Inaugurazione dell'Ospedaletto di S. Filomena - Opposizioni all'Oratorio degli impiegati nei Molini - La piazza Emanuele Filiberto - Stima del popolo per D. Bosco - Un lepido equivoco - D. Bosco e gli allievi dei Fratelli delle Scuole Cristiane - Il giovanetto Michele Rua
del 24 ottobre 2006
 Il 10 agosto 1845 la Marchesa Barolo inaugurava il suo Ospedaletto di S. Filomena. Dopo averlo provveduto con larghezza di tutto il necessario, l'apriva alle povere ragazze storpie ed inferme, che trovandosi all'età dai tre ai dodici anni difficilmente venivano ricevute negli altri ospedali. Ne affidò la vigilanza a cinque suore di S. Giuseppe, e vi stabilì per l'ufficio d'infermiere le Oblate di S. Maria Maddalena, che formavano, come già abbiamo detto, una speciale Congregazione, con un proprio Superiore Ecclesiastico. È agevole immaginarsi come numerose famiglie povere abbiano avuto occasione di benedire la fondatrice. D. Bosco vi fu destinato a Cappellano o Direttore ed egli col Teol. Borel e D. Pacchiotti, lasciate le stanze fino allora occupate che prospettavano la via ora detta Cottolengo, passarono ad abitare nella nuova casa. Ivi al secondo piano in uno stretto corridoio si aprivano in una sola fila le porte di quattro o cinque camerette colle finestre rivolte a mezzogiorno, destinate per i preti. Un giardino cinto da muro e piuttosto grande era interposto tra questa casa e la prima loro abitazione; e quivi le piccole inferme venivano o condotte o trasportate dalle suore a respirare alquanto d'aria pura. Era ufficio proprio di D. Bosco attendere al servizio divino, all'istruzione e alla direzione spirituale.
Frattanto ai Molassi si passarono tranquillamente due mesi. Ma quella calma precorreva una burrasca che doveva mettere in serie angustie D. Bosco. Anche qui incominciarono le opposizioni e le vessazioni degli uomini: novella prova che l'Oratorio era opera di Dio. I mugnai, garzoni, commessi, carrettieri, segretari e simil gente non volendo tollerare i salti, i canti e talvolta gli schiamazzi dei giovani, incominciarono prima ad inveire dalle finestre contro i disturbatori e poi si collegarono insieme e mossero gravi rimostranze al Municipio di Torino dipingendogli quella radunanza coi più foschi colori. Appoggiati al vedere la prontezza colla quale i giovani si prestavano ad ogni minimo cenno di D. Bosco, presero a dire che quelle riunioni erano pericolose e che da un momento all'altro alle ricreazioni potevano succedere sommosse e anche rivoluzioni. Della sommossa potevano fare giovani ignoranti, senz'armi, senza danari! Ciò non ostante, le dicerie prendevano incremento. Si aggiunse calunniosamente che i ragazzi facevano guasti in chiesa e al selciato del cortile, e che se avessero continuato a raccogliersi in quei dintorni, avrebbero messo a soqquadro ogni cosa; instavano in fine che si interdicesse loro l'uso della chiesa e il permesso di recarsi in quel luogo. D. Bosco nella relazione al Sindaco era qualificato come un capo banda di sfaccendati monelli da trivio.
I Signori della città, un po' risentiti, mandarono a chiamare D. Bosco e gli chiesero se fosse vero quanto era stato ad essi riferito. Egli, calmo e sereno, rispose non saper di nulla e credere ingiuste quelle accuse; si degnassero di andare o mandare a verificar le cose; sè essere sicuro non vedersi alcun guasto nella chiesa. I sindaci mandarono un perito, il quale, contrariamente a ciò che gli avevano affermato i custodi dei Molini, trovò chiesa, muri, selciati, pavimento e tutte le cose nel primiero stato. Solamente una scalfittura compariva sopra di un muro fatta da un ragazzo colla punta di un chiodo. Per questa bagatella si faceva un chiasso del finimondo, e s'invocava l'autorità del Municipio come se la città avesse da sobbissare.
