Maniera di vita dei primi ricoverati - Refettorio romantico - Il cucchiaio in tasca - Il pane e i soldi per comprarlo - Il discorsetto alla sera - L'esercizio di buona morte - Visita ai laboratori - Premiazione per voto comune - Le scuole e i mestieri - Il lepido cuoco - Il Padre adottivo - I giovani dopo il pranzo e la cena di D. Bosco - La prima parola sulla Patagonia.
del 10 novembre 2006
 Non sarà discaro al lettori sentire la maniera i vita dei primi giovani ospitati da D, Bosco. Nei primi giorni dal loro ingresso egli li tratteneva in casa, insegnava loro le orazioni, li istruiva nelle verità della religione, li preparava ad accostarsi ben presto ai Sacramenti. Assicuratosi della loro buona volontà e condotta, pensava a qual mestiere potessero applicarsi. Quindi li collocava in città presso capi di laboratorio, che erano da lui conosciuti come oneste persone e buoni cristiani. Egli stesso con grande bontà li accompagnava per la prima volta, presentandoli ai padroni ed assicurandosi che loro non sarebbe mancata una coscienziosa vigilanza. Nell'interesse dei giovani patteggiava che fossero ben trattati ed istruiti nell'arte. Non cercava tanto la retribuzione, quanto la sicurezza che non sarebbero stati da nessuno indotti al male e che gli altri operai non avrebbero mai proferite bestemmie, o discorsi osceni. Voleva soprattutto che fosse impedita l'offesa di Dio. Così continuò eziandio quando il numero dei giovani era cresciuto d'assai.
L'orario della giornata si ripartiva con questa norma: Al mattino alzati di letto, più o meno di buon'ora, secondo la stagione, e fatta pulizia, discendevano in cappella, ascoltavano la Messa di D. Bosco, il quale pur con suo gran disagio, sempre scendeva in chiesa anche nel più freddo inverno. Si recitavano durante la medesima le orazioni e la terza parte del Rosario, e si finiva con una breve lettura spirituale. Alcuni di maggior pietà facevano anche la santa Comunione. Affinchè tutti avessero comodità di compiere questo atto solenne, D. Bosco o alla sera o al mattino per tempo si prestava di buon grado ad ascoltare le confessioni di coloro che desiderassero di riconciliarsi. Questo ad esempio di lui si pratica tuttora in tutte le case salesiane, con immenso vantaggio spirituale e conforto dei giovanetti.
Terminata la Messa, ognuno si recava in città presso il rispettivo padrone, lavorando chi da sarto, chi da calzolaio, chi da falegname, legatore, muratore, e via via, perchè non si ebbero i laboratori interni se non nel 1856. A mezzodì tornavano a casa pel pranzo. Allora ciascuno, dato di piglio ad una scodella o ad un pentolino di terra cotta, si accostava al paiolo, che fumava sul focolare o era stato posto sopra uno sgabello presso la porta d'entrata; e la buona mamma Margherita, e sovente Buzzetti Giuseppe, e talora lo stesso D. Bosco colla mestola alla mano distribuiva la minestra. Questa consisteva per lo più in riso e patate, talora paste e fagioli e più sovente castagne bianche cotte insieme con farina di meliga, che formava un intriso, manicaretto per i giovani ghiottissimo. Anche la polenta la si metteva nella scodella, ma in quel caso o la si spruzzava di cacio grattugiato, o la si aspergeva con qualche intingolo, lasciandovi scorrere talvolta un pezzettino di salsiccia o di merluzzo cotto, soprattutto nelle principali solennità, talora mentre si scodellava, ad una finestra a pian terreno compariva D. Bosco, tenendo in mano un pomo e additandolo ad un giovanetto il quale contento si arrampicava al davanzale per riceverlo. Tutto spirava la più schietta allegria in quella poverissima casa, e quando D. Bosco, data la benedizione al cibo, augurava ai suoi figli il buon appetito, scoppiava una delle più gioviali risate, perchè vedevano da sè di non aver bisogno di simile augurio.
Romantico poi il refettorio. Nelle belle giornate, dispersi qua e colà nel cortile, a gruppi di tre o quattro, alcuni soli, seduti quale sopra una trave, quale sopra un sasso o un ceppo d'albero, questi su di una panca, quelli sulla nuda terra, davano fondo a quel ben di Dio, che loro somministrava la industriosa carità di D. Bosco. Nei casi d'intemperie mangiavano presso la stessa cucina e seduti sul pavimento di una stanza, e alcuni sui gradini della scala e altri nel dormitorio. E per bere?... scaturiva là presso una sorgente di acqua freschissima, e quella, senza costo di spesa, era la loro botte e la loro cantina.
