Capitolo 29

Prudenza di Giovanni nella scelta degli amici - Aiuta i compagni negli studi - Società dell'Allegria Pratiche di pietà - Fortuna di un buon confessore.

Capitolo 29

da Memorie Biografiche

del 11 ottobre 2006

  Lo Spirito Santo ha detto: “Vivi in amistà con molti, ma prendine uno di mille per tuo consigliere. Se ti fai un amico, lo sia dopo averlo sperimentato, e non ti fidare leggermente di lui; perocchè havvi chi è amico quando gli torna comodo, e non dura ad esserlo in tempo di tribolazione; ed havvi qualche amico, compagno di tavola, il quale sparisce nel giorno della necessità; ed altri che si cangia in nemico; ed altri ancora che metterà fuori l'odio, le acerbe querele e gli strapazzi (manifestando i segreti che gli hai confidati, rendendo pubblici i dissapori, cercando di disonorarti e di metterti in odio presso gli altri).  

Allontanati da' tuoi nemici (specialmente quelli dell'anima tua) e sta in guardia anche su gli amici”.

Giovanni, guidato dalla sola prudenza, istintivamente seguì queste norme fin dal primo suo affacciarsi alle scuole di Chieri. Così egli scrive: “Nelle prime quattro classi dovetti imparare a mio conto il modo di trattare coi compagni. In mia mente avea divisi costoro in tre categorie: buoni, indifferenti, cattivi. Questi ultimi evitarli assolutamente e sempre, appena conosciuti; cogli indifferenti trattenermi per cortesia e per bisogno; coi buoni contrarre amicizia, ma famigliarità solamente cogli ottimi, quando se ne incontrassero che fossero veramente tali. Questa fu la mia ferma risoluzione. Siccome però in sul principio in questa città non conosceva alcuno, così mi son fatta per allora una legge di non famigliarizzare con alcuno, attento a fuggire le occasioni anche lontane dei pericoli.  

Tuttavia ho dovuto lottare non poco con quelli che io non conosceva per bene. Taluni volevano guidarmi ad un teatrino; altri a fare una partita al giuoco; altri ad andare al nuoto; qualcuno anche a rubacchiare frutta nei giardini o nella campagna. Un cotale fu così sfacciato, che mi consigliò a rubare alla mia padrona di casa un oggetto di valore a fine di procacciarci dei confetti. Io mi son liberato da questa catena di tristi col fuggire rigorosamente la loro compagnia di mano in mano mi veniva dato di poterli scoprire.  

Generalmente poi diceva a tutti per buona risposta, che mia madre avevami affidato alla mia padrona di casa, e che, per l'amore che io a lei portava, non voleva andare in nessun luogo, nè fare cosa alcuna senza il suo consenso”.

Questa ferma obbedienza alla buona Lucia tornò utile a Giovanni anche temporalmente; perciocchè ella, vedendolo così diligente in tutti gli umili servigi di casa, che doveva prestare secondo i patti, così assennato, pio e fornito di tante altre belle doti, non potendo essa attendere come avrebbe desiderato alla propria famiglia, distratta troppo da vari negozi, con grande piacere a lui affidò il proprio unico figlio, di carattere assai vivace, amatissimo dei trastulli e pochissimo dello studio, incaricandolo eziandio di fargli ripetizione, sebbene frequentasse la classe superiore alla sua.

Giovanni se ne occupò come di un fratello. Colle buone, con piccoli regali, coi trattenimenti domestici e più conducendolo alle pratiche religiose, se lo rese docile, obbediente e studioso, a segno che dopo sei mesi il dissipatello era divenuto si buono e diligente da contentare il suo professore ed ottenere posti di onore in classe. La padrona ne fu lieta assai, e per premio condonò a Giovanni intiera la pensione mensile, somministrandogli il vitto; per cui a Giovanni non restava altra spesa che quella dei libri e delle vestimenta. Per ben due anni egli continuò quest'amorevole e vigilante assistenza al giovanetto. Il servitorello era divenuto istitutore di giovani studenti: la divina Provvidenza lo andava esercitando in un altro ramo della sua futura molteplice missione. In questo egli si eserciterà per tutto il corso de' suoi studi, non tralasciando però mai di addestrarsi in quegli altri che Iddio gli aveva fatti apprendere precedentemente. La sua attività non aveva requie. Nelle ore che gli studenti sogliono dedicare alla ricreazione, egli affaticavasi in opere manuali. In un laboratorio di falegnami suoi conoscenti, vicino alla sua abitazione, imparò con gran facilità a piallare, squadrare, segare il legno, ad adoperare il martello, lo scalpello, le verrine, sicchè riuscì abile a costrurre mobili, grossolani se si vuole, ma indispensabili per una stanza. Talora lavorava per conto proprio, tal'altra a servigio de' suoi benefattori; col qual nome chiamò sempre quelli che lo tenevano in pensione.

