e cooperare alla sua bellezza. Lo scrittore ispirato descrisse nel libro di Tobia il cagnolino che accompagna Tobiolo nel viaggio e lo precede nel suo arrivo alla casa paterna. S. Giovanni Evangelista, sorpreso da un cacciatore mentre accarezzava una pernice, disse a chi mostrava di essere sorpreso di quella infantile semplicità: Perchè fate le meraviglie, se io riposo la mia anima, acciocchè possa slanciare i suoi pensieri al cielo? Ed è anche nell'istinto delle anime buone l'antico dominio che Adamo innocente aveva su tutti gli animali. Or bene: io dirò come nella casa di Giuseppe si tenesse un cane da caccia, al quale Giovanni aveva posto il nome di Bracco. Nelle ore di ricreazione lo aveva addestrato in varii giuochi e salti; si faceva porgere or l'una or l'altra zampa, secondo l'ordine che davagli colla voce. Presentandogli del pane, avealo assuefatto a prenderlo con delicatezza dalla sua. Quando il pezzo era troppo grosso, Giovanni dicevagli con viso brusco: - Ghiottone! come! vuoi mangiarlo tutto in un boccone? - Il cane allora restava indeciso, guardava il padrone, si contentava di leccare il cibo che aveva innanzi, e solo quando Giovanni gli diceva: - Mangia! - osava trangugiarlo. Tal volta costringeva il suo fido animale a salire e discendere la scala a piuoli che metteva sul fienile, prendendo infinito diletto nell'imbroglio che provava per quella insolita via, alla quale pure l'avvezzò a poco a poco. Tal'altra portavalo o gettavalo sul fienile, che era molto alto, e, tolta la scala, si allontanava chiamandolo; il cane abbaiava, correva in su e in giù, cercava un luogo agevole per poter discendere, si ritirava spaventato dall'altezza, ma poi finalmente si gettava a basso e tutto festoso gli correva dietro. Bracco lo accompagnava ovunque andasse. Se Giovanni, stanco talora dal cammino, soffocato dal caldo, voleva alleggerirsi della giubba, chiamava: - Bracco, porta la mia giubba! - e se indugiava a dargliela, il cane avvicinandosi prendeva il lembo della giubba stessa, che Giovanni non si era ancora tolta e a sè la tirava. - Ma, Bracco! tu me la stracci: lascia stare: adesso te la darò. - Il cane lasciava tosto la giubba, e Giovanni toltasela gliela metteva sul dorso, ed esso tutto timido camminava, guardando sovente or l'uno or l'altro de' suoi fianchi per timore che l'abito cadesse.
Alla domenica, dopo tutte le funzioni di chiesa, ritornava alla sua collina accompagnato dagli amici, e loro faceva godere nuovi divertimenti per mezzo del suo fido Bracco. Dopo avergli fatto eseguire uno svariato numero di giuocherelli tra le risa dei compagni, ordinavagli di saltare sul dorso di una vacca che pascolava poco distante. Il povero cane con uno sguardo dubbioso e mesto fissava il padrone, quasi volesse dire: Quale sproposito! Ma dietro l'intimazione di Giovanni, che non ammetteva replica, presa la spinta, saltava e cadeva dalla parte opposta, per aver troppo slanciato il colpo. Tuttavia ritentava la prova, ed eccolo fermo sulla groppa della vacca. Sedevasi sulle zampe posteriori, restringevasi più che poteva per tema di cadere, nè osava discendere in attesa che gliene si desse licenza. Giovanni allora si allontanava, fingendo di più non badare a lui; ma il cane incominciava a guaire, quasi chiedendo permesso di togliersi da quell'imbarazzo, nel quale lasciavalo non per brev'ora, fino a tanto che l'animale, vedendo che il padroncino non se ne dava per inteso, mandava un forte abbaiamento, spiccava un salto e correva a raggiungerlo quasi rimproverandolo d'indiscrezione. Indicibile è l'allegria che provavano i giovanetti a tale spettacolo.
Parrebbe che Giovanni, il quale da piccino aveva sofferto tanto dolore per la morte di un merlo, difficilmente avrebbe tollerato la perdita di questo ingegnoso animale. Ma non fu così, ricordandosi della promessa fatta al Signore. Avendoglielo chiesto in dono certi suoi parenti di Moncucco, senz'altro egli stesso di buon grado lo condusse a casa loro. Bracco fu accolto con molte feste, e quando Giovanni lo vide tutto sommesso ai nuovi padroni, di soppiatto ripartì solo; ma giunto che fu a casa, si vide comparire innanzi il suo fido animale. Tutto peritoso, colla testa bassa, come chi riconosce di aver fatto una disobbedienza, si avvicinò lentamente dimenando la coda e fermandosi tratto tratto. Giovanni non gli sorrise secondo il solito, ma gli disse: - Bene! vedi, Bracco, questa non è più tua casa: dunque io non ti darò più da mangiare. - Il cane allora andò ad accovacciarsi in un angolo della stanza, e per lungo tempo non si mosse. Pochi giorni dopo giunsero i parenti di Moncucco per riprenderlo; ma tornato nuovamente a Moncucco, appena fu libero, prese la via del Susambrino. Giovanni lo ricevette col bastone alla mano; il cane invece di fuggire, andò a coricarsi a 'suoi piedi e, rivolto colle gambe in aria, sembrava gli accennasse dibatter pure a patto che più non lo allontanasse. Giovanni si commosse a quell'atto e lo ritenne seco.