Pranzato che si aveva, ciascuno lavava la sua scodella e la riponeva in luogo sicuro. Ma d'inverno, quando faceva molto freddo e si provava ripugnanza a mettere le mani nell'acqua, i giovani, con una partita di giuoco, facevano decidere dalla sorte chi dovesse lavare la propria scodella, e il perdente talora ne risciacquava due, tre ed anche di pi√π.
Ognuno era poi il custode dei suo cucchiaio. Perdutolo, se lo doveva provvedere a sue spese; quindi lo si guardava gelosamente. A questo fine, non avendosi in refettorio cassetto a parte, ciascuno per lo più se lo metteva in tasca. Al qual proposito accadde una volta un episodio, che riscosse le risa più saporite. Un certo Conti Paolo, andando a scuola in città, si lasciò tra i suoi condiscepoli cadere di tasca il celebre arnese. A quella vista fu unanime l'esclamazione: Oh! Un cucchiaio! e tutti si diedero a ridere e a celiare a spese di lui. Il giovane Conti, come se il portare il cucchiaio fosse la cosa più naturale ed ovvia del mondo, senza scomporsi rispose: Oh! Volete che io venga a scuola senza cucchiaio? Ciò detto, con tutta gravità lo raccoglie e lo rimette in tasca meglio assicurato.
Ad un'ora e mezza si ritornava al lavoro. La sera, rientrati in casa, si cenava da tutti, mangiando di bel nuovo una scodella od un pentolino di minestra. Talvolta alcuni erano trattenuti dai padroni nella bottega, e le galline salivano sulla tavola per beccare nelle scodelle. I giovani che stavano osservando, avvisavano mamma Margherita, che per un istante aveva rivolti gli occhi altrove, e facevano le risa pi√π cordiali, dicendo che quelle galline erano inviolabili come i deputati al Parlamento.
Fin qui non ho parlato dei pane. Si ha da sapere che in quel principio D. Bosco, invece di somministrarlo a tavola, ogni sera, radunati in refettorio i suoi artigiani, distribuiva a ciascheduno 25 centesimi affinchè se lo provvedesse giorno per giorno. “ Nei suoi occhi, diceva D. Reviglio, brillava allora un raggio così caro ed amorevole con un sorriso così soave, che dopo cinquant'anni io l'ho sempre presente, non posso dimenticarlo, e mi riempie ancora oggigiorno di consolazione. Egli in quel mentre soleva dirci La Divina Provvidenza li dà a me, ed io li dò a voi.
Con tale somma quotidiana, ognuno al mattino uscendo in città si comperava quel tanto di pane che gli occorreva. Quei di buona bocca si provvedevano pane inferigno, o biscotto da soldato; i più delicati tendevano al pan buffetto. Chiunque per altro sapeva regolarsi, ne aveva non solamente a sufficienza, ma in quei tempi di cuccagna essendo le derrate a buonissimo prezzo, poteva ancora risparmiare un soldo per comperarsi un po' di pietanza. Talora qualcuno si comprava una bottiglietta d'olio e d'aceto e D. Bosco gli permetteva di raccogliere erbe nell'orto per farsi una insalata. Per la domenica però si aggiungevano sempre altri cinque centesimi per il companatico. Ai migliori, e che non sprecavano, D. Bosco dava al sabato tutta la somma fissata per l'intiera settimana. Tale usanza durò fino al 1852. In questa guisa i giovani imparavano a divenire buoni massai e savii economi, avvezzandosi fin d'allora a sapersi regolare, quando si fossero trovati liberi di sè in mezzo al mondo. E ne avevano bisogno. Basti dire che uno di quei primi ricoverati vendette il materasso per otto soldi. Fortuna volle che D. Bosco venisse a saperlo. Egli fece ben tosto rescindere il contratto, dando al venditore una buona lezione di economia e al compratore una di giustizia.
