Capitolo 37

L'Oratorio e le scuole in casa Moretta - Alcuni Benefattori dell'Oratorio - Il Teologo Giacinto Carpano - Il catechismo in alcune scuole pubbliche e private - Dicerie, Risposta di D. Cafasso al critici di D. Bosco.

Capitolo 37

da Memorie Biografiche

del 25 ottobre 2006

 La stagione divenuta eccessivamente fredda più non permetteva le passeggiate campestri. Era quindi necessario a costo di qualunque sacrifizio, trovare in città un sito ove almeno poter fissare il convegno festivo. Pertanto D. Bosco, d'accordo col Teol. Borel, fatte vive istanze presso un buon sacerdote, di nome Moretta, aveva ottenuto finalmente da lui a pigione tre stanze in una sua casa, poco lontana dal Rifugio dalla parte di ponente. Vi si andava dalla via Cottolengo, allora in quel punto stretto sentiero, ed era la seconda casa della stradicciuola che costeggiava il prato Filippi, nel quale fu poi costrutta una fonderia di ghisa. Sul pianterreno si innalzava solo un altro piano e si accedeva a quelle stanze le quali guardavano mezzogiorno, entrando nel cortile cinto su tre lati dall'edificio, e per una scala esterna ed un balcone ambedue di legno. Senza neppur sospettarlo, i giovani si erano avvicinati sempre più alla meta delle loro peregrinazioni, alla loro terra promessa.

Qui passarono circa tre mesi, allo stretto bensì, ma contenti di avere per quell'inverno un luogo ove potersi raccogliere per confessarsi, istruirsi, divertirsi, quando alta era la neve, o le nebbie fitte involgevano gli edifizi e i viali della città. Mancando di cappella, continuavasi ad andare a Messa in qualche pubblica chiesa non troppo distante: ordinariamente alla Consolata o a S. Agostino. Molti giovanetti si accostavano divotamente alla santa Comunione. Quivi nel giorno dell'Epifania e in qualche altra solennità si andò a ricevere la benedizione del SS. Sacramento. Durante quell'inverno gli esercizi di religione limitaronsi ad un semplice catechismo alla sera di ciascun giorno festivo, e canto di laudi sacre davanti ad un altarino improvvisato, sul quale D. Bosco aveva collocata fra i candelieri una Madonnina, ornata il meglio che seppe e potè. Procurava eziandio a' suoi giovani alunni divertimenti adattati al luogo, come quello dell'ambo, dell'oca, della geografia, dei dadi, della dama, della tela; talora la mano calda, la gatta cieca li occupavano allegramente; altra volta D. Bosco li ricreava coi bussolotti. Così narrava Castagno Stefano, che giovanetto dimorava allora in quel medesimo caseggiato. Tutti gli attrezzi di ginnastica, divenuti inutili, erano stati trasportati qui dal Rifugio e giacevano ammonticchiati in un angolo.

La sola presenza di D. Bosco bastava a tenere in ordine quella folla di biricchini non avvezzi a disciplina; ma egli non poteva essere sempre e dappertutto con loro, specialmente in chiese pubbliche, nel tempo delle sacre funzioni. Aveva quindi bisogno di luogotenenti per l'assistenza, ed eziandio di persone che concorressero alle spese non leggiere per allettare e premiare i giovani. E queste non mancarono. “Fin dal principio, scrisse D. Bosco, nostri benefattori furono un certo Gagliardi chincagliere che aveva bottega innanzi alla Basilica Mauriziana, il quale, non possedendo denaro sufficiente da versare in elemosina, veniva all'Oratorio per l'assistenza dei giovani e cercava d'interessare altre, persone in nostro favore: il Sig. Montuardi, che per circa due anni dava al Teol. Borel una quota mensile di trenta lire; e il generoso e ricco banchiere Comm. Cotta. Questi ed alcuni altri signori s'impegnavano eziandio per trovare buoni padroni a quei fanciulli che non sapevano ove andare a lavoro”.

