Capitolo 36

I tre flagelli predetti da Don Bosco - I tre quadri che ordinariamente si presentavano al Venerabile nei suoi sogni - Alcune sue parole - Il primo flagello: la Pestilenza - Il secondo flagello: la guerra - Il terzo flagello: la fame - Questi flagelli non si riferivano solo all'Italia - Uno sguardo all'Algeria - Don Bosco e Mons. Lavigerie.

Capitolo 36

da Memorie Biografiche

del 07 dicembre 2006

 Con una predizione D. Bosco chiudeva l'ultima parlata ai giovani sul fine del 1868. Come si era avverata quella parte del sogno da lui narrato il 31 dicembre 1867 circa il numero di coloro che sarebbero morti quell'anno, così doveva compiersi anche questa. Quanto all'altra convien ripetere che, generalmente, tre vasti quadri contemporanei, principali, andavano svolgendosi innanzi alla mente del Venerabile, nella visione del futuro: la Chiesa Cattolica, la Pia Società di S. Francesco di Sales, e i giovani dell'Oratorio. Parlandone, talora egli trattò dei primi, di carattere più largo, omettendo il terzo; ma il più delle volte non parlava dei primi, oppure li accennava solamente intrattenendosi ad esporre il terzo, come il più utile ai suoi giovinetti non mancando alle volte di rinunziare alla chiarezza per coprire quanto poteva ridondare in suo onore.

Così nella narrazione sua dell'ultimo giorno del 1867, oltre ciò che riguardava i giovani, aveva contemplati pubblici avvenimenti che avrebbero cagionato grandi inali per più anni, come la peste, la fame e la guerra, e lo spettacolo fu così vivo che il Venerabile lo ricordava diciassette anni dopo. Diceva nel 1884: - Il principio dei fatti sognati fu posto nel 1868, ma finiranno di avverarsi nel 1888, epoca di grandi avvenimenti per la Chiesa; a meno che non siano ritardati, dipendendo da cause libere.

E dopo essere stato soprapensiero, forse pensando ad altro, ripeteva ancora:

 - Quali avvenimenti nel 1888 e nel 1891!

Tanto per l'esattezza del nostro racconto.

Il primo flagello predetto da Don Bosco fu la pestilenza La terribile moria sul finire del 1867 sembrava del tutto cessata e si cominciava a credere che fosse scomparso ogni pericolo. Perciò l'annunzio di una pestilenza in quella circostanza poteva sembrare una facile profezia. Ma Don Bosco, non curandosi punto di ciò che si sarebbe potuto dire, si sentì obbligato ad annunziare ciò che aveva visto in un sogno, del quale egli conosceva l’importanza. Il flagello era stato sospeso, ma non rimosso, aspettando Iddio gli uomini a penitenza; e Don Bosco avvertiva i suoi giovani perchè stessero all'erta e non l'offendessero.

Nel 1868, adunque, e ne' quattro anni seguenti accaddero qua e là casi di colera, ma non si manifestavano focolari d'infezione. Don Bosco però, avutane notizia, a quando a quando la comunicava agli alunni, ripetendo loro con sicurezza che lo scudo contro il morbo sarebbe stata la medaglia di Maria SS. Ausiliatrice. Egli ne aveva avuta certa promessa da chi solo poteva dargliela e questa promessa fu mantenuta in maniera portentosa, come vedremo.

Nel 1873 con una sinistra fiammata il morbo manifestò la sua presenza anche a Treviso e a Venezia. Invase pure le provincie di Padova, di Brescia e di Parma. Fu, dove più, dove meno, micidiale, ma sempre terribile. In queste provincie riunite, secondo il Bollettino della Gazzetta Ufficiale, la media dei casi, per tre mesi, andò presso al centinaio al giorno, e i due terzi dei colpiti dal morbo ne furono spenti in poche ore.

Nel 1874 il morbo si nascose e rimase quasi endemico senza notevole mortalità, mentre altre sventure opprimono la povera Italia per più anni.

Nell'estate del 1883 il morbo era in Egitto e si affacciava alle porte d'Italia con grande sgomento delle città marittime. I cittadini di Brindisi, tumultuando, si opposero allo sbarco dei passeggieri della valigia delle Indie, perchè le autorità facevano loro qualche eccezione riguardo alla quarantena già stabilita.

Nel 1884 il cholera scoppiava prima a Tolone, per navi infette, giunte dal Tonchino, e poi a Marsiglia; e l'Italia fu inondata da migliaia di operai fuggitivi, che pieni di terrore ritornavano in patria, portando con sé il germe della malattia. Quindi questa si diffuse in molti paesi del Piemonte, del Bergamasco, della Liguria, dell'Emilia, della Toscana, del Napoletano. Nell'agosto n'erano infette 24 provincie e 858 comuni.

