Capitolo 27

Perchè S. Francesco di Sales fu dichiarato Patrono dell'Oratorio - D. Bosco imitatore della dolcezza di questo Santo - Principio delle scuole serali e festive - Mutamento felice nella condotta dei giovani - Studi di D. Bosco al Convitto Ecclesiastico - Il Santo Natale - Le prime questue.

Capitolo 27

da Memorie Biografiche

del 24 ottobre 2006

 Le cose nel nuovo Oratorio si andavano ordinando. Una persona generosa faceva costrurre un bel numero di panchette, sicchè potevasi assistere con maggior comodità alle sacre funzioni. Il nome di S. Francesco di Sales diveniva famigliare tra i giovani, e D. Bosco fin dal bel principio stabilì che la festa di questo amabile Santo fosse celebrata con ogni possibile solennità. Qualcuno potrebbe qui domandare: - Come e perchè detto Oratorio fu dedicato in onore e cominciò a chiamarsi di S. Francesco di Sales? - D. Bosco essendo ancora nel Convitto Ecclesiastico aveva già stabilito in cuore di porre tutte le sue opere sotto la protezione dell'Apostolo del Chiablese, ma aspettava che pel primo D. Cafasso gli manifestasse su questo punto il suo pensiero. E D. Cafasso pronunciò la sua parola. Essendosi trovato in uno di quei giorni col Teologo Borel, discorrendo delle difficoltà che incontrava D. Bosco, della pazienza che egli manifestava in ogni sua azione, e della continua prosperità dell'Oratorio, notò che fino a quel momento questo non era ancora stato posto sotto la protezione speciale di un santo patrono. Dopo breve discussione D. Cafasso nominò S. Francesco di Sales, e il Teologo Borel lodava la proposta. D. Bosco annuì e tre furono le precipue ragioni di questa scelta. Primieramente perchè la marchesa Barolo, per secondare D. Bosco, divisava di stabilire al Rifugio una congregazione di Sacerdoti sotto a questo titolo, destinata ad avere la cura spirituale non solo dei molti suoi istituti già esistenti, ma eziandio di quelli che meditava di fondare in avvenire, tra i quali un collegio di giovani studenti a Barolo; ed un laboratorio dedicato a S. Giuseppe in Torino al Rifugio, per ivi mantenere ed educare giornalmente oltre a cento giovanette sotto i dodici anni di età. Con questa intenzione aveva fatto eseguire, sul muro all'entrata del nuovo locale destinato per i Sacerdoti Cappellani, un dipinto di San Francesco. In secondo luogo, perchè la parte di ministero che Don Bosco aveva preso ad esercitare intorno alla gioventù, richiedeva grande calma e mansuetudine; e perciò egli voleva mettersi sotto alla speciale protezione di un Santo, che fu in questa virtù modello perfetto. Oltre a ciò lo confortava una terza ragione. In quel tempo parecchi errori, specialmente il protestantesimo, cominciavano ad insinuarsi insidiosamente nei nostri paesi, soprattutto in Torino tra il basso popolo. Or bene, D. Bosco volle con quel mezzo rendersi propizio questo Santo, onde gli ottenesse dal Cielo attitudine speciale nel guadagnare anime al Signore, lume e conforto a combattere con profitto quegli stessi nemici, dei quali egli aveva in sua vita mortale così splendidamente trionfato, a gloria di Dio e della Chiesa, e a vantaggio d'innumerevoli cristiani. Insomma giudicava che lo spirito di S. Francesco di Sales fosse il più adattato ai tempi per l'educazione e l'istruzione popolare.

Di questo ammirabile Apostolo egli conosceva minutamente la vita e gli scritti e allora e poi andava ricordandone ai giovani nei suoi discorsetti, ora un detto, ora un fatto. Procurava di rappresentar loro soprattutto la dolcezza del cuore di lui, che tanti eretici aveva ricondotti al seno della Chiesa. “Ci descriveva, scrisse D. Bonetti Giovanni alcuni anni dopo, S. Francesco di Sales nella sua gioventù, dicendo che il carattere soave e mansueto, egli non lo aveva sortito da natura, ma eragli invece costato grandi sacrifizi per acquistarlo. Noi a tali parole ci formavamo un'idea dell'animo stesso di D. Bosco, il quale giovanetto sapevamo, per sua confessione, come fosse stato per natura di spirito ardente, pronto, forte, insofferente di resistenze; e pure io vedevamo modello di mansuetudine, spirante sempre pace, e padrone talmente di se stesso da parere che mai nulla avesse a fare. Ciò era a noi argomento de' suoi continui atti di virtù per frenarsi e talmente eroici da riuscire una copia viva, parlante della carità di S. Francesco di Sales”.

