La Prefazione al Galantuomo, almanacco pel 1860 - La guerra in Lombardia e le avventure del Galantuomo - Sue profezie - D. Bosco chiamato al Ministero dell'Interno per dare spiegazioni sulle profezie dell'almanacco.
del 30 novembre 2006
 Sul finire del 1859 si pubblicava e distribuiva il Galantuomo con una varia e singolare prefazione. Ivi erano esposte alcune predizioni che si sarebbero avverate nel 1860 ed anche svolte negli anni successivi. Le precedeva un lungo racconto delle avventure del Galantuomo, serio - comiche, ingenue e ridicole, sia per non dare a quelle un tono spiccato di profezia, come pure perchè non prendessero ombra gli uomini politici, ai quali fosse per avventura caduto in mano quel libretto. Don Bosco sperava che non lo avrebbero giudicato opera di uomo serio e di gran levatura, e al più lo avrebbero o compatito o messo in burla come una frivolezza. Intanto fra gli associati delle Letture Cattoliche e ad altri avrebbe apportato quel gran bene che si desiderava. Ma queste sue precauzioni non riuscirono, poichè l'almanacco levò subito gran rumore di sè e per molto tempo non solo nelle case dei cittadini, ma eziandio nei palazzi dei governanti. Ecco il tenore della prefazione.
 
 
I
 
Il Galantuomo
Almanacco Piemontese - Lombardo per l'anno bisestile 1860.
Il Galantuomo a' suoi amici.
 
Prima di cominciare a parlare con voi, miei venerati amici, stimo bene darvi ragione di alcune cose che voi scorgerete variate. Nel mio frontispizio invece di Almanacco Nazionale, vedrete Almanacco Lombardo - Piemontese. Questo l'ho fatto per significare che anch'io do il mio voto per l'accettazione di questo regno. Così la dedizione del medesimo sarà completa. Con questo fatto voglio anche far conoscere che i galantuomini non sono contrarii all'unione della Lombardia col Piemonte. In quest'anno mi vedrete privo di codino e ne saprete in appresso la terribile cagione. Ho sospeso di parlare delle fiere e dei mercati, perchè non ho ancora la necessaria cognizione del modo, del tempo, del luogo in cui fiere e mercati soglionsi fare nei nuovi nostri stati. Per non fare parzialità, ossia spropositi, sospendo di parlare di tutto. Posso però assicurarvi che le cose che sono per dirvi, le reputo d'assai maggiore importanza; cose da piangere e talvolta da ridere. Vi dirò le mie guerresche imprese; farò lo storico e vi esporrò il passato; farò il politico, e vi dirò il presente; farò il profeta e vi annuncierò l'avvenire, e dopo una serie di fatti curiosi studierà per ricrearvi un poco, cantandovi una canzone.
 
II.
 
Un saluto - La guerra - Negozio di rinfreschi - Incontro di
un generale francese a Montebello - Cose di Palestro - Un Zuavo.
 