Durante la cena si raccoglievano presso l'ospizio i molti giovanetti che frequentavano l'oratorio festivo, e ad una certa ora, dopo che gli alunni interni eransi alquanto ricreati con alcuni giuochi, incominciava la scuola serale. Il campanello aveva già fatto il giro dei prati suonando a raccolta per gli esterni. Con una breve preghiera si dava principio e termine ad ogni occupazione di studio e di lavoro. D. Bosco, come altrove abbiamo notato, vigilava sulle varie classi e nel tempo stesso faceva scuola. Talora, non avendo potuto cenare prima, assisteva ed insegnava mangiando e specialmente ai ricoverati. Quindi l'avreste veduto col boccone tra i denti correggere questo che leggeva male, addestrare a far conti quell'altro che ignorava la tavola pitagorica, accomodare la penna tra le dita a chi incominciava esercizi di scrittura. La scuola si faceva tutte le sere, e durava circa un'ora. Si eccettuava il sabato, affinchè ognuno avesse comodità di andarsi a confessare. D. Bosco diceva non aver trovato nessun altro mezzo, migliore per allontanare i giovani dal vizio ed avviarli alla virtù, che la confessione settimanale.
Finita la scuola, i giovani esterni si recavano alle rispettive case e gli interni, raccolti, recitavano insieme con D. Bosco le orazioni. Augurata poscia la buona notte a colui che loro faceva da padre, e ricevutone un grazioso contraccambio, andavano in cerca del loro letto, che il sonno, la stanchezza e soprattutto la gioia del cuore rendevano soffice e come sprimacciato, quantunque non fosse per i più che un saccone pieno di foglie o di paglia, disteso su due assi, sostenuti da pochi mattoni. L'oratorio era allora una vera famiglia. Al sabato si ritardava l'ora di andare al riposo. Quando alla domenica non vi erano speciali solennità, egli tornava a casa tardi dopo aver sbrigati molti affari che aveva in Torino, e si metteva a confessare verso le nove dopo che i giovani avevano cenato; questi lo aspettavano pazientemente poichè le loro confessioni non finivano prima delle 11 o 11 e mezzo. E così si continuò fino al 1856. Il mattino della Domenica era intieramente consacrato a confessare gli esterni.
Con varie industrie egli cercava di addestrarli ad essere perseveranti nel ben operare. E in primo luogo col far loro di quando in quando un breve sermoncino famigliare alla sera subito dopo terminate le orazioni. Egli dava gli avvisi occorrenti pel buon andamento della casa, raccontava qualche fatto edificante, oppure li intratteneva con una piccola istruzione per inculcare i buoni principi di pietà e di moralità. Sempre in guardia perchè i suoi giovani non avessero a prendere nessun cattivo esempio, loro raccomandava di stare ben guardinghi nell'uscire fuori dall'oratorio o nel ritornarvi e di fuggire le cattive compagnie: Valdocco era un luogo dei più deserti e più pericolosi della città. Dava loro eziandio savi consigli sul modo di comportarsi presso i padroni. Insisteva perchè attendessero bene al mestiere da cui dovevano poi ricavare il necessario sostentamento. E aggiungeva: - La preghiera, ecco la prima cosa; e colla preghiera il lavoro: chi non lavora non ha diritto di mangiare. Ma insisteva molto che si praticassero con fedeltà gli esercizi di devozione, senza badare ai bisogni del lavoro. Inculcava ed otteneva che si distinguessero per la devozione in chiesa, per la diligenza e docilità nelle officine e per moralità in tutta la loro condotta. Dissipava eziandio qualche cattiva impressione che si era accorto aver essi ricevuta lungo la giornata. Perciò s'informava delle cose che avevano udite e se avessero corso pericoli, e sapeva in bel modo correggere le storte massime udite e dare opportuni consigli per preservarli da ogni scandalo, e li premuniva contro gli errori del giorno, sicchè potessero rispondere a quelli che spropositavano in materia di religione. Nell'intento eziandio di sempre meglio educarli, li ammaestrava intorno a tutte la sacre solennità, ed alla vigilia di queste dava un cenno della festa che si sarebbe celebrata, cosicchè quasi senza avvedersene l'animo loro rimaneva imbevuto dello spirito della Chiesa. Non lasciava mai passare alcuna festa del Signore o di Maria SS. senza preparare i giovani a celebrarla devotamente coll'accostarsi ai santi Sacramenti.
E siccome la frequenza a questi era il fine di tutte le sue sante industrie, perciò prima della Messa non permetteva mai alcun giuoco; dava tutta la comodità di confessarsi, ogni giorno vi erano alcune comunioni e alla Domenica pressochè tutti si accostavano alla sacra mensa. D. Bosco aveva stabilito il principio: La frequente Comunione e la Messa quotidiana sono le colonne che devono reggere un edificio educativo.
