Nuovi giovani ricoverati - L'albero della vita rifugio di un secondo fanciullo - Il piccolo barbiere - L'espulso dalla casa paterna - I primi santi protettori delle camerate.
del 10 novembre 2006
 Stanchi ed assordati dal fragore delle battaglie e dalle urla della piazza, cerchiamo qualche istante di riposo nella pace che rallegra la casa Pinardi. Quantunque un mille e cinquecento giovani della città si raccogliessero in giorno di festa nell'Oratorio di S. Francesco di Sales e in quello di S. Luigi Gonzaga, tuttavia troppi altri, come abbiamo visto, per incuria dei parenti e dei padroni, ancor ne rimanevano erranti per le piazze e per le contrade, lontani dalle sacre funzioni. Tra questi ve n'era un drappelletto, avente a capo un garzoncello sui 16 anni, snello della vita, di carattere ardente, capace a guidare di per sè un reggimento di soldati. Costui aveva udito più volte da qualche suo amico parlare con entusiasmo di D. Bosco, come di un padre amoroso della gioventù, senza però rimaner impressionato da quelle lodi. Ora una domenica del 1847, essendosi riuniti quei tristanzuoli nel consueto ridotto dei loro divertimenti, egli trova che manca un compagno e ne domanda agli altri la ragione.
  - Si è recato, risponde uno di essi, si è recato all'Oratorio di D. Bosco, un prete molto bravo che tratta la gente con buone maniere.
 - Oratorio di D. Bosco? ripetè il giovanotto; ma che cosa è questo oratorio? Che cosa vi si fa?
 - Dicesi che è un luogo, dove si raccolgono molti giovani; là corrono, giocano, saltano, cantano e poi si ritirano in una chiesetta vicina a pregare.
 - Corrono, giocano, saltano, cantano! Tutte cose che fanno per me; ma dov'è questo luogo?
 - È in Valdocco.
 - Andiamo a vedere, - conchiuse il capitanello; e gli altri lo seguirono. Giunto sul luogo, trovò chiusa la porta, perchè i giovani dell'Oratorio erano già ritirati in cappella. Ma il nostro bravaccione non si lascia vincere dai piccoli ostacoli e aggrappatosi su per il muriccio, vedendo nessuno nel cortile, saltò al di là come un gatto.
Stava poi girovagando; e mentre osservava quel meschino oratorio, che gli sembrava non poter essere altro fuorchè una rimessa o una tettoia, essendo egli stato visto da taluno, venne interrogato e poi condotto in chiesa. Fin dal primo istante ci fu meravigliosamente sorpreso nello scorgere tanti giovani della sua età, condizione ed indole, modesti, devoti pendere dal labbro di un piccolo e venerando sacerdote, il quale li istruiva con semplicità, dolcezza, e affabilità. Chi predicava era il Teol. Borel, il quale proprio opportunamente parlava degli agnelli e dei lupi, facendo rilevare che i primi sono i giovani innocenti, e i secondi sono i compagni maliziosi e perversi. - Se non volete, egli diceva, se non volete essere sbranati dai lupi rapaci, fuggite, o miei cari giovani, dalle compagnie cattive, da quelli che bestemmiano, da quelli che parlano sconcio, da quelli che rubano, da quelli che stanno lontani dalla Chiesa. Alla festa poi venite all'oratorio. Qui vi trovate come riparati nell'ovile; qui i lupi non entrano, e qualora entrassero, vi sono anche i cani fedeli, vi sono dei buoni Sacerdoti, dei buoni assistenti, che vi difendono e vi custodiscono. - Queste ed altre consimili parole fecero una profonda impressione sul cuore dei giovanetto, che non mai in vita sua aveva udito una predica più adatta e più affettuosa di quella. Finito il breve sermone, s'intonarono le litanie, ed egli che aveva una bellissima voce e sentiva passione per la musica, prese parte a quel canto con un trasporto di gioia. Questa ineffabile allegrezza da lui provata per la prima volta era una chiamata di Dio che lo traeva a sè. Smanioso intanto di conoscere D. Bosco, e uscito di cappella, domandò ad uno dell'oratorio: - Qual è D. Bosco? È forse quel piccolo prete che ha fatta la predica?