Vi fo' un cordiale e rispettoso saluto, venerati amici, e lo fo' tanto più di cuore, in quanto che temeva assai di non potervi più rivedere. La guerra terribile dell'anno scorso, a cui presi parte anch'io, toglievami pressochè ogni speranza di potervi rivedere.
Sì, cari amici, ho preso parte ai fatti d'armi; e mi sono trovato a Montebello, a Palestro, a Magenta, a Marignano e specialmente a Solferino, ed ovunque ho fatto vedere che cosa valga un galantuomo. E vero che io non son buono a maneggiare nè fucile, nè spada, e, se volete che ve lo dica, ho paura de' vivi e de' morti; pure sono andato alla guerra, vale a dire, cioè, desiderando di far del bene a me ed agli altri, mi sono messo a fare il venditore di rinfreschi presso all'esercito, ben inteso dopo averne ottenuto il debito permesso, che, mediante quattrini, ottenni con facilità. Questo mestiere, che sembra da poco, tornò utile a molti; tornò utile a me, perchè ho guadagnato qualche cosa per me e per i miei ragazzi, i quali sebbene già alquanto adulti, non sono ancora in grado di guadagnarsi da mangiare; tornò anche utile agli altri, perchè più volte co' miei rinfreschi ho tolto la sete ai sani, agli ammalati ed ai moribondi. Mi ricordo precisamente che a Montebello vi era un generale francese che cadeva per la sete. Appena mi vide tosto si mise a gridare: Galantome, Galantome, donnez moi à boire. Io che so anche un po' di francese gli risposi tosto: Oui Monsieur, prendete, bevete pure; bien raisonnable; ve ne do volentieri, ma pour l'argent. Egli bevette e confortato da' miei squisiti rinfreschi venne in soccorso di quelli, che già fuggivano, fece loro coraggio, e combattendo con loro intrepidamente in breve i nostri giunsero alla vittoria. Di maniera che la vittoria di Montebello è in buona parte attribuita alla virtù de' miei rinfreschi.
A Palestro vi era il terreno coperto di morti e di feriti; e posso asserire con verità che il numero dei morti sarebbe stato assai maggiore, se non fossi corso in aiuto, ora dando da bere ai sani, ora confortando i feriti, che morivano di sete dimandando pietà e misericordia. Più di cento feriti ristorati da' miei rinfreschi poterono riaversi e trasportarsi all'Ospedale. Un Zuavo perdeva il respiro per mancanza di bevanda; gli porsi un bicchierino che lo sollevò potentemente. Egli ne fu così contento, che mi diede dodici sigari di tabacco eccellente. Io però che non sono mai stato, nè mai sarò abituato al tabacco, anzi ne abborrisco il fumo, presi que' sigari e ne feci dono ad altri soldati, che sospiravano tabacco e non potevano averne. Sono pochi giorni che uno mi scosse colle mani le spalle, dicendomi: - Bravo, galantuomo: i tuoi rinfreschi mi hanno dato la vita; senza di essi io sarei morto di sete a Palestro.
 
 
III.
 
Cose di Magenta - Tumulazioni - Carità e consigli - Un Cappuccino - La Provvidenza - Quindici marenghini.
 