Metteva eziandio una cura speciale affinchè i giovani si facessero una esatta idea delle indulgenze e delle condizioni necessarie per acquistarle, e qualche giorno prima delle solennità dava l'annunzio di quelle che si potevano lucrare, specificando ogni qual volta erano applicabili alle anime del purgatorio.
Un altro mezzo efficacissimo fu l'esercizio di buona morte.
Appena ebbe giovani interni, fece loro prendere parte cogli esterni a tale esercizio, e poi li divise assegnando sul principio l'ultima domenica del mese per questi, e la prima a quelli dell'oratorio festivo. Loro insegnava a farlo in modo proficuo. Li esortava a disporre tutti gli affari spirituali e temporali come se in quel giorno dovessero presentarsi al tribunale di Dio e coi pensiero di una chiamata improvvisa all'eternità. Alla sera della vigilia inculcava che riflettessero come avevano passato il mese antecedente, e che il domani mattino si confessassero e comunicassero come se realmente fossero in punto di morte.
Agli amatori del mondo parrà che il ricordo della morte dovesse riempire di funesti pensieri la fantasia dei giovanetti; eppure questo era la cagione della loro pace e della loro allegrezza. Ciò che turba le anime è l'essere in disgrazia di Dio: togliete il peccato e la morte non fa più paura; perciò diceva loro D. Bosco: “ Quando il giusto muore, quel Dio che egli ha servito ed amato, corre in suo soccorso, colla Vergine SS. e lo conforta nell'agonia, lo riempie di coraggio, di confidenza, di rassegnazione e lo conduce trionfante in paradiso ”.
E l'effetto delle sue parole era quale esso desiderava, tanto più che i giovani erano eccitati dal suo esempio. Talvolta, per allettarli colla varietà, sceglieva in giorno feriale luoghi fuori dell'oratorio per fare la comunione e recitare le preghiere prescritte, conducendoli a qualche chiesa in campagna e quando erano ancor pochi, eziandio nell'oratorio privato di famiglie devote e benefattrici.
E a proposito della morte di quando in quando parlando alla sera ripeteva al giovani un avviso importantissimo, che era argomento eziandio delle sue prediche: “ Siccome, o cari figli, potrebbe succedere che doveste passare da questa all'altra vita con una morte subitanea, o per una qualche disgrazia, o per una malattia che non vi lasciasse tempo a chiamare un prete e ricevere i santi sacramenti, così vi esorto a fare sovente durante la vita, anche fuori della confessione, anzi tutti i giorni, atti di dolore perfetto dei peccati commessi e atti di perfetto amor di Dio, perchè anche un solo di tali atti, congiunto col desiderio di confessarsi, basta in ogni tempo e specialmente negli estremi momenti a cancellare qualsiasi peccato e introdurvi in paradiso ”. E colle statistiche alla mano loro faceva apprendere quanto grande fosse il numero dei cristiani che in punto di morte non potevano ricevere i sacramenti: loro spiegava la natura del dolore perfetto, e dimostrava la facilità di ottenerlo, essendosi dalla creazione di Adamo alla venuta del Salvatore, tutti i peccatori, a milioni e milioni, salvati con l'atto di contrizione perfetta.
Con queste sante industrie si adoperava nel sorvegliarli continuamente anche fuori di casa.
Era suo costume di portarsi tutte le settimane ora dall'uno ora dall'altro dei padroni di officina o di bottega, per vedere con i  propri occhi e per informarsi minutamente della condotta e del profitto nel mestiere de' suoi giovani. Quando aveva buone notizie, per incoraggiarli, regalava loro qualche coserella perchè avessero un po' di peculio da spendere in certe occasioni, p. es. di passeggiata. Li raccomandava intanto con insistenza alla vigilanza dei capi. Faceva loro capire che se egli procurava che i giovani apprendisti fossero docili e laboriosi, i padroni dovevano altresì dal canto loro, aver cura di ben istruirli nel loro mestiere e di tener lontano da essi ogni scandalo. Così egli riusciva a far del bene agli uni ed agli altri. Se qualcuno maltrattava i suoi figli, ne prendeva con fermezza la difesa, volendo che fossero trattati bene e che eziandio verso di loro, benchè piccoli, fosse rispettata la virtù della giustizia. Se in un laboratorio scorgeva pericoli per l'anima o per il corpo, risolutamente li cambiava di padrone. E del nuovo padrone cercava sempre informazioni, incaricandone più volte alcuni suoi amici, volendo notizie certe della loro condotta morale, dell'abilità nell'arte e se santificassero le feste. Quando non poteva egli stesso far nuove ispezioni, mandava altri di sua confidenza; e appena ebbe dei chierici, eziandio questi incaricò di tale vigilanza. Con lo stesso zelo continuava ad assistere nelle officine i giovani esterni dell'oratorio festivo, i quali conservandosi buoni e laboriosi formarono la propria felicità.