Una cara notizia giungeva frattanto a rallegrare la pace di queste vacanze. Un Breve Pontificio con data 12 agosto affidava a Mons. Luigi Fransoni, vescovo di Fossano, l'amministrazione dell'Archidiocesi Torinese. Ed in una domenica del mese di settembre Giovanni udiva dal pulpito leggere la sua prima lettera pastorale, nella quale accennavasi come i tempi incominciassero a intorbidarsi. Infatti l'autorità civile ordinava, contro le disposizioni ecclesiastiche, che si celebrasse la Messa funebre per un chirurgo morto poco cristianamente ad Annecy e vietava ai Gesuiti la stampa del loro calendario, se non vi notavano le lezioni comuni nella festa di S. Gregorio VII, invece delle proprie che si pretendevano lesive all'autorità del principe. Senza saperlo secondavasi l'intendimento dei settari, i quali, smaniosi di affrettare il compimento dei loro tenebrosi programmi, in numero di 200, nel mese di febbraio, avevano tentato di assalire la Savoia, donde vennero dispersi dalle truppe regie: mentre nel mese di aprile la polizia arrestava i complici di una nuova congiura ordita dall'Avv. Angelo Brofferio e da altri. Quella lettera improntata a mestizia, il nome di Mons. Fransoni udito per la prima volta, non avrà destato nel cuore di Giovanni le simpatie di un soave presentimento? Era il padre, il sostegno, l'amico confidente che il Signore destinavagli, perchè gli desse protezione efficace nella prima fondazione delle sue opere meravigliose. Uno era fatto per l'altro; il contadinello dei Becchi aveva le stesse inclinazioni del nobilissimo Signore Genovese. Questi, benchè allevato nel lusso e nelle comodità, non si era fatto cappuccino, per il negato consenso del marchese suo padre; ma vestito l'abito chiericale a venticinque anni, appena sacerdote si era dato tutto ai catechismi e ad ascoltare le confessioni dei fedeli, e ascrittosi ai missionari diocesani, aveva percorso evangelizzando molte alpestri regioni della Liguria, con stenti, ma con frutto incalcolabile. Se Giovanni nulla intese allora del segreto di Dio, pure un nuovo sogno sembra si colleghi con questo fatto per la sua contemporaneità.
Giovanni alla scuola di Castelnuovo aveva stretto relazione con un tal compagno di nome Giuseppe Turco, il quale lo aveva condotto a far conoscenza della propria famiglia, cui apparteneva una vigna posta nella regione detta Renenta, confinante col podere Susambrino. In quella vigna Giovanni sovente si ritirava come luogo più lontano dalla strada che attraversava la valle e quindi più tranquillo. Saliva sopra un rialto, donde poteva vedere chiunque fosse nella sua vigna e in quella di Turco, e senza essere veduto faceva la guardia all'uva col suo libro in mano. Il padre di Giuseppe Turco incontrandosi frequentemente con lui, cui portava uno speciale amore, gli metteva la mano sul capo, dicendogli: - Fa coraggio, Giovannino: sta molto buono e studia che la Madonna ti aiuterà.
- In lei ho riposta tutta la mia fiducia, rispondeva Giovanni; ma mi trovo sempre nell'incertezza: vorrei continuare i corsi di latinità e farmi prete. Mia madre non ha mezzi per aiutarmi.
- Non aver timore, caro Giovanni; vedrai che il Signore ti spianerà la strada.
- Io lo spero, conchiudeva Giovanni - e congedandosi andava al solito posto, col capo chino, ripetendo: Ma.... ma...
Ed ecco, dopo qualche giorno, il signor Turco e suo figlio lo vedono tutto allegro correre e saltellare per la loro vigna e loro presentarsi festosamente. - Che hai, Giovannino, gli chiese il proprietario, che sei così allegro, mentre da un po' di tempo ti vedeva tanto pensieroso?
- Buone nuove, buone nuove, esclamò Giovanni: stanotte ho fatto un sogno, nel quale io vidi che avrei continuato gli studi, mi sarei fatto prete, e mi troverei posto a capo di molti giovanetti, della cui educazione mi occuperei pel resto della mia vita. Ed ecco ora tutto bell’e fatto; io presto potrò essere prete.
- Ma questo non è che un sogno, osservò il sig. Turco; e poi dal detto al fatto c'è un bel tratto.
- Oh! il resto è nulla, concluse Giovanni. Sì, io mi farò prete, sarò alla testa di tanti e tanti giovanetti, cui farò molto del bene. - Così dicendo, tutto contento, se ne andò alla vedetta.