A Magenta poi le cose presero un aspetto più terribile. Io giunsi colà il dì appresso della battaglia e vidi tanti morti e feriti, che io tremava da capo a piè. Deciso di fare un sacrifizio per la patria, ho dato ai miseri feriti dei rinfreschi, finchè ne ho avuto; dopo mi posi ad aiutare a portare i feriti all'Ospedale, e in fine a seppellire i morti. - Come, taluno dirà, il galantuomo seppellire i morti! - Sicuro, l'ho fatto e lo farei ancora. Tobia non era un galantuomo? Eppure lasciava il suo pranzo per andare a seppellire i morti.
In mezzo alle mie fatiche era grandemente consolato da molti moribondi, che si raccomandavano l'anima da se stessi, ed io ho dato loro più volte il mio crocifisso a baciare. Rincresceva però molto che non pochi soldati dimandavano di confessarsi e non si potevano aver preti bastanti per soddisfarli tutti. Non potendosi fare altrimenti suggeriva loro di recitare un sincero atto di contrizione; dipoi diceva che andassero tranquilli all'altro mondo che Dio li avrebbe perdonati. Molti domandavano di confessarsi da me; ma io non poteva nè ascoltarli, nè assolverli. Uno mi diceva: - Galantuomo io confesso a te i miei peccati, e tu li confesserai poi a qualche prete. - No, risposi, ne ho già fin troppo dei miei, che mi fanno andar gobbo; guai a me se aggiungeressi i tuoi. Fa l'atto di contrizione e poi va tranquillo.
Dopo il fatto di Magenta io voleva seguir l'esercito, ma non avevo più nè rinfreschi, nè danaro per far provvigione, perciocchè in mezzo ai molti bisogni io aveva consumato quanto possedeva. Malinconico camminava verso Milano occupato del modo di far provviste pel mio negozio, quando un cappuccino avvicinandosi mi disse: - Che hai galantuomo che cammini immerso in tanto gravi pensieri? Sei forse stato ferito a Magenta?
- Non sono stato ferito nella persona, ma nella borsa; non ho pi√π danaro e non ho pi√π rinfreschi da vendere.
- Non hai qualche credito da esigere?
- No, i miei crediti consistono in alcuni debiti che ho a Torino.
- Che facesti di quanto hai finora guadagnato col tuo negozio? - L'ho dato tutto ai poveri soldati, che o stanchi o feriti languivano per la sete.
- Hai fatto un'opera buona. Dio non mancherà di ricompensarti; egli suole dare il centuplo di ogni opera buona anche in questa vita e riserba una ricompensa eterna dopo morte.
- È vero; io non ho mai avuto nè vetture, nè cavalli, ad eccezione di un piccolo borricchetto, di cui servivami quando era negoziante di cipolle. Tuttavia ho sempre camminato. Sono sempre stato scarso di danaro ed ho sempre mangiato; ma ora mi trovo sprovvisto di ogni cosa .....
- Spera e prega e poi... Mentre facevasi tale discorso, odo la voce di uno che correva dietro: dicendo: - Fermati; aspetta, aspetta. - A prima vista temeva che fosse qualcheduno che mi prendesse per un malandrino e volesse salutarmi con qualche fucilata, oppure fosse qualche amico di frontiera, che suole mettere i guanti a certi galantuomini anche di estate, per condurmi in que' luoghi ove niuno paga pensione, che si suole chiamar prigione. Tuttavia mi fermai e per armarmi di coraggio, presi con una mano il mio codino e intrepidamente mi volsi dicendo: Chi mi cerca? Chi mi vuole? Io non faccio male a nessuno.
- Non temere: io vengo a te per farti del bene. Sei ben tu che ti chiami Galantuomo?
- Sì, mi chiamano, e per grazia di Dio, sono Galantuomo.
- Sei ben tu che a Magenta hai lavorato per dar da bere agli assetati feriti e moribondi?
- Si, si, ma io non ho fatto alcun male.
- Sei ben tu, che per fasciar la ferita ad un capitano, che perdeva tutto il sangue, ti togliesti la camicia, la facesti a bende per istagnare il sangue a quell'infelice, che correva il massimo pericolo della vita?
- Sì l'ho fatto, e lo farei ancora qualor ne fosse bisogno.
- Quel capitano mi manda a te per ringraziarti. Egli è a te debitore della vita e per segno di gratitudine ti prega di voler accettare questo piccolo pacco.
Pensavami che fosse un pacco di medaglie, perciò lo accettai volentieri con animo di farne parte ai bravi soldati, quando fosse imminente la battaglia. Ma apertolo, trovo quindici luccicanti marenghini. - No, gridai tosto, non li voglio: facendo quell'opera di carità ho fatto il mio dovere, e le opere di carità non si fanno per paga. - Ma l'altro era già ritornato indietro e non badò più alle mie parole. Il cappuccino mi confortò dicendo: - Prendi pure questo danaro come mandato dalla Divina Provvidenza. Giunto in Milano potrai fare la desiderata provvista. Tu hai fatto un'opera di carità e non l'hai fatta per interesse; ma Dio ispirò al tuo beneficato di venirti in aiuto nel pressante tuo bisogno. - A tali parole m'acquietai e misi in saccoccia i provvidenziali marenghini.
 
IV.
 
Milano - Le chiese - La montagna di marmo - I caffè Vista di Marignano.
 
Cammin facendo giunsi a Milano che trovai molto bella. Ma le vie e le piazze non sono così belle come quelle di Torino. Le nostre sono diritte, quadrate, e là tutte curve e con tante giravolte da tutte parti. Le chiese però sono più belle delle nostre. Il duomo sembra un'alta montagna di fino marmo con grande maestria lavorato. Noi poi superiamo i Milanesi nella eleganza dei caffè e nel lusso di piazza Carlina, dove trovasi in abbondanza ogni qualità di buon vino. Sonvi pure cavalli di bronzo che hanno la testa più grossa dei nostri, ma non vi è il cavallo di marino. Dimorai a Milano un giorno festivo; e poichè da qualche tempo non aveva più avuto la comodità di aggiustar gli affari dell'anima mia, volli approfittare di quell'occasione per fare le mie divozioni. Al lunedì seguente feci le necessarie provvigioni per i miei rinfreschi e mi posi in via per raggiungere gli eserciti. Giunsi a Marignano quattro giorni dopo la battaglia ivi avvenuta e vidi ancora orridi avanzi di quella giornata. Cioè il terreno ancor bagnato di sangue umano, e di quando in quando alcuni brani di cadaveri, che si andavano raccogliendo per metterli in ceste e portarli a sotterrare. Mosso a compassione ho detto un De profundis per quelli che erano morti e recitai una Salve, affinchè guarissero i feriti: quindi continuai il mio cammino.
 