 - No, gli rispose l'interrogato; vieni con me e te lo farò conoscere. - E lo condusse dinanzi a lui, attorniato già da una turba di giovani l'accoglienza fattagli da D. Bosco fu tanto amorevole, che il giovanetto ne rimase profondamente commosso. Dopo alcune interrogazioni sopra il suo stato e sovra la sua condizione, lo invitò a prendere parte ai trastulli, lo fece cantare da solo, ne lodò la bella voce, gli promise di fargli imparare la musica, e cento altre cose. Una parolina dettagli in fine nell'orecchio, una di quelle potenti parole, delle quali egli solo aveva il segreto, finì per guadagnarlo appieno e legarlo a D. Bosco con un vincolo di sincerissimo affetto. Da quel momento il giovane sentissi interamente mutato. In quel mentre entrati nell'Oratorio e avvicinatisi a lui alcuni compagni del suo drappello, avendo saputo D. Bosco che amavano il canto, li invitò a dar prova della loro valentia. Accondiscesero volentieri; il capitanello si mise in mezzo a loro, che erano circondati da tutti i giovani accorsi per godere di quella novità, e furono cantati alcuni pezzi d'opera da teatro. Il capo orchestra aveva scelto quelli, che meglio esprimevano le condizioni dell'anima sua. Tali armonie furono molto gradite e impegnarono sempre più D. Bosco a prendersi cura di quel giovanetto. D'allora in poi questi frequentò l'oratorio festivo con una assiduità esemplare, conducendovi ancora parecchi suoi compagni.
Ma era nella più profonda ignoranza della dottrina cristiana, che aveva interamente dimenticata; e persino della stessa orazione domenicale, causa per cui alcuni anni prima, essendo già stato ammesso alla Comunione, il parroco di S. Agostino gliela aveva proibita. D. Bosco, intenerito dal miserando suo stato, nel secondo suo abboccamento con lui lo invitò dolcemente a portarsi nel coro della cappella, dicendogli che sarebbe tosto venuto ad ascoltare la sua confessione. Era sua industria girare attorno nel cortile, mentre i giovani si ricreavano, per raccogliere quelli che il suo occhio penetrante, e diremo, ispirato, conosceva aver più bisogno della sua carità. In fatti avendo questo suo nuovo amico di primo slancio aderito alla sua proposta, trovò già riuniti allo stesso scopo più altri giovani. Venuto il suo turno, versò il suo cuore in quello di D. Bosco e udì un'altra parola che infuse nell'anima sua una pace ineffabile. Dopo la confessione Don Bosco si offerse d'istruirlo meglio nei rudimenti della fede: ma siccome aveva bisogno di un'istruzione particolare, così lo affidò alle cure dei buon sacerdote D. Pietro Ponte, in allora suo commensale. Questi lo riceveva tutti i giorni e gli insegnava il catechismo. Non fu difficile il suo compito per l'attenzione e l'ingegno dell'allievo, e per il richiamo alla mente di quelle lezioni già apprese alla parrocchia, sicchè dopo quindici giorni ei, per le mani dello stesso D. Bosco, faceva la sua prima Comunione.
In seguito l'oratorio divenne il suo luogo prediletto, lo frequentava almeno tutti i giorni e non di rado più volte al giorno. In quelle ore imparava la musica, che ben presto potè eseguire tanto nell'oratorio come altrove. La sua bella voce dominava armoniosamente quella dei compagni allorchè alla sera dopo la scuola faceva risuonare i viali di varie lodi alla Madonna, mentre tutti ritornavano alla propria casa accompagnati per un piccolo tratto da D. Bosco.
