Capitolo 36

Lettura e studio dei classici italiani e latini - Amicizia di Giovanni coll'ebreo Giona - Lo converte al Cristianesimo

Capitolo 36

da Memorie Biografiche

del 11 ottobre 2006

Parlando di questi anni di sua vita, D. Bosco così si esprime: “Nel vedermi passare i giorni in tanta dissipazione qualcuno potrà pensare che io trascurassi lo studio. Non nascondo che avrei potuto studiare di più, ma posso assicurare che l'attenzione nella scuola mi bastava per imparare quanto era necessario. Tanto più che in quel tempo io non faceva distinzione tra il leggere e lo studiare e con facilità poteva, ripetere la materia di un libro letto o udito a leggere più, essendo stato abituato da mia madre a dormire assai poco, poteva impiegare due terzi della notte sui libri a piacimento, alla fiammella di una mia lucernetta, e spendere quasi tutta la giornata in cose di libera elezione, come fare ripetizioni, scuole private, cui sebbene spesso mi prestassi per carità o per amicizia, da parecchi però era pagato. Era allora in Chieri un libraio ebreo, di nome Elia, col quale contrassi relazione, associandomi alla lettura dei classici italiani, un soldo ogni volumetto che gli ritornava dopo di averlo letto. Dei volumetti della biblioteca popolare ne leggeva uno al giorno. L'anno di quarta ginnasiale l'impiegai nella lettura degli autori italiani. L'anno di rettorica mi posi a far studi sui classici latini, cominciando da Cornelio Nepote e andando a Cicerone, Sallustio, Quinto Curzio, Tito Livio, Cornelio Tacito, Ovidio, Virgilio, Orazio Flacco ed altri. Io leggeva quei libri per divertimento e li gustava come se li avessi capiti interamente. Soltanto più tardi mi accorsi che non era

vero ch'io li gustassi; perciocchè, fatto sacerdote e messomi a spiegare ad altri quelle classiche celebrità, conobbi che appena con grande studio e con molta preparazione riusciva a penetrarne il giusto senso e la bellezza loro. Ma i doveri di studio, le occupazioni delle ripetizioni, la molta lettura richiedevano il giorno ed una parte della notte. Più volte accadde che giungeva l'ora della levata, ed io mi trovava tuttora colle decadi di Tito Livio tra le mani, di cui avevo intrapresa la lettura la sera antecedente. Tal cosa mi rovinò talmente la sanità, che per più anni la mia vita sembrava ognora vicina alla tomba. Laonde io darò sempre per consiglio ai giovani di fare quel che si può e non di più. La notte è fatta pel riposo. Eccettuato il caso di necessità, dopo cena niuno deve applicarsi in cose scientifiche uomo robusto reggerà alquanto, ma cagionerà sempre qualche a detrimento alla sua salute”.

Tanta tenacità di memoria adunque in Giovanni era un dono non ordinario, che Iddio aveagli fatto; ed egli non lasciollo irrugginire questo tesoro, ma acuivalo viemmaggiormente col continuo esercizio, studiando non solo i punti più salienti dei libri, ma questi stessi tutti intieri dalla prima all'ultima riga, e fissandosi specialmente su testi assai difficili o per lingua, come la latina e poi la greca, o per costruzione di periodi, o per oscurità di senso, non mai stancandosi finchè non se ne fosse pienamente impossessato. Leggeva pure i più celebri commentatori degli stessi classici latini

e italiani e tutte le grammatiche allora conosciute che potè avere tra mano.

E questa facoltà non parve punto in lui illanguidirsi coll'avanzare dell'età, chè nell'ultimo anno di sua vita, dopo le udienze di parecchie ore, soleva ricreare i suoi due segretari recitando qualche terzina di Dante o qualche ottava del Tasso quindi ad un tratto taceva, come se più non ricordasse i versi seguenti, ed invitava i suoi ascoltatori a continuarne la recita il che questi non sempre sapevano fare; e allora egli dava loro l'imbeccata, suggerendo il primo verso, e se tuttavia restavano incagliati, senza più continuava l'intero canto sino alla fine, come se avesse innanzi agli occhi il poema. Era questo il suo divertimento; il che essendo noto ai segretari, talora essi stessi incominciavano la recita di stanze poste negli ultimi canti o a mezzo del libro, ma D. Bosco non si trovava mai impacciato a proseguire. Due mesi prima della sua morte, accompagnandolo D. Rua e il suo segretario in vettura, cadde il discorso su certi tratti della storia sacra, che al Metastasio servirono di tema per qualche suo dramma. Ed egli, il venerando Padre, si pose a declamare con gusto, senza fallire, scene intiere e più commoventi di quest'autore. Eppure, dopo i corsi di ginnasio, non aveva più aperti quei libri.