 
V.
 
Rumori della battaglia di Solferino - Il giorno onomastico - Rimbombo infernale - Temporale - Vittoria - Campo di battaglia - Combattimenti - Morti e feriti.
 
Vi assicuro, miei cari, che quando andava a scuola, ed anche quando andava in pastura co' miei compagni ho dovuto sostener grandi battaglie, ora con sassi, ora con bastoni, e talvolta con pugni e perfino coi denti; ma quelle erano un nulla a paragone della battaglia di Solferino. Io vi racconto soltanto quello che avvenne a me, lasciando a quelli che sono più capaci, di scrivere quanto è avvenuto in quella memoranda giornata.
Il 23 di giugno si vociferava da tutte parti che era imminente una battaglia, la quale avrebbe deciso delle sorti dei tedeschi e degli alleati. O che noi assalivamo i tedeschi o che essi avrebbero assaliti i nostri; il che era lo stesso. Il giorno 24, giorno di San Giovanni, che è pur quello di mia festa, sul far del giorno sento un gran rumoreggiar di cannoni. Da prima pensava che fosse per festeggiare il mio giorno onomastico; ma tosto fui assicurato che gli austriaci si avanzavano contro dei nostri, e che i nostri erano pronti a servirli di barba e di perrucca.
Allora presi il mio cavagno con entro alquante bottiglie di sciroppo dolce; e portando quella maggior quantità di acqua che era possibile, mi avanzai verso i combattenti. Diceva fra me: oggi fa molto caldo, e combattendo havvi molto bisogno di bere; ed io vendendo li miei bicchierini, empio la saccoccia di sonanti quattrini. Per alcuni momenti andò bene ed io aveva già venduto la maggior parte de' miei liquidi. Quando alle dieci del mattino sento gridare: - Indietro, indietro, siamo presi di fianco! Non volendo giuocar a correre coi soldati, mi posi a parte della strada e, ritiratomi sopra una vicina collinetta, lasciai che i nostri si ritirassero per prendere miglior posizione. Ma povero me! In quel momento mi trovai quasi tra il fuoco dei piemontesi e dei tedeschi. Le palle di fucile ed anche di cannone cadevanmi attorno come cadono le noci assai mature, quando sono sbattacchiate sulla pianta. Più volte vedeva gli austriaci far correre i nostri, più volte vidi i nostri cacciare gli austriaci; ma sempre fucilate, cannonate, baionettate, grida di chi incoraggiava, gemiti dei feriti e dei morenti. Que' rumori, quegli strilli, que' lamenti confusi insieme facevano un rimbombo infernale. Finalmente sul fare della sera si levò un gran temporale, che favorì assai i nostri e rese inutili gli sforzi de' nemici, che furono costretti a ritirarsi. Cercai allora di discendere nella valle, ma un involontario terrore mi respinse. Ovunque volgessi lo sguardo non vedeva altro che morti, feriti e moribondi che domandavano pietà. Io avrei voluto provvedere a tutti, soccorrerli tutti, ma non mi era possibile. Mi sono unito cogli altri ed abbiamo lavorato otto giorni per trasportare i feriti all'ospedale e dar sepoltura ai morti.
Un generale piemontese che assisteva alle ambulanze dei feriti, disse che una simile battaglia non aveva esempio nelle storie. Erano circa trecento mila tra francesi e piemontesi contro a trecento mila tedeschi. Si combattè valorosamente da ambi le parti, e tra morti e feriti furono messi fuori di combattimento oltre a cinquanta mila uomini. Mi assicurano che Napoleone dicesse: - I tedeschi hanno perduto il terreno, noi abbiamo perduto gli uomini. - Volendo significare che la perdita fu maggiore da nostra parte. Noi però sapevamo che non si può far guerra senza che rimangano morti da una parte e dall'altra. Siccome non si può fare la frittata senza rompere le uova, così non si può far guerra senza uccisioni. Ma dopo che ho veduto la battaglia di Solferino, ho sempre detto che la guerra è cosa d'orrore ed io la credo veramante contraria alla carità! Comunque però sia stata quella battaglia, la vittoria fu da nostra parte e gli austriaci furono costretti a passare il Mincio, che è un fiume il quale divide la Lombardia dal Veneziano.
 