 - Io accusato di far rivoluzioni! diceva D. Bosco sorridendo mentre raccontava anni dopo questo fatto a' suoi amici; io che invece ho il merito di averne impedita una di quelle che sarebbe riuscita molto fragorosa, la rivoluzione delle donne! - E quindi descriveva un lepido avvenimento di quel tempo accaduto nella piazza Emanuele Filiberto. Questa piazza forma un vastissimo ottagono regolare, tutto circondato da edifizii; ed è l'emporio di ogni specie di merce, un mercato giornaliero. Qui si vendono lini, canape, sete, cotoni, lane, tele, panni, calzamenta, cappelli; ogni varietà di abiti fatti; ogni sorta di attrezzi per l'agricoltura e di ferramenta; recipienti di metallo, di vetro e di terra cotta di ogni forma e misura; ogni qualità di frutta della stagione, di frutti secchi, di legumi, cereali, cacciagione, pollame, pesci, vivande già preparate, quanto insomma è necessario alla vita. Due larghe strade, intersecandosi nel centro, a forma di croce, attraversano quel mercato il quale, così ripartito in quattro borghi di tettoie, di tende, casotti, banchi, carriole, suddivisi essi stessi, da comode vie e da stradicciuole, presenta l'aspetto più bizzarro che si possa ideare. La strada che scende verso al nord esce a mezzogiorno da un largo spazio quadrato cinto da tre lati di alti portici, detto piazza Milano e anche Porta palazzo, perchè poco distante avvi il palazzo dei Re; all'estremità opposta la stessa via entra in un altro spazio quadrato senza portici denominato piazza dei Molini, ove era l'Oratorio di D. Bosco.  
Queste piazze più piccole formano un sol tutto colla piazza principale, nella quale a centinaia e centinaia sono i venditori, e i compratori accorrono da ogni parte della città, specialmente per rifornirsi di viveri. Dal mattino fino ad ora assai tarda vi regna un meraviglioso e animatissimo via vai. Se aggiungi i carri degli ortolani che arrivano dai paesi circonvicini carichi di derrate, la folla di contadine coi loro canestri schierate nelle adiacenze, i giocolieri, i cantastorie, i ciarlatani, le fioraie, e in quei tempi i barbieri che all'aria aperta sbarbavano i cristiani e pelavano i cani; i gruppi dei curiosi sfaccendati, e le turbe di fanciulli che scorrazzano per ogni verso, avrai una descrizione abbastanza completa. I banchi sono tenuti nella maggior parte dalle mercantesse che vi siedono come regine nel loro regno. Con loro non si scherza perchè sentono la loro dignità di cittadine. Secondo antichissime tradizioni non solo esigono rispetto, ma non tollerano altro appellativo che il Lei o quello di Madama. Se qualche compratore desse loro del tu o del voi, si sentirebbe rispondere subito di ripicco: - Signore! non ho mai condotte le capre al pascolo in vostra compagnia! Del resto bravissime popolane, divote di Maria SS. Consolatrice, e di cuore largo per i poveri. Il Cottolengo e altre opere pie, bisognose di carità, le provarono sempre generose. Chi girava fra di loro a far la colletta ritornava al suo Ospizio col carretto colmo di commestibili.
Il lettore ci scuserà di questa digressione; ma era necessario rappresentargli questa piazza e i nomi delle sue parti, perchè fu teatro di varie belle azioni di D. Bosco, che a suo tempo racconteremo.