Intanto i compagni, che volevano tirarlo ai disordini, vedendosi ributtati, non mancarono di sfogare la loro stizza con le solite maniere poco cortesi e talora provocanti, alle quali però Giovanni non diede retta, continuando di contraccambio a trattarli colla solita benevolenza. La sua amorevolezza pertanto inspirò fiducia in costoro, che erano di solito i più trascurati nei doveri, ed incominciarono a far ricorso a lui, pregandolo della carità scolastica, d'imprestare o dettar loro il tema della scuola. Avveravasi propriamente in lui quel detto: “Figliuolo, fa le cose tue con mansuetudine, e oltre la gloria avrai l'amore degli uomini.”. Giovanni accondiscese; ma spiacque tal cosa al professore, il quale la proibì severamente, giacchè quella falsa benevolenza fomentava la loro pigrizia. Questa proibizione così giusta contrariava l'affetto che Giovanni portava a' suoi condiscepoli.  

Avvenne un giorno che i suoi compagni di pensione, non sapendo o non potendo fare il compito, lo pregarono a volerneli aiutare con imprestare loro il suo. Giovanni, non volendo disobbedire al maestro e d'altra parte non potendo soffrire che i suoi compagni coll'andare a scuola senza compito dovessero subire il castigo, ne pensò una bella: lasciò la pagina sul tavolino di studio, e poi senz'altro si ritirò. I compagni, approfittando di sì propizia occasione, si gettarono su quella pagina, e in tutta fretta ne copiarono il contenuto. Giunta l'ora della scuola, ciascuno presentò il proprio compito al maestro, il quale si pose a leggerlo. Ma quale dispetto non provò quando, confrontando i vari lavori fra di loro, si avvide che erano tutti perfettamente eguali! Naturalmente il suo sospetto cadde su Giovanni, il quale interrogato affermò non aver trasgredito gli ordini dati; soggiunse che, avendo lasciata la propria pagina sul tavolino, non era improbabile che fosse stata copiata.  

Il maestro, conoscendo l'indole sua, capì tutto e non, potè a meno che ammirare ad un tempo la sua obbedienza, il suo buon cuore e la sua furbizia. Terminata la scuola, gli disse: - Non sono dispiacente di ciò che hai fatto; ma non farlo più un'altra volta. - Il maestro intendeva benissimo come Giovanni con carità industriosa, servizievole e pronta pure a sacrifici cercasse di tirare al bene quei compagni.

Allora Giovanni si appigliò ad un'altra via più profittevole, vale a dire, a spiegare ai compagni le difficoltà che trovavano ed anche ad aiutare quelli cui fosse mestieri. Per tal modo egli recava piacere a tutti e di tutti si cattivava la benevolenza, l'affezione e la stima.  

Essi pertanto cominciarono a venire per ricreazione, poi per ascoltare racconti, poi per compiere i doveri di scuola; finalmente anche senza motivo venivano a lui, come i compagni di Morialdo e, di Castelnuovo. Per dare un nome a quelle riunioni, solevano chiamarle Società dall'Allegria: nome che assai bene si conveniva, perchè ciascuno era obbligato a cercare quei libri, introdurre quei discorsi e trastulli che avessero potuto contribuire a stare allegri; per contrario era proibita ogni cosa che cagionasse melanconia, e specialmente checchè non fosse secondo la legge del Signore. Chi pertanto avesse bestemmiato, o nominato il nome di Dio invano, o fatti cattivi discorsi, era immediatamente allontanato dalla società come indegno di appartenervi. Giovanni trovavasi alla testa di quella moltitudine di compagni. Di comune accordo furon posti per base di quella cara società i due articoli seguenti:

1 Ogni membro della Società dell'Allegria deve evitare ogni discorso, ogni azione che disdica ad un buon cristiano.

2 Esattezza nell'adempimento dei doveri scolastici e dei doveri religiosi.

Fra i componenti la Società dell'Allegria Giovanni ne potè rinvenire alcuni veramente esemplari. Meritano di essere nominati Guglielmo Garigliano di Poirino e Paolo Braja di Chieri. Il giovane Paolo Vittorio Braja era nato in Chieri il giorno 17 giugno dell'anno 1820, da Filippo Braja e Catterina Cafasso da Brusasco. Giovanetto era stato educato in casa, sotto la guida amorevole dello zio paterno canonico Giacinto Braja. Più tardi frequentò le scuole municipali, in cui fu caro ai superiori e maestri e segnalato esempio di studio e pietà ai condiscepoli. Di memoria e perspicacia non comune, al discernimento univa una prudenza superiore all'età sua. A dieci anni, andava già manifestando il desiderio di percorrere gli studi per avviarsi alla carriera sacerdotale. Si dilettava di ripetere le prediche udite. Un giorno per eccitamento dei parenti ed amici, studiò un intero discorso, e in un'adunanza di molta gente, salito sopra di un pulpito preparato all'uopo, declamò con tanta grazia, che lo si sarebbe creduto provetto oratore, riscuotendo l'ammirazione ed il plauso di quanti vollero essere presenti a tale esercizio. Soventi volte raccomandava agli amici e parenti di evitare il lusso e la moda, dicendo che l'arciprete Fosco molto insisteva su tal materia, asserendo che il lusso è un laccio del demonio. Applicava molto a proposito le parole udite, e se ne serviva per dar consigli agli amici e molte volte si dimostrava caritatevole consolatore degli afflitti.

Scrive D. Bosco: “Garigliano e Braja partecipavano volontieri all'onesta ricreazione, ma in modo che la prima cosa a compiersi fossero sempre i doveri di scuola. Amavano ambedue la ritiratezza e la pietà, e mi davano costantemente buoni consigli. Tutte le feste, dopo la congregazione del collegio, andavamo alla chiesa di S. Antonio, dove i PP. Gesuiti facevano uno stupendo catechismo, in cui raccontavansi parecchi esempi così ben scelti da ricordarsene per tutta la vita. Lungo la settimana poi la Società dell'Allegria si raccoglieva in casa di uno dei soci per parlare di religione. A questa radunanza interveniva liberamente chi voleva. Garigliano e Braja erano dei più puntuali. Ci trattenevamo alquanto in amena ricreazione, in pie conferenze, letture religiose, in preghiere, nel darci buoni consigli e nel notarci a vicenda quei difetti personali, che ciascuno avesse osservato o dei quali avesse da altri udito parlare. Senza che allora il sapessimo, mettevamo in pratica il sublime avviso: Beato chi ha un monitore. E quello di Pitagora: Se non avete un amico che vi corregga i difetti, pagate un nemico che vi renda questo servizio. E quell'altro dello Spirito Santo: “È migliore una aperta riprensione, che un amore che si nasconde; sono migliori le ferite che vengono da chi ama, che i falsi baci di chi odia”. Oltre a questi amichevoli trattenimenti andavamo ad ascoltare le prediche, spesso a confessarci e a fare la santa Comunione”.

Qui è bene ricordare come di quei tempi la religione facesse parte fondamentale dell'educazione. Un professore, che eziandio celiando avesse pronunziato una parola lubrica e irreligiosa, era immediatamente dimesso dalla carica. Se facevasi così dei professori, si può immaginare quanta severità si usasse verso gli allievi indisciplinati e scandalosi!

La mattina dei giorni feriali si ascoltava la santa Messa ed ogni allievo doveva essere fornito di un libro di preghiere e leggerlo divotamente. Al principio della scuola si recitava l'Actiones coll'Ave Maria, dopo dicevasi l'Agimus pure coll'Ave Maria. Nel sabato dovevano tutti recitare la lezione del catechismo assegnata dal direttore spirituale, e sul finire della scuola onorare Maria SS. colle Litanie.