Da ciò D. Bosco prendeva argomento per incoraggiare i giovani suoi chierici a studiare molto e mandare molte cose a memoria anche alla lettera: Se acquisterete svariate cognizioni, egli diceva, avrete un grande aiuto per fare del bene specialmente alla gioventù; ma, senza l'esercizio della memoria, a nulla gioverà averle imparate; perchè troppo facilmente dimenticherete. Queste parole spiegano il fine della continua sua lettura; ed infatti la sua memoria, unita ad una grande intelligenza e risolutezza di volontà, fu causa di bene ad ogni genere di persone.

Abbiamo già accennato come Giovanni trattasse con molta benevolenza i giovanetti ebrei suoi condiscepoli; or è qui il luogo di accennare alle felici conseguenze della sua carità.

L'anno di umanità, dimorando nel caffè dell'amico Pianta, Giovanni contrasse relazione con un giovanetto ebreo di nome Giona. Era questi sui diciotto anni, di bellissimo aspetto cantava con una voce rara fra le più belle; giuocava assai bene al bigliardo, ed avendo già conosciuto Giovanni presso al libraio Elia, appena giungeva in bottega, domandava tosto di lui. Giovanni gli portava grande affetto; e Giona era folle per amicizia verso Giovanni. Ogni momento libero veniva a passarlo con l’amico, e si trattenevano a cantare, a suonare il pianoforte posto; nella sala del bigliardo, a leggere, e Giona ascoltava con diletto le mille storielle che gli andava raccontando Giovanni.

Un giorno al giovane ebreo accadde un disordine susseguito da rissa, che poteva avere tristi conseguenze; laonde corse da Giovanni per avere consiglio. - Se tu o caro Giona fossi cristiano, gli disse Giovanni, vorrei tosto condurti a confessarti; ma ciò non ti è possibile.

 - Ma anche noi, se vogliamo, andiamo a confessarci.

 - Andate a confessarvi, ma il vostro confessore non è tenuto al segreto, non ha potere di rimettervi i peccati, nè può amministrare alcun Sacramento.

 - Se mi vuoi condurre, io andrò a confessarmi da un prete.

 - Io ti potrei condurre, ma ci vuole molta preparazione.

 - Quale?

 - Sappi che la confessione rimette i peccati commessi dopo il Battesimo; perciò se tu vuoi ricevere qualche Sacramento, bisogna che prima di ogni altra cosa riceva il Battesimo.

 - Che cosa dovrei fare per ricevere il Battesimo?

 - Istruirti nella cristiana religione, credere in Gesù Cristo vero Dio e vero Uomo. Fatto questo, tu puoi ricevere il Battesimo.

 - Quali vantaggi mi darà poi il Battesimo?

 - Il Battesimo ti scancella il peccato originale ed anche i peccati attuali, ti apre la strada a ricevere tutti gli altri Sacramenti, ti fa insomma figliuolo di Dio ed erede del Paradiso.

 - Noi Ebrei non possiamo salvarci?

 - No, mio caro Giona; dopo la venuta di Gesù Cristo gli Ebrei non possono più salvarsi, senza credere in Lui.

 - Se mia madre viene a sapere che io voglio farmi cristiano, guai a me!  - Non temere; Dio è padrone dei cuori, e se Egli ti chiama a farti cristiano, farà in modo che tua madre si contenterà o provvederà in qualche modo all'anima tua.

 - Ma tu che mi vuoi tanto bene, se fossi al mio posto che faresti?

 - Comincerei ad istruirmi nella religione cristiana; in tanto Dio aprirà la via a quanto si dovrà fare in avvenire. A questo scopo prendi il piccolo Catechismo e comincia a studiarlo. Prega Dio che ti illumini e che ti faccia conoscere la verità.

Giona da quel giorno cominciò ad essere affezionato alla fede cristiana. Recavasi al caffè, e fatta appena una partita al bigliardo, cercava tosto di Giovanni per discorrere di religione e di ciò che andava imparando dal Catechismo. Nello spazio di pochi mesi apprese a fare il segno della santa Croce, il Pater, l'Ave Maria, il Credo ed altre verità principali della fede. Egli ne era contentissimo, ed ogni giorno diventava migliore nel parlare e nell'operare.