All'indomani, ritornando dalla parrocchia, ove erasi recato ad assistere alla santa Messa, fu a visitare la famiglia Turco; e la signora Lucia, chiamati i suoi fratelli, coi quali egli veniva sovente ad intrattenersi, lo interrogò sulla cagione che gli faceva risplendere in volto tanta gioia. Egli ripetè come avesse fatto un bel sogno. Pregato a raccontarlo, accennò di aver visto venire verso di sè una gran Signora che conduceva un numerosissimo gregge, e che avvicinandosi a lui e chiamandolo per nome, gli aveva detto: - Ecco, Giovannino; tutto questo gregge lo affido alle tue cure. - E come farò a tener custodia ed aver cura di tante pecore e di tanti agnelletti? Ove troverò io i pascoli, nei quali condurli? - La Signora gli rispose Non temere; io ti assisterò. - E sparì.
Questa narrazione ci venne fatta dallo stesso signor Giuseppe Turco e dalla signora Lucia, e pienamente armonizza con una linea delle sue memorie, nella quale sono scritte queste semplici parole: A 16 ho fatto un altro sogno. Io son certo che vide e seppe molte cose più che non disse per dar sfogo alla piena che riempivagli il cuore; ed era questo un segno del premio meritato colla sua perseverante fiducia. L'assistenza infatti della Madre Celeste in questo stesso anno doveva rendersi sensibile Margherita, dolente che il figlio avesse già perduto tanto tempo, prese la risoluzione di mandarlo a Chieri e d'inscriverlo nelle pubbliche scuole pel prossimo anno. Col solito sorriso gliene diede il lieto annunzio, e cominciò a preparargli il corredo necessario. Ma Giovanni, accortosi che le strettezze famigliari la mettevano in qualche imbarazzo, senz'altro le disse: - Se voi siete contenta, io mi prendo due sacchi e mi presento ad ogni famiglia della nostra borgata per fare una colletta. - Margherita acconsentì. Era questo per Giovanni un sacrifizio assai duro d'amor proprio, dovendo chiedere la carità per se stesso; ma vinse la ripugnanza e si sottomise all'umiliazione. Erano i primi passi in quella difficile via, che avrebbe dovuto percorrere fino all'ultimo suo respiro. “Quanto più sei grande, umíliati in tutte le cose, e troverai grazia dinanzi a Dio”. Avendo accettata l'umiliazione, Dio lo ha esaltato. Andò pertanto a bussare alle singole porte della borgata di Morialdo, accolto dalle madri come un figlio, dai giovanetti come un fratello; espose il bisogno nel quale si trovava e raccolse pane, formaggio, meliga e qualche emina di grano. Così scarsa provvista di vettovaglie non poteva certamente bastare. Una donna della borgata dei Becchi, recatasi in quei giorni nel paese, deplorava fortemente in piazza che il parroco non trovasse modo di far studiare un giovane, il quale a suo giudizio riusciva miglior oratore degli stessi preti della parrocchia. Le persone, che udivano quei lamenti, la interruppero esortandola a recarsi dal prevosto ad esporre a lui stesso quelle osservazioni. La buona donna accettò il consiglio, e senz'altro fu in canonica. D. Dassano, che nulla sapeva della determinazione di Margherita, persuaso che Giovanni avrebbe continuato gli studi in Castelnuovo, prese in considerazione la cosa. Recatosi a visitare alcuni signori, raccolse una certa somma e la mandò a Margherita. Fu ricevuta da lei con viva riconoscenza e se ne servì per comprare alcuni oggetti di vestiario che ancora mancavano.
Margherita intanto si dava premura di trovar persone veramente cristiane, presso le quali potesse con sicurezza collocare in pensione il suo Giovanni. Probabilmente per suggerimento del prevosto scelse la casa di una sua compatriota, Lucia Matta, vedova con un sol figlio studente, la quale recavasi appunto in Chieri per assister e vegliare sul suo fanciullo. Fu stabilita la pensione di lire mensili ventuna; ma siccome Margherita non poteva pagare l'intera somma, si convenne che Giovanni mettesse il restante coll'adempiere agli uffici di servitore, come portar acqua, legna, stendere la biancheria di bucato e altri somiglianti lavori.
Giovanni non tardava a recarsi dal prevosto non solo per manifestargli la riconoscenza, della quale era pieno il sensibilissimo suo cuore, ma eziandio per ottemperare al regolamento scolastico. Uno studente per essere accettato nelle scuole regie, ossia per ottenere l'Admittatur, doveva provvedersi di un'attestazione del parroco del suo domicilio, nella quale fosse dichiarato essersi desso presentato a lui e aver dato il proprio nome. Quest'atto sottometteva il giovane alla speciale vigilanza del parroco, dal voto del quale dipendeva poi il proseguimento negli studi; ragione per cui gli studenti di allora erano rispettosi verso dell'autorità ecclesiastica, il buon esempio del paese, la consolazione della famiglia.
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