D. Bosco, adunque, era conosciuto in quel mercato, e le donne naturalmente facevano un gran parlare della cura che egli prendevasi dei figli del popolo, delle radunanze numerose alla Cappella dei Molini; tanto più che di quando in quando andava a comperare frutta in gran quantità per regalarne i suoi giovani. Nello stesso tempo già molti ammiravano la sua virtù. Prova indiretta di questa stima la porge un suo proponimento scritto da lui nel 1845 nelle brevi Memorie ai miei figli i salesiani: “Siccome giunto in segrestia per lo più mi si fanno tosto richieste di parlare per aver consiglio, o di ascoltare in confessione, così prima di uscire di camera procurerò sia fatta una breve preparazione alla S. Messa. Il lavare delle mani si faccia sempre in camera, e quando il tempo lo permette si rinnovi nella sagrestia”. Da questa nota argomentiamo che molte fossero le persone che lo attendevano a S. Francesco d'Assisi, al Rifugio, e in altre chiese della città e dintorni, quando vi si recava per celebrare il santo sacrificio; così pure nelle parrocchie della provincia quando era invitato a predicarvi. D. Rua poi ci afferma che egli fin da fanciulletto udiva parlare della santità di D. Bosco in mezzo ai crocchi dei popolani e nella propria famiglia.
Ritornando ora a quel lepido avvenimento al quale abbiamo accennato, diremo come in Torino avesse presa stanza il conte Rademaker, ricchissimo signore portoghese, fuggito dalla sua patria per torbidi politici e poi, accomodate le cose, Ministro dei Portogallo presso la Corte Sabauda. Sua consorte era quella Dama che D. Bosco aveva un giorno prevenuta del pericolo che avrebbe incontrato sullo stradone di Chieri. Due figli formavano la loro consolazione per esemplare ed illibata condotta. Il più giovane entrava poi tra i religiosi di S. Ignazio di Loiola, e l'altro era già sacerdote. Questi, essendo pieno di scrupoli che lo agitavano fuor misura, dall'Arcivescovo e da D. Cafasso era stato affidato a D. Bosco, affinchè, coll'insegnamento teologico della morale pratica e con una saggia direzione, lo liberasse da tante angustie di spirito. Egli aveva quindi stretta grande amicizia con questa nobilissima famiglia veramente cattolica ed eziandio colle persone di servizio.
Il maggiordomo, di nome Carvallo, tutte le mattine andava in piazza Emanuele Filiberto a fare la spesa. Costui, non intendendo la lingua del paese, si era procurato un vocabolario portoghese ed italiano, che portava sempre in saccoccia, per cercare le parole necessarie a farsi più o meno capire, stantechè le mercantesse parlavano il loro dialetto. Aggirandosi pel mercato, sovente aveva udito ripetere dai facchini e da mulattieri un certo motto che gli sembrava ora un'esclamazione, ora un termine vezzeggiativo, ora un saluto, secondo l'espressione che gli pareva di leggere sui volti di coloro che lo pronunziavano. Desideroso di conoscerne il senso e di fare qualche progresso nel dialetto piemontese, domandò a qualcuno il significato di quella parola. L'interrogato, che era un buffone e amava ridere alle spalle del prossimo, gli rispose essere quello un grazioso complimento col quale si esternava la propria stima e il proprio rispetto alle persone. Ma pur troppo era quella una parolaccia che aveva più sensi e specialmente suonava insulto. L'indomani Carvallo ritornato in piazza, e presentandosi alle venditrici incominciò, salutandole, a spifferare il suo complimento. Si può immaginare il viso che gli fecero quelle brave donne. Per un po' ebbero pazienza, ma siccome ad ogni istante ripeteva la sua frase, finalmente gli dissero stizzosamente: - Ca dia, Monsü; ca parla ben, salu! - Dica, signore! Parli bene! - Carvallo nulla capiva di simile gergo; tuttavia, vedendole colle mani sui fianchi e colle faccie irose, sospettò di essere caduto in, equivoco, e incontrato D. Bosco che attraversava la piazza, gli chiese il significato della famosa parola.
 - Perchè questa domanda? Chiese D. Bosco.
 - Perchè le mercantesse, quando loro dico tale parola, si fanno scure in viso e non mi trattano più col garbo di prima.
 - Sfido io! E un'ingiuria delle più villane.