Sapeva eziandio destare l'emulazione ne' suoi ricoverati. A stimolo ed anche a guiderdone di buona condotta Don Bosco stabiliva e introdusse poi una lodevole pratica, che rimase in vigore per molti anni, e fu la premiazione ai reputati migliori per voto comune. La distribuzione dei premi si faceva per ordinario alla sera della festa di S. Francesco di Sales a studenti ed artigiani. Nella settimana innanzi ognuno dei ricoverati scriveva sopra un foglio di carta il nome di un dato numero di compagni, che a suo giudizio gli parevano di più specchiata condotta religiosa e morale, e lo consegnava a D. Bosco. Questi ne faceva lo spoglio, e i sei, otto, dieci od anche più giovani, che ricevevano più voti, ossia che si trovavano più degli altri scritti nelle singole liste, venivano letti in quella sera e premiati alla presenza di tutti. È degno di considerazione che il giudizio dato dal compagni riusciva ogni volta così giusto ed assennato, che migliore non sarebbe riuscito quello dei superiori stessi. Nessuno infatti è più atto a conoscerci di chi ci frequenta, ci usa insieme alla famigliare, e senza che ce ne accorgiamo, ne spia le azioni e le parole.
Non dobbiamo passare oltre nel nostro racconto senza far cenno dei vari mestieri che D. Bosco stesso esercitava in questi tempi. Anzitutto mentre gli artigiani stavano occupati in città, egli in casa in date ore del giorno continuava a far da maestro ad alcuni giovani di Torino, che mostravano maggior attitudine allo studio e lo venivano aiutando nell'oratorio festivo e nella scuola serale. Con un metodo tutto suo e con una pazienza più unica che rara, egli in poco tempo li rese capaci ad intraprendere onorate carriere, o a condurre egregiamente i negozi di loro famiglia. In altro tempo, come asseriva D. Reviglio, dava lezioni di teologia ad alcuni chierici, mantenendo così la promessa fatta all'Arcivescovo.
Nelle sere d'inverno e d'autunno alcuni dei suoi allievi tornando a casa al tramonto del sole, e altri non comparendo se non due o tre ore dopo, secondo portavano le esigenze dei rispettivi mestieri, D. Bosco cercava di dare ai primi venuti una proficua occupazione, perchè non oziassero. Buzzetti Giuseppe ci dipingeva una scena degna di un quadro fiammingo. Si radunavano tutti in cucina... Dalla soffitta pende un lume. In un angolo siede mamma Margherita, intenta a cucire una giubba. A cavalcioni di una panchetta un giovane appoggiato al tavolino scarabocchia il suo quaderno. Vicino
a lui un suo compagno studia la lezione col libro in mano e un altro recita ad alta voce alcune risposte del catechismo. In disparte quasi all'oscuro appoggiato alla parete un garzone fa stridere un suo vecchio violino. Presso alla porta nella stanza vicina si ode chi pesta i tasti della spinetta e pi√π innanzi alcuni fanciulli eseguiscono colle carte in mano un pezzo di musica, rivolti a D. Bosco, il quale nello sfondo della scena, tolta dal fuoco la pignatta, segna la battuta col matterello fumante per la rimestata polenta.
