Capitolo 28

La cacciata dei Gesuiti - Dimostrazioni ostili al Convitto Ecclesiastico, al Rifugio ed all'Arcivescovo - La chiusura del Seminario - Malvagi scrittori - Premunizioni - Vile attentato contro D. Bosco.

Capitolo 28

da Memorie Biografiche

del 08 novembre 2006

 Gli insulti contro i Gesuiti si ripetevano ogni giorno. Una deputazione di cittadini si presentava al Re per chiederne l'espulsione dallo Stato; ma non essendo ricevuti nè esauditi, si lasciò che la plebe compiesse in Torino i voti della massoneria. La sera del 2 marzo un'accozzaglia di settari del Piemonte e di banditi dai vari Stati della penisola, fracassando vetri e sfondando porte, irrompeva con urla selvagge nelle case dei Gesuiti ai Santi Martiri e al Collegio del Carmine, e sforzava i religiosi ad uscirne in mezzo ad imprecazioni e ad insulti. La polizia venne a richiamar l'ordine quando l'oltraggio fu consumato. Il giorno dopo i tumultuanti attorniarono il monastero delle Dame del Sacro Cuore in Via dell'Ospedale, ma le guardie impedirono che vi penetrassero. Durato per ben sette giorni quel minaccioso assedio, e avendo il Ministro dell'interno fatto rispondere alla supplicante superiora, - Il Re non può far nulla per voi - le Dame, costrette alla partenza,

si ritirarono in Francia.

I Gesuiti sbandati in quella notte dolorosa avevano cercato rifugio nelle case di vari cittadini. Il Teol. Guala ne ricoverò un gran numero nel Convitto Ecclesiastico, che era poco lontano dai Santi Martiri e dal Carmine, e diede loro in prestito somme considerevoli perchè provvedessero ai loro più urgenti bisogni D. Bosco pure in questi frangenti si adoperò quanto potè nell'aiutarli, specialmente col provvederli di abiti secolareschi, coi quali travestiti non fossero riconosciuti nell'uscire dalla città. E pur troppo la polizia non tardò a dar compimento alle violenze della piazza con intimare il loro allontanamento dai Regi Stati. Essi partirono mentre i loro confratelli erano espulsi da tutte le altre città d'Italia, con violenze tanto indegne, quali appena succedono tra i popoli barbari. Nè tali disordini in Torino cessarono così presto.

Le invettive di Gioberti nel suo “Gesuita Moderno” e il ricovero prestato ai Gesuiti, avevano scatenato eziandio contro il Convitto le ire della plebe in guanti e senza guanti. Una sera comparve una folla di popolo sotto le finestre dell'Istituto in via Mercanti, gridando a squarcia gola: - Abbasso il Convitto, morte al Teol. Guala! - e altre villanie. Il Teol. Guala era infermo e D. Cafasso scese in istrada per veder di ammansare quei pochi furiosi, seguiti per curiosità da altri molti fannulloni. La comparsa di D. Cafasso, già conosciuto a que' schiamazzatori, quando accompagnava i condannati al patibolo, e le sue parole tutte dolcezza e mansuetudine ridussero tosto al silenzio la ciurma. In quei mentre un convittore, testa balzana ed infatuato delle idee di Gioberti, improvvisò di moto proprio alle finestre un simulacro d'illuminazione con quelle poche candele che trovò nelle camere dei compagni. Bastò questo perchè gli abbasso si cambiassero in evviva e la dimostrazione ben tosto si dileguò. Il Teologo ne provò gran pena, ed il convittore liberaleggiante fu in bel modo licenziato. Ogni pericolo di guai sembrava rimosso, quando una notte comparvero al Convitto sei questurini, quattro in borghese e due in divisa. Avevano ordine di praticarvi una minuta perquisizione, quasi fosse quello uno dei covi che minacciassero la sicurezza dello Stato. Rovistarono minutamente ogni cosa alla presenza del Teol. Guala, il quale si era alzato dal letto e dal seggiolone osservava ogni loro movimento. Nulla però trovarono d'incriminabile: solo asportarono un fascio di carte, le quali, a quanto pare, furono ben tosto restituite. Vi furono anche tumulti contro la Marchesa Barolo, accusata di tener celati quindici Gesuiti nel suo palazzo e nello stesso tempo minacciata di morte come se avesse rapite le figlie ai genitori e le tenesse chiuse per forza ne' suoi istituti. Era questa la gratitudine pel gran bene che aveva fatto in Torino. Dalla casa Pinardi si udivano gli schiamazzi indecenti di uomini ubriachi rotti al mal fare e di donnacce scapigliate che vomitavano ogni sorta d'ingiurie contro il Rifugio, minacciando di farne uscire le figlie e d'incendiarlo.