Nei giorni festivi poi gli allievi erano tutti raccolti nella chiesa della congregazione. Mentre i giovani entravano, si faceva lettura spirituale, cui seguiva il canto dell'Ufficio della Madonna; dipoi la Messa; quindi la spiegazione del Vangelo. La sera catechismo, con l'obbligo ad ogni alunno di rispondere alle interrogazioni fatte dal direttore spirituale, vespro, istruzione. Ciascuno doveva accostarsi ai SS. Sacramenti; e per impedire la trascuratezza di questi importanti doveri erano obbligati a portare una volta al mese il biglietto di Confessione e a Pasqua il biglietto della santa, Comunione. Chi non avesse adempiuto a quest'obbligo, non era più ammesso agli esami alla fine dell'anno, sebbene fosse dei migliori nello studio. Coloro che il direttore spirituale licenziava dalla congregazione perchè disobbedienti o perchè ignoravano il catechismo, erano eziandio espulsi dalle scuole.

Era prescritto un triduo di preparazione alle Feste del Santo Natale, nel quale si tenevano due prediche al giorno, si assisteva alla santa Messa, si recitava l'Ufficio della Beata Vergine e le preci della novena. Nella quaresima, tutti i giorni di scuola gli studenti dovevano intervenire al catechismo, che precedeva l'ora consueta delle lezioni. Ogni anno, per cinque giorni, dal Venerdì detto di Passione al Martedì Santo, tutti insieme si radunavano per gli esercizi spirituali, con due meditazioni e due istruzioni quotidiane, e si poneva termine a questo raccoglimento spirituale colla Comunione pasquale. I singoli giovani dovevano procurarsi la dichiarazione di avere atteso regolarmente a questi esercizi.

Tale era l'ordinamento religioso degli studi secondari promulgato da Re Carlo Felice, con le regie patenti del 23 luglio 1822. Si partiva dal principio che la scuola doveva essere religiosa, essendo Iddio il fondamento della scienza e di ogni moralità. L'istruzione era posta sotto l'ispezione del Vescovo e i maestri non potevano assumere, nè proseguire l'insegnamento senza che ogni anno presentassero un certificato del proprio Vescovo, in cui si attestasse aver essi tenuta una lodevole condotta e aver esercitato il loro ufficio nel modo che si conveniva al bene della Religione e dello Stato. Da un pericolo mortale erano eziandio difesi i giovani d'allora, nel quale oggigiorno s'imbattono ad ogni piè sospinto. Le sêtte avevano incominciato a introdurre e diffondere nel Regno gran copia di pubblicazioni irreligiose, immorali e sovversive; ma il Re Carlo Alberto non tardava a porvi riparo. Nel settembre 1831 aveva creata una commissione composta di cinque membri coll'incarico di vegliare che nei suoi Stati non s'introducessero queste pestilenze; e i suoi ordini vennero eseguiti con zelo.

Non è quindi a dire quanto i maestri sorvegliassero sulle letture degli alunni. Scrive D. Bosco: “Questa religiosa, severa disciplina produceva maravigliosi effetti. Si passavano anche più anni, senza che si udisse una bestemmia o cattivo discorso. Gli allievi erano docili, rispettosi tanto nel tempo di scuola, quanto nelle proprie famiglie. E spesso avveniva che in classi numerosissime alla fine dell'anno erano tutti promossi a classe superiore. Nella terza, umanità e retorica i miei condiscepoli furono sempre tutti promossi.  

La più fortunata mia avventura fu la scelta di un confessore stabile nella persona del teologo Maloria, canonico della Collegiata di Chieri. Egli mi accolse sempre con grande bontà, ogni volta che andava da lui. Anzi mi incoraggiava a confessarmi e comunicarmi con maggior frequenza. Era cosa assai rara in quei tempi trovare chi incoraggiasse alla frequenza dei Sacramenti. Non mi ricordo che alcuno de' miei maestri mi abbia tal cosa consigliata. Chi andava a confessarsi e a comunicarsi più di una volta al mese, era giudicato dei più virtuosi; e molti confessori non permettevano. Io però mi credo debitore a questo mio confessore, se non fui dai compagni trascinato a certi disordini, che gli inesperti giovanetti hanno pur troppo a lamentare nei grandi collegi”.

 

 

 

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