Ma ciò non basta: egli si dava in casa a più altre occupazioni. Non potendosi fidare di prendere gente di servizio, con sua madre faceva ogni lavoro domestico. Mentre Margherita si occupava della cucina, presiedeva al bucato, adattava e cuciva la biancheria e accomodava gli abiti logori, egli attendeva a tutte le più minute faccenduole. D. Bosco in questi primi anni, facendo vita comune coi giovani, allorchè non si muoveva di casa era pronto ad ogni servigio. Al mattino insisteva perchè i giovani si lavassero le mani e la faccia; ed egli ai pettinare i più piccoli, a tagliare loro i capelli, a pulirne i vestiti, assettarne i letti scomposti, scopare le stanze e la chiesuola. Sua madre accendeva il fuoco ed egli andava ad attingere l'acqua, stacciava la farina di meliga o sceverava la mondiglia dal riso. Talora sgranava i fagioli e sbucciava pomi di terra. Egli ancora preparava sovente la mensa per i suoi pensionarii e rigovernava le stoviglie ed anche le pentole di rame che in certi giorni si faceva imprestare da qualche benevolo vicino. Secondo il bisogno fabbricava o riattava qualche panca perchè i giovani potessero sedersi; e spaccava legna.
Per risparmiare spese di sartoria tagliava e cuciva i calzoni, le mutande, i giubbetti e con l'aiuto della madre in due ore un vestito era fatto. Nella notte poi, allorchè i giovani dormivano, andava per le camere raccogliendo quegli abiti che aveva visti sdruciti, e ne faceva le richieste riparazioni.
Se qualcuno cadeva ammalato, egli subito ordinava che fosse chiamato il medico e provvedeva quanto era necessario; e gli prestava ogni assistenza, servendolo come infermiere. Se era impedito gli destinava un compagno che esercitasse tale pietoso ufficio e fu il primo Felice Reviglio; e sempre che poteva si recava soventissimo a visitarlo di giorno e di notte.
Il genovese Cigliutti narrava alcuni anni dopo a Villa Giovanni: “ Il cuore paterno di D. Bosco, amante delle umiliazioni, a tutto si acconciava per amore dei giovani e non vi fu lavoro al quale si sia sottratto per farci del bene. D. Bosco ciò eseguiva collo stesso gusto e prontezza con cui faceva scuola o compiva i suoi uffici sacerdotali, persuaso di fare la cosa più naturale del mondo, anzi un suo obbligo ”. D. Bosco ricordava poi sempre con piacere questi primi tempi, che formavano uno dei più vaghi oggetti della sua fantasia. Narrava come più volte facesse cuocere la minestra, e contentasse i giovani con una spesa due volte più modica di quella solita a farsi giornalmente. I giovani erano rapiti all'ammirazione nel vederlo cinto di un grembiale e fare da cuoco. Allora mangiavano con maggior appetito. Loro pareva che la minestra e la polenta fatta da D. Bosco avesse un sapore squisito, e ne domandavano più volte. Servivano di gradita pietanza le amorevoli facezie che loro rivolgeva.
 - To', mio caro, diceva all'uno mangia con appetito, perchè l'ho fatta io - Fa onore al cuoco, e mangiane molta, ripeteva all'altro - Ti vorrei dare anche un pezzo di carne, soggiungeva ad un terzo, se lo avessi; ma lascia fare da me..  appena troveremo un bue senza padrone, voglio che stiamo allegri. - Con queste ed altre tali lepidezze, di cui egli era fecondo, condiva così bene il pranzo e la cena, da far dimenticare ogni companatico. Questo però non mancava nei giorni solenni ed il buon Padre era lieto oltremodo quando con una sorpresa poteva fare qualche aggiunta straordinaria all'ordinario vitto quotidiano.
Le sollecitudini di ogni sorta, e a costo di gravi sacrifici, che egli impegnava in favore dei suoi figli non si possono descrivere in poche parole.
Il Teol. Ignazio Vola ne era ammirato, ed essendo testimonio di quanto D. Bosco faceva non solo per gli alunni, ma eziandio per gli esterni, esclamò: - D. Bosco si sviscera per i suoi figliuoli! - E D. Giacomelli, che udì queste parole e a noi le riferiva, aggiungeva: - Io credo e sono persuaso che questa espressione avesse nulla d'esagerato. Quanti giovani conobbero che cosa fosse amor di padre solo da quando s'incontrarono con D. Bosco!
D. Bosco s'intratteneva sempre volentieri con i  suoi ricoverati per cogliere il destro di indirizzar loro un consiglio, una parola amica, un avviso, un incoraggiamento. In questa guisa, mentre loro educava il cuore, e ne migliorava la condotta, faceva loro passare allegramente la vita. Quindi, sebbene gran parte di essi fossero poveri orfanelli nondimeno pareva a tutti di trovarsi tra le gioie della famiglia. Tanta era la bontà del padre adottivo!