 - Oh povero me! Esclamò il maggiordomo; e ritornando, sul mercato, voleva che D. Bosco lo accompagnasse per dir sua ragione, sapendo quale stima le mercantesse avessero di lui; e faceva le sue scuse passando da un banco all'altro. Le donne però facilmente si persuasero, che Carvallo essendo, straniero, non aveva inteso d'insultarle con quello sproposito, e furono tanto più facili a perdonargli in quanto che egli poi non lesinava nei contratti, anzi pagava la merce più di quello che valesse, non guardando il suo padrone alla spesa. Era divenuto un negoziante unico nel suo genere, quanto fu capace di tenere un discorso intelligibile.
 - Quanto costa questo? talora chiedeva.
 - Una lira.
 - Così poco?
 - È il suo prezzo.
 - Quanto volete di più
 - Oh bella! mi dia quel che le piace.
 - Vi do tre lire: siete contenta?
 - Contentissima! - E così divenne l'idolo dei mercato. Il principio però di questa specie di riconciliamento si doveva attribuire all'azione pacificatrice dei nome di D. Bosco, e questo fatto cagionò viva ilarità a quanti ne ebbero notizia, e allo stesso figlio scrupoloso del Conte Rademaker.
Ma quella piazza non ricordava a D. Bosco solamente un, argomento di riso, sibbene eziandio un altro incontro, incancellabile dal suo cuore. Ai Molassi egli vide la prima volta il giovanetto Michele Rua, che allora contava soli anni otto, allievo dei Fratelli delle Scuole Cristiane. A questi Religiosi nel 1830 erano state affidate le scuole dell'Opera pia della mendicità istruita e quelle del Municipio di Torino. Tra essi D. Bosco aveva iniziato il suo ministero sacerdotale e lo continuava per più anni oltre al 1851, come ci attesta il Prof. Turchi Giovanni che nella sua gioventù ne sentiva parlare da D. Bosco stesso. Egli recavasi tutti i sabati in tali scuole, specialmente in quelle di Santa Barbara, e vi si intratteneva una buona ora, facendo una specie di conferenza sulla religione. Era suo fine esortare i giovanetti alla frequenza, de' Sacramenti ed a confessarsi bene.
Rua Michele, che sedeva su quei banchi prese subito ad amarlo, e raccontava più tardi: - Mi ricordo che quando D. Bosco veniva a dirci la santa Messa e non di rado a predicare nelle domeniche, appena entrava in cappella, pareva che una corrente elettrica muovesse tutti que' numerosi fanciulli. Saltavano in piedi, uscivano dai loro posti, si stringevano attorno a lui e non erano contenti sinchè non arrivassero a baciargli le mani. Ci voleva un gran tempo perchè egli potesse giungere in sagrestia. In quei momenti i buoni Fratelli delle Scuole Cristiane non potevano impedire quell'apparente disordine e ci lasciavano fare. Venendo altri sacerdoti, anche pii ed autorevoli, nulla si vedeva di tale trasporto. Quando poi nelle sere di confessioni si annunziava che tra i confessori venuti per noi vi era anche D. Bosco, gli altri preti rimanevano senza occupazione, tutti i giovani cercando di andare da lui a confidargli i loro segreti. Il mistero dell'attaccamento che avevano a D. Bosco consisteva nell'affetto operoso, spirituale, che sentivano portar egli alle loro anime.
Un giorno adunque nell'agosto del 1845 un compagno del fanciulletto Rua aveagli parlato dell'Oratorio al Rifugio, facendogli vedere la cravatta che eragli toccata in sorte, in una di quelle piccole lotterie colle quali D. Bosco soleva rallegrare le ricreazioni. Così invogliatolo, ambedue di corsa vennero al Rifugio. Ma D. Bosco proprio in quei giorni aveva trasportato l'Oratorio ai Molassi. I due amici si recarono tosto colà e furono accolti con modi così amorevoli, che Rua Michele ne rimase incantato. D. Bosco aveva innanzi a sè il designato dalla divina Provvidenza ad essere continuatore della sua missione. Il giovanetto nei tre anni seguenti andò solo qualche volta all'Oratorio, o al Rifugio, a visitare D. Bosco, il quale però da quel primo istante più non lo perdette di vista.
 
 
 
 
 
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