Nella provincia di Cuneo si ebbero 3.344 casi con 1.655 morti.

In quella di Genova 2.619 casi, con 1.438 morti.

Alla Spezia 1.388 casi con 610 morti.

Nella sola Napoli vi furono 14.233 casi con 7000 morti.

In Napoli e provincia 115.977 casi con 7.944 morti.

Dunque solo in Italia furono molti i casi e i morti: ed è facile che le cifre siano inferiori alle vere.

Nel 1885 il colera compariva a Marsiglia; e nella Spagna mieteva vittime senza numero per circa sei mesi, sicchè i diari Spagnuoli affermavano che da mezzo secolo non si rammentava eguale mortalità. In Italia, in terra ferma, l'epidemia invase 25 province e 152 comuni; la più bersagliata fu la provincia di Parma. In Sicilia, nella sola Palermo, a tutto il 20 novembre si ebbero 4767 casi con 2568 morti; e nella provincia di Trapani centinaia di famiglie scomparvero. Le statistiche registrarono sopra 6397 casi, 3459 decessi, avvenuti in Italia.

Nel 1886 il morbo avvampava all'improvviso a Brindisi e a Bari ed appariva nella provincia di Lecce. In paesi e città del Veneto parve che il cholera si fosse insediato, poichè vi durava da un anno, quantunque senza intensità; a Venezia si contarono 40 casi al giorno. Il morbo si dilatava invece nel Napoletano, nella Toscana e nel Piemonte. Asti, Cuneo e tanti altri paesi ebbero vittime. A Bologna il vaiuolo arabo venne ad unirsi al colera, con terrore della popolazione, perchè il numero delle vite che mieteva non era inferiore.

Finalmente nel 1887 vi furono casi a Siracusa, Caltanissetta, Trapani, Palermo, ma il morbo rimase stazionario. Invece menò strage a Catania, ove in luglio i morti, secondo la relazione medica, furono 604. Così pure Messina fu desolata da grande strage; in un sol giorno ebbe più di 200 casi. Anche le provincie di queste due città furono travagliate dal morbo e Napoli stessa non ne andò esente.

Altro fatto previsto fu la guerra.

Napoleone III aveva cooperato ad accrescere la potenza della sua terribile rivale, la Prussia, dichiarandosi neutrale nella guerra del 1866; e la Prussia non aspettava che il momento opportuno per invadere la Francia e schiacciarla. Il suo Re Guglielmo I, l’11 settembre 1868, rispondeva a Kiel al Rettore di quell'Università, che nel suo indirizzo aveva fatto allusione al desiderio comune di pace, che egli pure la desiderava, ma che garanzia di questa era il suo esercito, che aveva già provato come esso non temeva d'accettare e di condurre a buon fine una lotta che gli era imposta. In queste parole tutti videro un guanto di sfida gettato in viso alla Francia.

Ed ecco il 19 settembre 1868 l'Ammiraglio Spagnuolo Topete inalberare a Cadice la bandiera della ribellione; e la flotta e l'esercito fu con lui. In dieci giorni venne scacciata dalla Spagna la dinastia regnante. La Regina Isabella II si rifugiò in Francia; e, non senza spargimento di sangue per la resistenza di qualche reggimento fedele al suo dovere, i ribelli entrarono trionfanti in Madrid, distribuirono 30.000 fucili alla plebe e formarono un governo provvisorio. Con Topete i generali Serrano e Prim avevano in mano la somma delle cose.

Sul Prim pesava l'accusa di esser nulla più che un prezzolato strumento della Prussia, la quale sarebbesi avvalsa di lui per mandare sossopra la Spagna, all'intento di creare impicci alla Francia e rendere impossibile a Napoleone III ogni alleanza. Anzi, a questo fine, avea egli ricevuto in prestito dalla Prussia 600.000 talleri. Il Prim smentì la Presse parigina, che il 10 ottobre aveva spiattellato queste voci molto chiaramente.

Comunque sia la cosa, la Spagna n'andò sossopra. Senza parlare delle finanze dilapidate, delle leggi settarie emanate contro la chiesa, del tempio protestante eretto a Madrid, diremo che il 1868 e il 1869 furono anni d'orrendo strazio per la Spagna.

Cuba si rivoltò vedendo lesi i suoi interessi, e si dovette spedirvi grosso nerbo di truppe, per tenerla a freno con sanguinosi combattimenti. Le Canarie con moti risoluti si opposero alle leggi del Governo. I repubblicani e la ciurmaglia armata volevano le repubblica. Cadice, Malaga, Siviglia, Jerez in Andalusia, Terragona, Saragozza, Balaguer, Barcellona, Valenza, ove si asserragliavano, furono in diversi tempi bombardate e riconquistate dopo più giorni di grandi stragi.