VI.
 
Il cavagno - Il cappello - Il codino - li fischio delle palle e le giaculatorie - La pace - Un regalo - Una colazione.
 
Voi, cari amici, mi direte: in mezzo a tali combattimenti non sei tu stato ferito? Grazie a Dio fui salvo; ma fui salvo per miracolo. Mentre era sopra quella collinetta intorniato dai nemici studiava sempre di nascondermi or accanto alle piante, or dietro ai sassi, ora dietro a rive o nei fossi. Tuttavia fu un momento che mi credetti morto. Una palla da cannone mi passò vicino e mi portò via cavagno, bicchieri e bottiglie. - Ai ladri, mi posi a gridare, ai ladri ma ecco una palla da fucile, senza domandarmi permesso, mi portò via di testa il cappello. - Là, dissi confuso e senza vedere persona: lasciatemi stare, io non fo male ad alcuno. -Ed ecco una scheggia di mitraglia venne a passarmi rasente le spalle e mi portò via tutto intiero il codino. - Povero codino, esclamai, come farò a far conoscere che il Galantuomo ha ancora la testa? - Volsi lo sguardo onde vederlo per l'ultima volta, ma con dolore nol vidi più. Nella perdita del mio codino ebbi ancora una consolazione; perchè mi è ancor rimasta la testa sulle spalle; e questo per me non è poca cosa.
Allora per timore che qualche pallottola di piombo venisse per facezia a portarmi via la testa dalle spalle, mi accovacciai in un fosso, mi coprii di terra fino al collo, e accanto al capo misi due grosse pietre e colà ristetti fino a sera. Ad ogni momento sentiva che le palle fischiando mi passavano sopra il capo. Sempre io diceva: - Gesù mio misericordia; e tosto baciava la medaglia. Che sia grazia del Signore, che sia la speciale protezione della S. Vergine, fatto sta che io fui salvato e potei ancora ritornare tra voi per raccontarvi alcune mie vicende.
Pochi giorni dopo la battaglia di Solferino, Napoleone scrisse una lettera all'Imperatore d'Austria; poi andò a fargli visita e parlandosi conobbero ambidue essere meglio la pace che la guerra, meglio essere amici e conservare la vita de' loro soldati, che essere nemici e massacrarsi a vicenda. Ora la pace fu definitivamente conchiusa e sottoscritta! e se gli uomini non verranno a turbarla non vi sarà più guerra. Napoleone poi è stato molto grazioso verso di noi. Egli ci regalò la Lombardia; noi in segno di gratitudine gli abbiamo regalato sessanta milioni, non già per compensarlo delle spese fatte, ma soltanto perchè faccia dare una colazione a' suoi soldati alla nostra salute. Intendete bene: tale colazione faranno soltanto quelli, che non morirono in battaglia, giacchè i morti non abbisognano più di nulla, se non di un Requiem aeternam.
 
 
VII.
 
Certo ed incerto - Desiderii di pace - Timor della guerra - Una predica - Tristi presentimenti.
 