Nella cappella adunque del grande Vescovo di Ginevra l'Oratorio prendeva un ottimo avviamento. “La fama di una chiesuola, scrive D. Bosco, destinata unicamente per i giovanetti, le sacre funzioni fatte appositamente per loro, un sito libero per passeggiare, saltare e trastullarsi furono richiamo a molti altri abitanti di Valdocco. Erano tutti fanciulli di condizione operaia. La nostra chiesa, che solo allora incominciò ad essere chiamata oratorio, divenne ognor più ristretta. Ci aggiustammo però alla bell'a meglio in camera, cucina, corridoio, vestibolo; in ogni angolo eranvi classi dì catechismo; tutto era oratorio”. Non è a dire quanto Don Bosco abbia faticato nel cercare persone di buona volontà che lo coadiuvassero. Alcuni dei più grandicelli da lui istruiti presiedevano qua e là alle classi. Questi radunava poi nella sua stanza, in tempo libero dal sacro ministero, nei giorni feriali, e dava loro le norme necessarie e li entusiasmava con piccoli doni e coll'amabilità e carità dei suoi modi.

Nei giorni festivi i giovani v'intervenivano in folla, a confessarsi, a udirvi la messa e a fare eziandio la santa comunione. Finita la messa D. Bosco loro teneva breve spiegazione di vangelo. Dopo mezzodì si faceva il Catechismo, si cantavano laudi sacre, poscia aveva luogo un'istruzione adattata per loro, non troppo prolissa e inflorata di esempi edificanti: infine cantate le litanie lauretane, s'impartiva la benedizione col Venerabile, che soltanto conservavasi nel giorno festivo. Negli intervalli prima e dopo le funzioni succedevansi onesti trattenimenti e trastulli, sotto la sorveglianza del buon Direttore, del Teologo Borel suo braccio destro e dei giovani più assennati e di buon costume. La ricreazione facevasi nello stretto e lungo viale esistente tra il monastero delle Maddalene e l'ospedale Cottolengo, che metteva nella pubblica via: ed anche sulla strada che passava avanti alla casa D. Bosco spesse volte usciva nei campi all'intorno per vedere che nessuno dei suoi allievi vi si sbandasse.

Egli cercava ogni mezzo per allettarli ad intervenire all'Oratorio. Provvide trastulli, come pallottole, bocce, piastrelle, stampelle, promettendo eziandio che avrebbe procurato ben presto, altalena, passo del gigante, scuola di ginnastica e di canto, concerti con musica istrumentale e altri divertimenti. Talora distribuiva medaglie, immagini, frutta; preparava loro qualche colazione o merenda; talvolta regalava un paio di calzoni, di scarpe od altri abiti ai più poveri. Non di rado li assisteva presso gli stessi parenti: “Ma, scrive D. Bosco, ciò che più di tutto attrae i giovanetti sono le buone accoglienze: per ottenere buoni risultati nell'educazione della gioventù, bisogna studiare il modo di farsi amare per farsi di poi temere”. E i giovani sapevano di essere amati e come li portasse egli nel suo cuore scolpiti in modo indelebile. Infatti li conosceva tutti e li chiamava tutti per nome e cognome, ricordando eziandio quei molti che più non frequentavano l'Oratorio. Così ci asseriva il Teologo Borel e così noi abbiamo constatato, quando i giovani interni ed esterni da lui già educati erano migliaia.

Fu in questo tempo, cioè sul finire del 1844, che Don Bosco incominciò e poscia perfezionò le scuole serali e festive, che vennero ben presto attivate in altri luoghi del nostro, paese ed oggi largamente promosse e sparse per tutta l'Italia. Era un'opera di carità, eziandio necessaria per far conoscere alla gente come il prete sia sempre il primo a cercare il bene del popolo. Pertanto molti giovani nei giorni festivi dopo le sacre funzioni e alla sera dei giorni feriali, eccettuato il sabato e la vigilia delle feste dì precetto, ad una certa ora si portavano all'abitazione di D. Bosco e del Teologo Borel, e questi due sacerdoti, sempre pronti a far loro del bene, cangiavano in scuole le proprie camere, e insegnavano a leggere, a scrivere e a far conti. In ciò si affaticavano non solo per renderli più abili nell'apprendimento dell'arte o mestiere, ma soprattutto per poter loro impartire più facilmente l'insegnamento religioso mediante la lettura e lo studio del catechismo. Avevano constatato che un certo numero, di coloro che non sapevano leggere, stentavano ad impararlo bene col solo udirlo ripetere dalla bocca dell'insegnante. Per molti giovani fu questo un benefizio veramente insigne; imperocchè senza di un tale provvedimento, dovendo essi tutto il giorno lavorare per guadagnarsi il vitto e perciò non potendo frequentare le pubbliche scuole, sarebbero rimasti analfabeti ed ignoranti delle più elementari cognizioni con grave loro danno anche materiale.