Ma l'idea repubblicana andava prevalendo in molte altre città; e in nome di questa, centinaia di squadre di sicarii commettevano orribili delitti, e taglieggiavano le popolazioni dei piccoli centri già oppresse da tasse enormi. In varie provincie un grande sobbollimento faceva temere al Governo nuove sommosse per proclamare Re il Duca di Madrid, D. Carlos di Borbone e di Este. Numerose bande di partigiani incominciavano a rannodarsi, non ostante gli arresti, le fucilazioni e le decapitazioni.

L'esercito era stanco di accorrere qua e là per domare le sedizioni; fremeva; e a Cuba le truppe avevano rifiutato ubbidienza ai comandanti. Lo sfacelo dell'edificio rivoluzionario era completo.

Il Governo Provvisorio, sentendosi inetto a rimetter l'ordine, il 6 giugno 1869 promulgava una costituzione, formata dalle Cortes, nella quale si stabiliva che il Governo della nazione fosse monarchico costituzionale. Si rivolse quindi a varii principi di famiglie reali estere offrendo loro quella difficile corona; ma tutti la rifiutarono. Allora si pose in campo la candidatura del principe Leopoldo Hohenzollern - Sigmaringen, parente del re di Prussia e cattolico di religione. Autorizzato da Guglielmo I, il principe accettò.

Ma l'Imperatore Napoleone dichiarava che non avrebbe sofferto un principe straniero sul trono di Spagna, che era un pericolo all'onore e alla dignità della Francia; e il principe Leopoldo rinunziò. Napoleone volle ancora esigere che il Re di Prussia dichiarasse che né allora né poi avrebbe mai permesso ad alcuno della sua famiglia di accettare la corona di Spagna. Il Re si negò a quella pretesa, e l'Imperatore il 19 luglio 1870 gli indisse la guerra.

I prussiani passarono la frontiera con gli Stati Germanici loro alleati e tutti sanno la terribile guerra che si combatté, la caduta dell'impero francese, la proclamazione della repubblica, l'aiuto prestatole da Garibaldi co' suoi volontarii italiani; ai quali fatti tennero dietro gli orrori e le stragi della Comune in Parigi, e la marcia dell'esercito di Vittorio Emanuele alla conquista di Roma. In fine, per ciò che riguarda l'Italia, nel 1888 si possono ricordare i fatti d'Africa.

Il terzo flagello predetto da Don Bosco fu quello della fame, e i giornali del 1868 son pieni delle dolorose notizie della penuria che si fece sentire in molti Comuni dell'Italia meridionale per gli scarsi raccolti e la mancanza di lavoro. Specialmente la Sicilia fu desolata dalla fame; giammai la miseria si era fatta sentire così generale e tremenda. Migliaia di isolani mancavano di pane. Per difetto di alimenti, si vedevano i miseri andar a frotte per i campi e per i burroni a sbarbicare radici ed erbe con che ingannare la fame e sedare le torture dello stomaco; non pochi ne ammalavano e morivano.

Nello scorcio del settembre e dell'ottobre le dirottissime pioggie cadute sulle Alpi cagionavano danni enormi in Savoia, nella Svizzera e nell'alta Italia. Le inondazioni avevano travolte innumerevoli case coloniche e le derrate già mietute e riposte, e armenti in gran numero. Ne furono isteriliti interminabili tratti di suolo fecondo, rimasti coperti di arena e ciottoli e in più luoghi ridotti a vaste paludi. Nella sola Italia i danni furono calcolati a circa 300 milioni.

Accresceva le angustie la legge della nuova tassa firmata dal Re, il 7 luglio, sulla macinazione per ogni quintale di grano, granoturco, segala, avena, legumi secchi, e castagne. L'avventore doveva pagarla nelle mani del mugnaio, divenuto esattore, prima dell'esportazione delle farine: e la legge proibiva con multa ogni specie di molino a mano nelle case private. Di qui il rialzo del prezzo delle vettovaglie, e l'aumento della fame dei poveri che non potevano pi√π mettersi in bocca neppure un pizzico di qualsivoglia specie di farina, senza doverne pagare la decima al Governo, che sperava di trarne il vantaggio di sessanta milioni. In tutta Italia vi furono tumulti sedati coi fucili dalle truppe e colle carceri. Si aggiunga che accrebbero la penuria in questi anni le nuove inondazioni del Po e del Ticino, il colera che teneva lontani i ricchi forestieri e inceppava il commercio nei porti di mare, l'eruzione dell'Etna, gli uragani, i terremoti, i fallimenti delle banche; e nel 1884 il terremoto in Liguria, e nel 1888 quello di Calabria: mentre in quest'anno abbondanti nevicate producevano gravissimi danni nell'Alta Italia.