Alcuno di voi, cari amici, mi domanderà: O Galantuomo, in quest'anno avremo la pace o la guerra? Vi rispondo distinguendo il certo dall'incerto. È certo che se gli uomini non fanno la guerra noi avremo la pace; ed è egualmente certo, che se gli uomini faranno la guerra non avremo la pace. Di maniera che la pace e la guerra sono nelle mani degli uomini. Questo dico parlando da Almanacco.
Se poi esprimo i miei desiderii dirò di tutto cuore: da ogni guerra libera nos, Domine. O Signore, dateci la pace per omnia saecula saeculorum. Perchè è cosa orribile il vedere giovani sani e robusti, forti come Sansone, e che alle loro case formano la delizia delle loro famiglie, pure avventarsi l'uno contro l'altro, cannoneggiarsi, fucilarsi, baionettarsi, scannarsi, sbranarsi e morire là in mezzo ai campi come le bestie! Ah sono cose d'orrore! Tutti quelli che si trovarono alla guerra, o sanno che cosa è guerra, dicono tutti: da ogni guerra libera nos, Domine. Questi sono i miei vivi desiderii.
- Ma i tuoi presentimenti, o Galantuomo, quali sono? che ne pensi? avremo in quest'anno la pace o la guerra? - Se volete sapere il mio pensiero da buon amico ve lo dirò. Vi premetto soltanto che non posso assicurarvi, che le cose succedano come io le penso. Vi dirò solamente come io la penso e come temo sia per avvenire. State adunque attenti.
lo temo che l'anno corrente ci sia di nuovo la guerra. La mia profezia è appoggiata sopra quanto diceva mia madre. Mi ricordo che mia madre quando viveva ancora, diceva sempre: la guerra è un flagello che Dio manda agli uomini pei loro peccati. Questi peccati non cessano ancora. Io vi assicuro che trovandomi in mezzo ai soldati ne trovai molti buoni, che si raccomandavano al Signore. Ma non pochi li ho uditi discorrere male di religione, male contro il Papa, male contro ai Vescovi, male contro i preti. Ne udii altri che bestemmiavano quando combattevano, quando
erano feriti, e perfin quando morivano. E ne udii di quelli che bestemmiavano in francese, in italiano, in piemontese.
Giunto a casa dalla guerra io pensava di vedere le chiese piene di gente per ringraziare Iddio, perchè aveva fatto cessare la guerra. Invece ho trovato molti malcontenti e che parevano desiderare (sciocconi) più la guerra che la pace. Ma quello che è più, si continuavano ovunque le bestemmie e le imprecazioni in modo assai più empio che non fra i soldati. Si lavora e si fa lavorare nei giorni festivi. Ci sono le prediche e molti non vanno; ci sono preti e confessionali e molti per non recare loro disturbo, molti (che pur non sono nè eretici, nè ebrei) vi si accostano di rado, e non pochi si accostano mai, e taluno giunse fino a mettere in burla il bene che fanno gli altri.
O minchioni che siete! Vi pensate forse che il Signore sia un burattino e che abbia voluto fare i suoi precetti sul monte Sinai per passatempo? No; egli li ha dati e vuole che si osservino. Chi li osserverà sarà da lui benedetto e premiato nella vita presente e nella futura; chi poi li disprezza, sarà da lui punito nella vita presente, e di poi nell'inferno condannato coi demonii nel fuoco, dove o volere o non volere andranno tutti coloro, che non osservano la legge di Dio. Perdonatemi questo trasporto di collera. Quando parlo di religione io mi sento tutto infiammato, ed a stento posso spegnere il fuoco che brucia e che mi eccita a parlare. Ora io vi accenno ancora altri flagelli che temo siano per avvenire in quest'anno.
Avremo un'altra guerra sanguinosa, la quale, se non farà spargere tanto sangue, manderà però maggior numero di anime all'inferno. Avremo due malattie terribili, che io non voglio nominare, e di cui vedrete i terribilissimi effetti. Due cospicui personaggi scompariranno dalla faccia del mondo politico colla loro gloria.
Molti padri e molte madri non sapranno darsi pace della insubordinazione dei loro figliuoli, piangeranno i disgusti che loro danno, lamenteranno discordie che cagionano in famiglia. Andranno in cerca del rimedio e non troveranno che veleno, perchè l'unico rimedio è la religione che essi medesimi trascurano.