Fin da fanciullo aveva perduto il padre. La madre sua, di nome Rachele, aveva già inteso qualche voce vaga, sulla possibilità che il figlio propendesse a cambiar di religione, ma non sapeva ancora niente di positivo. La cosa si scoprì in questo modo. Un giorno, assettandogli il letto, trovò il Catechismo che il figlio aveva inavvedutamente dimenticato tra il materasso ed il saccone. Si mise ella a gridare per casa, portò il Catechismo al Rabbino e sospettando di quello che era di fatto, corse frettolosa dallo studente Bosco, di cui aveva più volte udito a parlare da suo figlio medesimo.

Per aver un'idea della madre di Giona, bisogna immaginarsi il tipo della bruttezza. Era cieca da un occhio, sorda da ambe le orecchie; naso grosso; quasi senza denti, labbra esorbitanti, bocca torta, mento lungo ed acuto, voce simile al nitrito di un poledro. Gli Ebrei solevano chiamarla col nome di Maga Lili, col qual nome sogliono esprimere la cosa più brutta di loro nazione. La sua comparsa spaventò Giovanni, al quale l'Ebrea, senza dargli tempo di riaversi, prese così a parlare: - Affè che giuro, voi avete torto: voi, sì, voi avete rovinato il mio Giona; l'avete disonorato in faccia al pubblico; io non so che sarà di lui. Temo che finisca col farsi cristiano, e voi ne siete la causa. - Giovanni, che non conosceva ancora la madre dell'amico, dalle parole comprese chi fosse e di chi gli parlasse; e con tutta calma rispose che ella doveva essere contenta e ringraziare chi faceva del bene a suo figlio.

 - Che bene è mai questo? Sarà un bene a far rinnegar la propria religione?

 - Calmatevi, buona signora, le disse Giovanni ed ascoltate. Io non ho cercato il vostro Giona, ma ci siamo incontrati nella bottega del libraio Elia. Siamo diventati amici, senza saperne la cagione. Egli porta molta affezione a me; io lo amo assai, e da vero amico desidero che egli si salvi l'anima e che possa conoscere quella religione, fuori di cui niuno può salvarsi. Notate bene, o madre di Giona, che io, sì, ho dato un libro a vostro figlio, ma gli dissi soltanto d'istruirsi nella religione e che facendosi cristiano non abbandonerebbe la religione ebraica, ma la perfezionerebbe.

 - Se per disgrazia egli si facesse cristiano, dovrebbe abbandonare i nostri Profeti, perchè i cristiani non credono ad Abramo, Isacco e Giacobbe, nè a Mosè ed ai Profeti.

 - Anzi noi crediamo a tutti i santi Patriarchi e a tutti i Profeti della Bibbia. I loro scritti, i loro detti, le loro profezie formano il fondamento della fede cristiana.

 - Se mai fosse qui il nostro Rabbino, egli saprebbe che rispondere. Io non so nè il Misna, nè il Gema (sono le due parti del Talmud). Ma che ne sarà del mio povero Giona?

Ciò detto se ne partì. Qui sarebbe lungo riferire le molestie che ebbe a soffrire Giovanni, e gli attacchi fatti più volte al povero Giona dalla madre, dal Rabbino, dagli altri parenti. Non fu minaccia, violenza, che non siasi usata contro al coraggioso giovinetto ebreo. Egli tutto soffrì e continuò ad istruirsi nella fede. Siccome in famiglia non era più sicuro della vita, così si dovette allontanare da casa e vivere quasi mendicando. Molti però gli vennero in aiuto; e affinchè ogni cosa procedesse colla dovuta prudenza, Giovanni raccomandò il suo allievo ad un dotto sacerdote, che si prese di lui cura paterna. Allorchè fu a dovere istrutto nella religione, mostrandosi impaziente di farsi cristiano, fu battezzato con grande solennità, che tornò di buon esempio a tutti i Chieresi e di eccitamento ad altri Ebrei, di cui parecchi abbracciarono più tardi il Cristianesimo. Il padrino e la madrina furono Carlo ed Ottavia coniugi Bertinetti, i quali provvidero a quanto occorreva al neofito, che divenuto cristiano, potè col suo lavoro procacciarsi onestamente il pane della vita. Il nome imposto al neofito fu Luigi. Egli condusse vita veramente cristiana e conservò sempre per Giovanni Bosco grande affetto e viva riconoscenza. Non di rado si recava a visitarlo in Torino, e, chi scrive queste pagine, lo incontrò verso il 1880 nell'Oratorio di S. Francesco di Sales.

Erano le primizie dell'apostolato di Giovanni, caparra di grazie celesti senza numero. Dice infatti l'Apostolo S. Giacomo: Fratelli miei, dovete sapere che quegli che indurrà a conversione uno che devia dalla verità, come pure chi farà che uno peccatore si converta dal suo traviamento, salverà l'anima propria dalla morte e cuoprirà la moltitudine dei peccati”.

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