Nello stesso tempo i settari non avevano dimenticato Mons. Fransoni e macchinavano una nuova chiassata contro di lui. Senonchè il Marchese Roberto d'Azeglio con un drappello di guardie nazionali prese quartiere nel portico del palazzo e tenne lontani i dimostranti.

Facendosi intanto sentire fra i seminaristi il pericolo di nuove commozioni, l'imminente guerra contro l'Austria e l'interruzione degli studi nell'Università consigliarono a Monsignor Fransoni la chiusura del Seminario. Quindi tutti i chierici che avevano pigliato parte a quelle manifestazioni politiche furono esclusi dai sacri ordini. Buon numero di essi, ricevuto avviso delle deliberazioni dell'Arcivescovo discesero nel cortile e cantarono l'inno popolare Genovese: “I figli d'Italia si chiaman Balilla”. Tanto generale era il delirio per la guerra che motti di essi, gettata alle ortiche la sottana, presero le armi. Alcuni mantenendosi buoni cristiani, divennero valenti professori in belle lettere, e a suo tempo, affezionati a Don Bosco, prestarono segnalati servigi alle scuote ginnasiali dell'Oratorio. Pochi si aggregarono ad altre diocesi e furono ammessi al Sacerdozio.

Non era possibile che le suddette brutte scene non cagionassero scandalo nei giovani, che frequentavano l'Oratorio festivo di S. Francesco di Sales, perchè praticando essi in città, e vivendo in seno alle famiglie e nelle officine, ne udivano a parlare in diverso senso e non sempre sfavorevolmente. Ben presto se ne avvide D. Bosco e perciò in pubblico e in privato ne li premuniva in debito modo. Sapendo poi il male che facevano i pessimi giornali scongiurò i suoi allievi a non leggerli mai. Sebbene il “Gesuita Moderno” non fosse ancora dalla Santa Chiesa condannato, tuttavia fin d'allora egli ne vietò la lettura a tutti i suoi catechisti, maestri e giovani studenti; e per farlo prendere in uggia notò loro come il suo autore, per smania di maldicenza, avesse avuto persino la sfrontatezza di denigrare il Convitto Ecclesiastico di S. Francesco d'Assisi, dove i primi loro compagni avevano ricevuto tante prove di benevolenza.

La raccomandazione di D. Bosco, corroborata dalle testuali ributtanti parole di Gioberti contro la culla dell'Oratorio, bastò ai giovani per ogni legge, e nessuno mai nè prima nè dopo che venisse posta nell'indice dei libri proibiti, osò mai far lettura di quell'opera pestifera, ed ognuno ne riguardò l'autore come un dichiarato nemico della Chiesa.

Ma se in causa della sfrenata licenza della pubblica stampa ebbero a piangere i padri Gesuiti, le Dame del Sacro Cuore, e più altre degnissime persone di Torino, certamente non toccò miglior sorte a D. Bosco. Invero egli pure venne ben presto fatto segno ad insulti, a minacce. Anzi accadde un fatto, che, fin dall'esordire delle mal concepite libertà, pose a repentaglio la vita del buon padre, e quindi la esistenza del nostro Oratorio.