Vedrete il vino a miglior prezzo, ma il pane più caro. Un paese sarà rovinato dal terremoto, parecchi altri desolati dal gelo, dalla grandine e dalla siccità.
Vorrei dirvi ancora altre cose ma non oso. Vi dico solo che i mali sono gravi, e che devono cominciare in quest'anno e che l'unico rimedio per allontanarli o almeno alleggerirli è la pratica della religione, la fuga del male.
Questi sono i miei presentimenti. Voi mi direte: - Tu, o Galantuomo, sei già vecchio, epperciò hai sempre paura di tutto, e temi anche dove non vi è motivo di temere.
Vi rispondo: - È vero che essendo già un po' vecchio, son divenuto come gli altri vecchi pieni di paura. Ma notate bene che la paura dei vecchi è fondata sopra l'esperienza, e l'esperienza è un maestro che non inganna.
Desidero però di tutto cuore che le mie profezie non abbiano il loro compimento, e che l'anno venturo quando, se sarò ancora in vita, verrò a farvi visita e vi possa parlare, voi possiate dirmi che sono stato un cattivo profeta, ed io sarò contento di potermi scusare dicendovi, che sono un profeta da Almanacco.
L'Almanacco dopo la prefazione esponeva alcuni graziosi racconti fra i quali Il ritorno di un coscritto ferito a Palestro, il quale descrive il coraggio dei Piemontesi infiammato dalla presenza di Vittorio Emanuele, e la commozione del Re fino alle lacrime, visitando il giorno dopo il campo di battaglia.
Finiva con un sonetto sul codino di Gianduia.
Questo Almanacco non sfuggì alla vigilanza dei segugi della polizia e mise il governo in apprensione.
Si andava macchinando per l'anno venturo una nuova invasione negli Stati Pontifici e l'annessione del regno di Napoli al Piemonte. I preparativi per queste spedizioni erano avvolti nel più misterioso segreto. Le idee del Galantuomo oscure abbastanza, perchè gli ingenui non capissero, erano chiare come il sole a coloro, che si maneggiavano astutamente per riuscire nei loro progetti. Quindi temettero che nelle loro file si celassero dei traditori e vollero conoscere dallo stesso D. Bosco, quale fosse il motivo che lo aveva indotto a scrivere.
Per tanto D. Bosco si vide chiamato al palazzo del Ministro dell'Interno. Fu ricevuto da un addetto al Ministero, il quale, fattogli urbanamente osservare come la lettera da lui scritta al Re fosse a suo giudizio poco rispettosa, entrò in discorso sulle profezie del Galantuomo.
- È ben lei che le pubblica?
- Sì, sono io, signor cavaliere.
- Perchè scrive certe cose che mettono in apprensione molti? Che cosa sa lei del futuro? Perchè si atteggia a profeta ?
- Le faccio osservare che scrivo per un almanacco.
- Ma dove ha prese le notizie che annunzia con tanta sicurezza ?
- Ho detto forse cose contrarie alla verità ?
-Anzi! Io le domando come abbia fatto a saperle: Lei deve avere confidenziali rivelazioni.
- Io non saprei che cosa rispondere. Nessuno è venuto a palesarmi cose di Stato. Credo però di non aver fatto male a scrivere ciò che ho scritto.
- Non dica questo. Lei deve avere qualche fondamento per appoggiarvi le sue predizioni. Tuttavia avrebbe fatto meglio a non impacciarsi in questi fatti e in tali questioni.
- Oh quando è così se lo avessi saputo stia certo che non voglio recar loro nessun dispiacere. Del resto le ripeto che nessuno può essere compromesso per causa mia.
- Ma che! Vorrà dunque che io creda che la V. S. legga nell'avvenire?
- È padrone di credere ciò che meglio le piace.
- Insomma l'ho fatto chiamare per dirle non essere conveniente, anzi essere cosa pericolosa entrare in controversie che possono preoccupar il governo.
- Scusi, Cavaliere, io non vedo ragione di pericoli e di preoccupazioni: O il ministero mi crede profeta e allora provveda al bene dello Stato, o non mi crede profeta e allora mi disprezzi.
Sorrise quel Signore e, raccomandandogli di essere più prudente in avvenire, lo congedò.
 
 
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