Egli trattava tutti i suoi giovani senza parzialità, colle medesime dimostrazioni di benevolenza. Li amava tutti egualmente, e, per evitare fra di loro ogni gara, li assicurava di tratto in tratto di questa sua eguaglianza d'affetto. E ben la dimostrava con l'interessarsi pel bene spirituale e temporale di ognuno di essi, con l'ascoltarli pazientemente non solo in confessione, ma anche in ogni circostanza che ne lo richiedessero. E tutti erano persuasi di essere amati indistintamente, e nessuno aveva motivo di concepire gelosia ed invidia. Ei desiderava che nei loro cuori regnasse la carità verso il prossimo e pressochè ogni giorno ripeteva quella sentenza dì S. Giovanni: Qui non diligit manet in morte. Li esortava ad essere caritatevoli non solo tra essi medesimi, trattandosi a vicenda con bontà e dolcezza, e perdonando pienamente le offese che uno poteva ricevere dall'altro, ma altresì ad essere generosi verso i poverelli che stentavano in Torino. Di questa carità esso ne dava continuamente l'esempio; perciò regnava tra i giovani la più gioviale concordia e taluni di essi si privavano talvolta di un soldo o di un pezzo di pane, per darlo ad un meschino che per via loro stendeva la mano.
Su questa corrispondenza dei giovani alle insinuazioni di D. Bosco, così si esprimeva ancora D. Reviglio: “ D. Bosco, per poter maggiormente conoscere l'indole dei giovani ed altresì per ispirare loro un grande desiderio di santificazione, permetteva loro di stargli continuamente ai fianchi, cosicchè non aveva ancor terminato il suo frugale pranzo e cena che già essi penetravano nel suo piccolo refettorio e lo circondavano; ed oh con quale compiacenza rammento l'accoglienza che ci faceva il nostro caro padre! Giunti a lui, noi lo stringevamo, e a cento a cento imprimevamo i baci su quella mano che ci beneficava. Malgrado la molestia che gli dovevamo procurare, egli tollerava con bontà gli sfoghi della nostra riconoscenza. Io poi, forse perchè più bisognoso del suo zelo, potei più volte rannicchiandomi sotto la tavola posare la mia testa sulle sue ginocchia. D. Bosco approfittava dì tal tempo o per raccontare qualche esempio edificante o per dir nell'orecchio ora all'uno ora all'altro e quasi a tutti una parola così dolce, che ci infondeva un vero entusiasmo per la virtù e orrore al peccato. Non è esagerazione l'asserire che dopo tale trattenimento, noi uscivamo dalla camera con sempre maggior desiderio di essere buoni ”
Eziandio per questo motivo D. Bosco tutte le Domeniche faceva sedere alla sua mensa i due giovani che per turno gli avevano servita la santa Messa nell'intera settimana, i quali alla fine del pranzo avvicinandosi a lui per ringraziarlo, riportavano sempre l'incancellabile impressione di un santo consiglio.
E giacchè abbiamo fatto cenno dei refettorio, diremo come egli spiegasse quivi un suo pensiero in quest'anno 1848, e lo manifestasse anche negli anni seguenti sedendo a mensa coi suoi primi convittori. Il giovane Bellia Giacomo, che abitava colla sua famiglia in una casa vicino all'Oratorio, dopo aver pranzato si affrettava a portare a D. Bosco i fogli cattolici, gli Annali della propagazione della fede e quelli della santa Infanzia. Sedutosi presso alla mensa, faceva ad alta voce lettura di quei fascicoli che tanto interessavano D. Bosco, il quale dopo aver udito la narrazione delle gesta dei missionari, molte volte esclamava: - Oh! se avessi molti preti e molti chierici, vorrei mandarli ad evangelizzare la Patagonia e la Terra del Fuoco. E sai tu il perchè, o caro Bellia? Indovina!
 - Perchè forse è il luogo dove c'è più bisogno di missionari, osservò Bellia.
 - Hai indovinato; perchè questi popoli finora furono i più abbandonati.
D. Bosco dunque si sentiva già attirare dalla Provvidenza Divina verso quelle lontanissime regioni. - Era il tipo del santo prete, - esclamava D. Savio Ascanio. Se tutto il clero avesse fatto come lui, si sarebbe convertito il mondo universo. Si struggeva dal desiderio di convertire tutti i popoli e di salvare tutte le anime ed in lui era personificato il detto dello Spirito Santo: Zelus domus tuae comedit me.
 
 
 
 
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