Ma questa non è che una parte del racconto. Qui è da sapersi che il povero ragazzo aveva due genitori, che potevano chiamarsi meritatamente due persecutori. I maltrattamenti erano quotidiani: e ben sovente, dopo avergli logorata tutto il giorno la vita, gli facevano soffrire la fame. Dell'anima non si curavano nè punto nè poco; anzi quando seppero che egli frequentava l'oratorio, presero a dargliene la baia per allontanarmelo.
D. Bosco sapendolo in siffatta tribolazione e pericolo lo veniva incoraggiando, ed una volta tra le altre vistolo a piangere gli disse con grande effusione di cuore:
 - Ricordati che in ogni evento io ti farò sempre da padre, e tu trovandoti a mal partito fuggi a casa mia. - Questo fatto non tardò ad accadere. Fioriva la primavera del 1848. Il padre suo esercitava l'arte del compositore tipografo, e una sera in tipografia, essendo caduto il discorso su Don Bosco e il suo oratorio, egli, disse al figlio: Voglio che tu la finisca, e fin di domenica ti guarderai bene dal recarti da quel…. - e qui eruttava una villania ed una bestemmia. Il figlio, quantunque rispettoso, stanco dal lavoro, affranto dalla privazione di cibo, e offeso dalle continue ingiurie e minacce, aveva nondimeno la lingua molto sciolta, e gli rispose pertanto: - Se all'oratorio io imparassi a rubare, a rissare, o a fare lo scellerato, avreste ragione di proibirmi che io vi andassi; ma colà io imparo nulla di male, anzi m'insegnano persino a leggere, a scrivere e a far conti; perciò io ci voglio andare e ci andrò sempre. - Ci andrai sempre? - rispose il padre, e in così dire gli dà tale uno schiaffo da fargli girare il capo. Il povero figlio, temendo di peggio, prende la porta e fugge verso l'oratorio. Quivi giunto chiede di D. Bosco e avendo appreso che non aveva fatto ancora ritorno a casa, temendo di essere raggiunto da sua madre, si arrampicò sopra il gelso innanzi al portone che colle ricche sue foglie lo nascose agli sguardi della gente. Erano le 8 di sera.
Egli attendeva con grande trepidazione l'arrivo di Don Bosco. Intanto incominciarono a sfilare i giovani che si portavano alla scuola serale, finchè venne D. Bosco e nello stesso tempo in fondo alla via compariva sua madre. Persuasa che si fosse colà fuggito, voleva ricondurlo a casa. D. Bosco si fermò alla voce della donna, che, affrettando il passo lo aveva chiamato. Entrati ambedue in cortile, tra Don Bosco e quella brava madre s'ingaggiò un dialogo, anzi un diverbio che durò lungamente, poichè essa insisteva ingiuriando e protestando essere suo figlio nascosto nell'oratorio. Molti giovani erano accorsi alle sue grida li figlio inosservato ascoltava quel poco dilettevole dialogo e non temeva altro, se non che qualche occhio si portasse all'albero e lo scoprisse. Intanto D. Bosco, e i giovani che ignoravano la vicinanza dei loro compagno, asserivano, secondo verità, alla madre, che si mostrava incredula, di non averlo veduto. Partita la madre il figlio incominciò a respirare e attese, per discendere dall'albero, che le scuole finissero e i giovani si fossero allontanati. Allora scivolò a terra e, attraversato il cortile deserto, andò a picchiare alla camera di D. Bosco. Il buon sacerdote sommamente sorpreso di vederlo, e udito il racconto dell'avvenuto lo accolse e accettò in casa, gli fece somministrare pane e minestra dalla veneranda sua madre e gli assegnò un letticciuolo per riposare nella notte. L’indomani il giovanetto, incontrata sua madre che ritornava a ricercarlo, ottenne il suo pieno consenso per rimanere all'oratorio. Questo giovane si chiamava Reviglio Felice che fu Teologo Curato della stessa sua parrocchia di S. Agostino, esaminatore prosinodale e da lui stesso abbiamo raccolta la descrizione di questo fatto.