Di questa dolorosa penuria di pane annunziata da Don Bosco ai giovani, egli non ne aveva fatto particolareggiata descrizione nel sogno. Parlò invece delle strettezze nelle quali si sarebbero trovate le loro famiglie ed anche l'Oratorio. Qui infatti, per le beneficenze scemate, causa le pubbliche

sventure, per le enormi imposte cresciute, e specialmente per la tassa del macinato, davvero si doveva stare in angustia.

Ciò che disse aver veduto nel sogno non riguardava evidentemente la sola Italia. Il suo sguardo si era spinto molto lontano. “ Vedemmo, ei disse, una moltitudine sterminata di gente pallida, abbattuta, smunta, sfinita, coi panni laceri... che gridando: fame! fame! cercavano pane da mangiare e non ne trovavano; cercavano di togliersi la sete che loro ardeva le fauci e non trovavano acqua ”.

Or bene: prendiamo il Courrier de l'Algerie del 1868 e leggeremo le seguenti notizie. Tutta l'Algeria, per l'inclemenza dell'estate, nel 1867 veniva ridotta a tale estremo di penuria delle derrate di prima necessità, che nel maggio del 1868 si faceva il calcolo essere già periti d'inedia, di stenti e di cruda fame e di sete almeno 200.000 arabi. I loro cadaveri erano disseminati e insepolti nelle campagne, lungo le vie nei pressi delle città e borgate, ove correvano gli affamati in cerca di nutrimento. Quelli che poterono giungere in luoghi ove erano Europei, ebbero dal Governo, e dalla carità dei coloni, larghi soccorsi. Ma le tribù vaganti in fondo ai deserti, avvezze a vivere sul prodotto dei pascoli e dei grani che fallì tutto per l'arsura eccessiva, si trovarono ridotte a vivere di erbe selvatiche, di radici e di scorze di arbusti, aspettando la morte.

Fra tanti orrori brillò la carità di Mons. Lavigerie, Arcivescovo d'Algeri.

I Kabili non ebbero altro scampo che ricorrere a Monsignore. Tutti i giorni, sui muli e sui carri presi dall'esercito, giungevano convogli di fanciulletti e si fermavano alla casa dell'Arcivescovo; e crescendo sempre di numero, ben presto raggiunsero i 1800 Ma molti erano siffattamente deboli che, malgrado le più amorevoli cure prodigate loro, più di 500 morirono. Di fronte agli immensi benefizii largheggiati dal grande apostolo, l'autorità militare algerina finiva per pretendere che chiudesse l'orfanotrofio dove erano raccolti i figli di coloro che erano stati uccisi dalla pestilenza, e che venissero rimandati alle loro tribù. Il Lavigerie non tollera freno; ha ricevuto il mandato da Dio e dal suo Vicario, e corre a Parigi, chiede di parlare a Napoleone III e francamente gli espone l'enorme ingiustizia che laggiù, in Algeri, si commette contro gli Apostoli di Cristo. La fermezza del Vescovo cattolico impressiona l'imperatore, che con benevolo sorriso attende le sue richieste.

 - Maestà, dice il prelato, la Francia colle armi e col sacrifizio di migliaia de' suoi figli ha congiunto alla madre patria circa 670, 000 k.q. e ben 3, 400, 000 abitanti sparsi nei 1400 suoi villaggi; ma a che cosa varranno queste conquiste se si tiene lontana la fede e l'opera del sacerdote cattolico? ... Sire! io vi domando il permesso di evangelizzare liberamente tutta l'Algeria, aprirvi scuole, fondarvi educandati, orfanotrofii, chiese, tutto quello in somma che mi suggerisce la fede e la civiltà cristiana.

L'imperatore tutto accorda e il Lavigerie torna trionfante in Algeri per mettere in pratica il vasto suo disegno. Così Monsignore poté ritenere, ricoverare, educare cristianamente tutti gli orfanelli salvati e li mantenne coi soccorsi che gli venivano abbondantissimi dalla Francia. Mancando però di personale sufficiente per la direzione, anche promosso Cardinale più volte fece vive istanze a D. Bosco perchè gli spedisse una schiera de' suoi Salesiani. Il Venerabile però, o non potendo o avendo forse riconosciuto non esser tale per allora il volere di Dio, rimandava ad altro tempo tal progetto. E Monsignore gli mandava da Algeri alcuni orfani della tribù dei Kabili, perchè desse loro educazione e istruzione e poi li rimandasse in Africa. Don Bosco li accolse con festa e li annoverò tra i suoi alunni.

Più tardi i Salesiani presero stanza sulla costa africana, nel 1891 in Algeria ad Orano e ad Eckmülh; nel 1896 a Tunisi; nello stesso anno in Alessandria d'Egitto e al Capo di Buona Speranza. Sorsero quindi Collegi, Ospizii, Oratorii festivi e scuole d'arti e mestieri.

 

 

 

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