A pochi metri dalla Cappella di S. Francesco di Sales, verso mezzanotte, sorgeva in allora un muriccio, che la separava dagli orti e dai prati di Valdocco, i quali si estendono tuttavia sino alla sponda destra della Dora. Oggi si veggono seminati di fabbriche, case e palazzi, ma allora erano deserti. Or bene, nella primavera di quell'anno, una Domenica a sera, i giovani dell'Oratorio erano già tutti raccolti nelle rispettive classi di catechismo e D. Bosco istruiva i più adulti in coro. Egli spiegava loro l'immensa carità di Gesù Cristo nel farsi uomo, patire e morire per noi. Una finestrella chiusa, e a pochi metri dal muriccio, corrispondeva al luogo dove egli stava, e una porta aperta dal lato opposto illuminava la sua persona. Quand'ecco un furfante, armato di archibugio carico a palla, spinto non sappiamo da quale spirito malefico, appostatosi dietro al muriccio, sale sulle spalle di un complice, e sollevato sul ciglio del muro, appunta l'arma alla finestrella del coro e spara. Aveva mirato al cuore di D. Bosco; ma, la Dio mercè, il colpo andò fallito. Un grido universale rispose a quella detonazione, poi un profondo silenzio, e i giovani pallidi in volto tenevano tutti gli occhi fissi e sbarrati in lui. Il proiettile, veloce come il baleno, forato il vetro della finestra senza frantumarlo, gli era passato tra il braccio sinistro e le coste, e gli aveva stracciato un po' dì veste sul petto e la manica; infine, percuotendo il muro della cappella, aveva fatti cadere più decimetri quadrati di calcinaccio. D. Bosco di quel colpo non aveva sentito quasi null'altro che un urto leggero come se qualcuno passando gli avesse toccata la zimarra. Egli però non si era punto scomposto ed ebbe ancora tanta tranquillità e presenza, di spirito da calmare lo spavento indescrivibile che aveva destato nei giovani quel fatto sacrilego con dir loro sorridendo: “ E che! vi spaventate di uno scherzo fatto di mala, grazia? È uno scherzo e nulla più. Certa gente male educata non sa far ma i una burla senza offendere il galateo. Guardate! Mi hanno stracciata la veste e guastato il muro! Ma torniamo al nostro catechismo ”. Questa giovialità di D. Bosco e il vederlo sano e salvo da quel vile attentato, rinfrancò tutti. Finito il catechismo, D. Bosco tutto tranquillo, cantò il Vespro, predicò, diede la benedizione, e quindi si recò in mezzo ai giovani che si erano riversati nel cortile. Qui ebbe luogo una scena commovente. Molti stringendoglisi attorno singhiozzavano e piangevano di consolazione; altri gli bagnavano le mani di caldissime lagrime; tutti poi colla più grande espansione del cuore ringraziarono Iddio pietoso di averlo così mirabilmente conservato. D. Bosco frattanto diceva loro: “ Se la Madonna non gli faceva sbagliare la battuta, mi avrebbe colpito davvero; ma colui è un cattivo musico ”. Poi guardandosi la veste forata esclamava: “ Oh! povera mia veste! Mi rincresce per te che sei l'unica mia risorsa ”.

Intanto un fanciullo aveva raccolto il proiettile nel coro e lo presentava a D. Bosco. Era una pallottola di ferro di grossezza discreta, perchè le carabine di quei tempi avevano maggior calibro che le moderne. D. Bosco la prese in mano e mostrandola soggiungeva: “ Eccola! La vedete? Si tratta, di giovani inesperti che vogliono giocare alle bocce e non fanno bene il colpo! ”.

Di colui che aveva sparato non si potè avere indizio, perchè era sparito tra il fumo della sua arma. D. Bosco, però, fatte prudenti ricerche, venne a conoscere ogni cosa per filo e per segno, e seppe come l'assassino fosse uno scellerato colpevole di altri delitti, che in quel giorni era lancia spezzata di certi partiti e quasi pareva che fosse sicuro di rimanere impunito. Altri forse avevano armata la sua mano. D. Bosco, che già lo conosceva, un giorno lo incontrò, e persuaso che vedendosi scoperto non avrebbe altra volta attentato alla sua vita per timore di una denunzia, senz'altro lo interrogò da qual motivo fosse stato spinto a fargli quel brutto gioco. Sorpreso, ma non avvilito, con brutale burbanza e alzando le spalle gli rispose: - Il motivo quasi neppure io lo so. Voleva provare se il fucile faceva buon colpo, contro il muro della sua casa.

 - Sei un disgraziato... io però ti perdono di cuore... e desidero di essere tuo amico.

Nel corso di questa istoria verrà occasione di narrare più altri iniqui attentati contro la vita di D. Bosco, allora soprattutto quando incominciò a scrivere le “Letture Cattoliche”, e a confutare gli errori dei Protestanti. Noi toccheremo con mano, che, se questo amico e padre della gioventù non fu ucciso, lo dobbiamo intieramente a Dio, che ha sempre vegliato sopra di lui in modo affatto provvidenziale, e lo ha difeso e protetto più volte anche meravigliosamente.

 

 

 

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