Da prima, e per tutto l'anno 1848, egli fu applicato ad imparare l'arte di legatore da libri. Le delicatezze, per l'addietro a lui sconosciute, della carità lo avevano completamente cambiato. Essendo di gran cuore ed ingegno, di una pietà viva ed ardente, talora faceva mirabili discorsetti ai suoi compagni. Avendo naturale inclinazione per la musica, la imparò a meraviglia. Ricevette lezioni di pianoforte da D. Bosco, e riuscì buon suonatore di organo e il braccio destro di lui nelle partite e feste musicali.
Un'altro dei fanciulli raccolti nel 1848 merita pur qui una particolare memoria. D. Bosco entrò un giorno in una barberia di Torino per farsi radere la barba. Colà egli trovò un ragazzetto che vi faceva l'apprendista, e secondo il suo solito gli volse tosto la parola per guadagnarlo al suo oratorio festivo.
 - Come ti chiami, caro mio?
 - Mi chiamo Carlino Gastini.
 - Hai ancora i tuoi genitori?
 - Ho solamente più la madre.
 - Quanti anni hai?
 - Undici.
 - Hai già fatta la tua prima Comunione?
 - Non ancora.
 - Vai al Catechismo?
 - Quando posso ci vado sempre.
 - Oh! bravo, bravino! Ora in paga voglio che tu mi faccia la barba.
 - Per carità, disse allora il padrone, non si arrischi, signor Teologo, perchè questo ragazzo è da poco tempo che impara, ed è appena capace a radere la barba ai cani.
 - Non importa, signor mio, rispose D. Bosco: se il garzoncello non fa la prova, non imparerà mai.
 - La mi scusi, mio reverendo; la prova, se occorre, gliela farò fare sulla barba di un altro, ma non su quella di un prete.
 - Oh! bella! La barba mia è forse più preziosa che quella di un'altro? Non si affanni dunque, signor barbiere; e qui svelato il suo nome, la mia barba, soggiunse, è barba di Bosco: purchè il suo apprendista non mi tagli il naso, il resto non cale.
Fu quindi giocoforza che il piccolo barbiere si accingesse all'operazione. Non occorre il dire che sotto quelle mani inesperte e tremanti il povero D. Bosco dovette ridere e piangere ad un tempo; ma lasciò fare intrepidamente. Finito il compito - Non c'è malaccio, disse al fanciullo il paziente sacerdote, non c'è malaccio; poco per volta, e tu diventerai un famoso barbiere. - Egli s'intrattenne ancora alquanto con lui, lo invitò all'oratorio per la domenica veniente, e il fanciulletto glielo promise di cuore. Pagato poscia lo scotto al padrone, D. Bosco se ne partì, palpandosi per istrada di quando in quando la faccia, che assai gli bruciava, contento
nondimeno di essersi guadagnato l'affetto di un nuovo ragazzo.
Il Carluccio tenne la data parola, e la domenica dopo fu all'oratorio. D. Bosco ne lo encomiò altamente, lo fece trastullare coi compagni e prendere parte alle sacre funzioni. Terminate le quali, il buon Prete avutolo a sè gli disse all'orecchio una di quelle parole che guadagnano i cuori, e menatolo in sacrestia lo preparò convenientemente e ne udì la confessione. Fu tanta la contentezza che il fanciullo provò in quell'atto, che ad un punto si pose a piangere dirottamente, e trasse le lagrime anche a D. Bosco. Da quel giorno l'oratorio divenne il luogo di sua predilezione, e nel giorno festivo appena era in libertà vi correva tantosto. Egli profittava sì bene degli insegnamenti che gli si davano, che nella sua bottega quando udiva qualcuno ad uscire in cattivi discorsi lo rimbrottava dicendo: - Non avete vergogna di parlare in tal modo alla presenza di un fanciullo? e lo faceva tacere.