D. Bosco in questo frattempo teneva specialmente in vista quei giovani che uscivano dalle carceri. Fu allora che toccò con mano come quei disgraziati se trovano una persona benevola che di loro si prenda cura, li assista nei giorni festivi, studi di collocarli a lavorare presso un padrone veramente cristiano visitandoli qualche, volta alla settimana, volentieri si danno ad una vita onorata, dimenticano il passato, diventano osservanti della religione e onesti cittadini.

E’ pure stando al Rifugio che D. Bosco incominciò ad intendere che cosa significasse fare il sarto, destinato a rattoppare gli abiti sdruciti, frase che alcune volte risuonava sulle sue labbra parlando ai giovanetti. La curiosità di questi eccitata, chiedeva molte volte all'uomo della Provvidenza, quando e come si fosse visto nell'atto di fare il sarto. Egli però per molti anni, non dava altra risposta fuori di questa: - Se ciò vi tornasse utile in qualche modo, o fosse per riuscire alla maggior gloria di Dio, ve lo direi.

Intanto mentre aiutava il Teologo Borel nel confessare le ricoverate al Rifugio, continuava le sue predicazioni in città e andava a confessare nella Chiesa del Convitto. Non poteva distaccarsi da D. Cafasso e metteva fedelmente in pratica l'avviso dell'Ecclesiastico: “Frequenta l'uomo pio, che tu conosci costante nel timore di Dio, l'anima del quale sia secondo l'anima tua: ed il quale se mai vacillassi nelle tenebre abbia compassione di te”. E D. Cafasso contraccambiandolo di eguale affetto gli concedeva una stanza al Convitto, ove D. Bosco potesse attendere agli studi senza disturbo, mancando esso nei primordi dell'Oratorio dei libri necessari per compilare i molti suoi opuscoli a difesa ed incremento della religione. La biblioteca di S. Francesco d'Assisi era ben fornita di preziosi volumi. Per molti anni D. Bosco vi si recava ogni giorno circa alle quattro pomeridiane e non se ne partiva che verso le nove, accompagnato da alcuni servi dello stesso convitto. Più tardi, impedito nel dopo pranzo, limitò questo suo studio dalle undici fino al mezzogiorno, ripigliando dopo qualche tempo l'usanza di andarvi alla sera. Ma fosse lunga o breve quella sua dimora, non mancava mai dal visitare il suo maestro e benefattore, del quale godeva tutta la confidenza, intrattenendosi con lui non solamente per conversare di teologia morale, di norme per la vita dello spirito e dell'Oratorio, ma eziandio per specchiarsi nelle sue eroiche virtù e specialmente nelle sue continue penitenze. Qualche volta cercava di indurlo a temperare il rigore verso di sè con quei principi di ragionata indulgenza coi quali soleva egli stesso dirigere i suoi alunni. Troviamo nei manoscritti di D. Bosco un cenno di queste sue visite: “D. Cafasso era da dieci anni al Convitto Ecclesiastico e la sua colazione consisteva in alcuni tozzi di pane ai quali più tardi rinunziò! Così pure si ridusse a mangiare una sola volta al giorno ed il suo vitto era una minestra ed una piccola pietanza. Anche d'inverno l'ordinario suo riposo era di sole cinque scarse ore ogni notte. In vista delle dure fatiche da lui sopportate, un giorno gli dissi di prendere qualche cosa di più confacente alla sua gracile complessione. - Purtroppo, egli soggiunse con ilarità, verrà tempo in cui si dovrà concedere qualche cosa di più a questo corpo; ma non voglio appagarlo finchè non possa più farne a meno.

” Altre volte gliene feci rispettoso rimprovero, accennando al danno che quella austerità avrebbe recato alla sua cagionevole salute, tanto più che le sue forze andavano ogni giorno diminuendo; ma egli rispondeva: - Oh Paradiso! Paradiso che fortezza e sanità tu darai a coloro che ci entreranno”

Queste lezioni, ed altre di simil genere, D. Bosco le riteneva, le praticava e le ripeteva agli altri, come vedremo nel processo del racconto.

Ma oramai l'anno 1844 si avvicinava al suo termine e spuntava il giorno sacro del Santo Natale. Siccome D. Bosco si era dato subito cura d'insegnare ai giovani il modo di servir bene la S. Messa, così le cerimonie si eseguivano col decoro conveniente. La solennità fu celebrata con una comunione generale che era quanto di più soave D. Bosco potesse gustare in questo mondo. In ciò riponeva il suo mezzo principale di educazione, dopo di aver bene istruiti e purificati col sacramento della penitenza i suoi alunni, riuscendo così a tenerli lontani dal vizio e dal peccato. Gesù Cristo in persona, ricevuto degnamente, suggellava nei loro cuori le lezioni ascoltate dal buon sacerdote e verso di lui rivolgeva il loro affetto. Era questa la causa prima dell'ascendente che D. Bosco acquistava sulla gioventù, riducendola con tanta facilità ad essere morigerata e docile.

In mezzo a queste ben meritate consolazioni D. Bosco aveva dovuto incominciare a procurarsi i mezzi pecuniari per sostenere il suo Oratorio. Così forse determinò D. Cafasso, per agguerrirlo in tale difficile impresa, pronto sempre però a soccorrerlo in casi estremi. A D. Bosco ripugnava in modo straordinario, il presentarsi alle famiglie signorili per domandare soccorsi e l'esporsi a ricevere un rifiuto. Tra i preti in Torino non usavasi così facilmente andare per le case elemosinando, e le antiche Opere pie fiorivano per abbondanza di redditi. Il Cottolengo aspettava i soccorsi piuttosto che andasse a cercarli. Eppure D. Bosco si umiliò, si fece generosamente violenza per eseguire la volontà di Dio in tutti i giorni della sua vita. Il Signore però gli agevolava l'entrata in questo sentiero così spinoso.

Il Teologo Borel che era persuaso essere la sua impresa un'evidente opera della Divina Provvidenza, lo confortava, con aiutarlo per quanto lo permettevano le sue occupazioni. Così il Teologo diceva a D. Rua, e poi verso il 1870 narrava a D. Paolo Albera. - D. Bosco venuto a Torino appariva, timido e riservato, specialmente quando dovette risolversi a questuare pel suo Oratorio. Ed ecco la storia delle prime trecento lire che portò a casa. Io  frequentava la nobile e ricca famiglia del Cav. Gonella, alla quale descrissi la bontà del giovane prete D. Bosco, il bene che faceva, quello che avrebbe fatto, l'esortai ad essere generosa con lui in beneficenza e promisi che l'avrei mandato a far loro una visita, perchè potessero conoscerlo e stimarlo. Quindi lodai a Don Bosco quei signori, gliene descrissi la carità e, senz'altro aggiungere, gli proposi che andasse a visitarli. Egli esitava sulle prime, dicendo essergli quelle persone affatto sconosciute, ma in fine si arrese ed andò. Fu accolto a festa e dopo breve colloquio si acquistò la stima e l'ammirazione di quei signori, i quali nel congedarlo gli diedero trecento lire per i suoi giovanetti. Senza che egli lo sapesse, nello stesso modo gli feci qualche altra volta il battistrada e ben presto in Torino, egli ebbe altri benefattori. - “ Il ricco e il povero si vanno incontro: tutti e due furono fatti dal Signore”. Ma quanto grande fosse stato questo sacrificio di D. Bosco si fece palese nel 1886. Aveva egli raccomandato ad alcuni dei più anziani dell'Oratorio che procurassero di andare attorno in cerca di elemosine e che scrivessero lettere confidenziali ai conoscenti ed agli amici, perchè venissero in soccorso di D. Bosco, il quale essendo infermiccio più non poteva provvedere ai bisogni della casa. Essendogli stato risposto da taluno, non aver esso il coraggio per far ciò e mancargli la franchezza, che formava il carattere principale di D. Bosco, ei gli rispose: - Ah! Tu non sai quanto mi sia costato il chiedere la carità. - Ciò nonostante per la gloria di Dio, il bisogno di soccorrere i suoi orfanelli, per la persuasione di procurare un benefizio agli stessi ricchi coll'indurli a fare elemosina, si mise sotto i piedi ogni timidezza inopportuna, ogni rispetto umano; e il Signore benedisse la sua umiltà col fargli incontrare tanta simpatia e tanta generosità nel popolo cristiano. Altra ripugnanza ei dovette superare, quella d'intrattenersi con persone benefattrici d'altro sesso: ma ciò produceva un altro bene. Quando appariva in un palagio, pel suo estremo riserbo, semplice e disinvolto nel trattare, era di somma edificazione per tutti. I suoi occhi li teneva talmente modesti da non fissarli mai nel volto altrui. Le buone famiglie che lo conobbero fino dai primi anni del suo apostolato, attestano ancora oggigiorno: - Sembrava un angelo che entrasse in casa!

 

 

 

 

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