Erano passati pochi mesi da questo felice incontro, quando il giovinetto già orfano di padre perdeva la madre. Un suo fratello maggiore si trovava sotto le armi; ed egli rimasto solo con una sorellina fu di soprassello cacciato in mezzo ad una via dal padrone di casa, perchè la madre durante la malattia non aveva potuto pagare la pigione. Una sera pertanto D. Bosco veniva verso Valdocco, quando arrivato presso al così detto Rondò, ode i singhiozzi di un fanciullo. Gli si accosta e vede il suo piccolo barbiere immerso nel dolore e nel pianto. - Che cosa hai, gli domanda, Carlino mio? Ed il poveretto con un parlare interrotto dai singulti gli racconta la dolorosa storia. D. Bosco ne fu intenerito, e come se Dio gli avesse fatto trovar un tesoro, prende per mano, il desolato orfanello e se lo conduce all'ospizio. La sorellina fu alla sua volta alloggiata in casa di povera, ma cristiana donna, e poscia collocata all'Ospizio di Casale Monferrato, dove terminava i suoi verdi anni nella pace dì Dio. Il nostro giovinetto poi fu istruito, e crebbe morigerato e pio, a D. Bosco affezionatissimo.
Un mattino D. Bosco incontrò un giovanetto coi panni che gli cadevano a brandelli, bagnato dalla rugiada della notte, seduto presso il fosso di un viale, tremante dal freddo e coi segni di molti patimenti sul viso.
 - Che cosa fai qui solo?
 - Mio padre ieri mi ha cacciato di casa...
 - Ne avrai fatto qualcheduna delle tue
 - Oh no! Il mio padrone mi congedò dalla fabbrica perchè non ero capace di certi lavori. E lui tornato a casa, furioso afferrò un bastone ed io dovetti fuggire.
 - Come ti chiami?
 - Andrea S...
 - E hai mangiato?
Ed il giovane abbassando la voce: - Ho rubato una pagnotta al panettiere.
 - E se ti mettevano in prigione, poveretto! - E il giovine incominciò a piangere. D. Bosco lo consolò con affettuose parole, lo condusse all'oratorio, e siccome era suo continuo impegno di rendere i giovani sottomessi ai padri, placare questi se erano offesi e far loro chiedere le debite scuse dai figli, mandò D. Giacomelli ad intercedere grazia a nome suo per quel poveretto. Ma il genitore si mostrò duro, irragionevole; e allora D. Bosco pieno di compassione, accrebbe di uno i suoi ricoverati.
Dopo questi, D. Bosco nel 1848 ritirava in casa altri cinque giovani dei più bisognosi, prendendo a pigione altra stanza, sebbene a prezzo esorbitante non essendo ancor libera la casa da tutti gli antichi inquilini. Cosi il numero totale dei ricoverati ascese a 15. Intanto incominciò a dare il nome di un Santo protettore ad ognuno di quei poveri dormitori, o famiglie come esso allora le chiamava, perchè i giovani fossero animati sempre più alle pratiche di pietà e di religione, e i primi furono: S. Giovanni, S. Giuseppe, S. Maria, il Santo Angelo Custode.
Sua madre, nel veder crescere il numero dei ricoverati, e se un posto rimaneva vacante, venir subito occupato da un nuovo giovine, spesso interrogava D. Bosco: - E che cosa vuoi dar loro da mangiare, che non abbiamo nulla? - E D. Bosco scherzando: - Loro daremo dei fagioli: non prendetevi di ciò fastidio. - Altra volta gli aveva detto: - Ma se tu fai sempre così e tutti i giorni mi conduci in casa dei giovani nuovi, non ti resterà nulla per te, quando sarai vecchio. Mi resterà sempre, rispondeva D. Bosco, un posto all'Ospedale dei Cottolengo. Ma se questa mia impresa è opera di Dio, andrà avanti. - E Margherita riposava tranquilla sulla parola del figlio, essendo testimone dei miracoli continui della Divina Provvidenza.
 
 
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