A questi si aggiunse un giovane sacerdote torinese, di famiglia assai ricca e di bell'ingegno, D. Giacinto Carpano, ordinato nel 1844. D. Cafasso mandavalo ad aiutare D. Bosco. Infaticabile nel predicare, nel fare istruzioni catechistiche, era tutto dolcezza nell'intrattenersi coi fanciulli, prendendo parte ai loro giuochi. Da D. Bosco egli imparava a spendere tutta la sua vita per amore di Ges√π C. nell'assistere la giovent√π, e con D. Bosco e col Teol. Borel frequentava le carceri. Radunava pi√π tardi in casa sua gli studenti del vicinato, aiutandoli a fare i loro compiti e premonendoli contro i pericoli dell'anima; dava per pi√π ore al giorno lezione di lingua latina ad alcuni che aspiravano alla carriera ecclesiastica; dettava missioni ai giovani corriggendi rinchiusi dal Governo nella Generala; ritirava nella sua abitazione fino a dieci fanciulli usciti dalle carceri, nutrendoli, educandoli e mandandoli a lavorare in officine di brava gente.

Coll'assistenza adunque del Teol. Carpano, D. Bosco non pose tempo in mezzo a riaprire le sue scuole, sospese da circa sei mesi. I giovani ridotti a duecento, non potendone accogliere di più, divise in tre classi e a ciascuna assegnò una camera. Qui furono messe in ordine le panchette della cappella abbandonata di S. Francesco. Ogni sera, dopo che in città si erano chiuse le officine, i giovani venivano ad imparare a leggere nei cartelloni murali. Per lunga ora, su quei prati e campi ricoperti di ghiaccio, risuonavano lontane le monotone cantilene, dell'alfabeto, delle parole intiere compitate per sillabe e delle proposizioni semplici e composte: tre cori distinti che s'intrecciavano, interrotti or l'uno or l'altro dalla voce del maestro. Fin da quando l'Oratorio era ancora al Convitto di S. Francesco d'Assisi, D. Bosco aveva riconosciuta la necessità d'istruire specialmente certi giovanotti analfabeti, i quali, già inoltrati negli anni, erano nondimeno affatto ignoranti delle verità della Fede. Vedeva che per costoro il solo insegnamento verbale avrebbe portato troppo a lungo la loro istruzione religiosa o che perciò annoiati avrebbero cessato d'intervenirvi. Egli voleva metterli in grado di poter studiare il catechismo da se stessi; ma per allora questa scuola, per difetto di apposite sale e di maestri adatti e sufficienti, dovette limitarsi a poco. In casa Moretta però, come prima al Rifugio, le scuole serali e domenicali proseguirono con qualche regolarità. Non pochi giovani se n'approfittarono e destandosi in loro il desiderio d'imparare, corrispondevano alle fatiche di D. Bosco e di alcuni suoi coadiutori. Per certo numero di garzoni si tenne eziandio un po' di scuola diurna, accomodata alle professioni ed agli orari relativi, e vi si trattava di aritmetica, di qualche principio, di disegno e di brevi nozioni di geografia.

Ma se D. Bosco occupavasi con tanto amore dei monelli raccolti dalla strada, nello stesso tempo non trascurava altra opera di non minore importanza; quella di preservare dalla malizia e d'istruire nella religione quei giovanetti che in famiglie cristiane avevano ricevuta una buona educazione. Perciò visitava ogni settimana varie scuole pubbliche della città, nelle quali tra gli insegnanti contava degli amici. Con un grazioso catechismo ragionato esercitava la sua missione educatrice, ora nelle classi dei buoni figli del La Salle, ora in quelle di Porta Palazzo e di S. Francesco di Paola, ora nel collegio di Portanova e altrove volentieri sostituiva un professore di Religione assente o infermo, e offeriva la sua opera in quegli istituti privati ove l'istruzione religiosa non era regolarmente impartita. Fra questi ultimi predilesse la scuola di grammatica del Prof. Bonzanino e quella di Rettorica del Prof. D. Matteo Picco, gli alunni dei quali appartenevano alle primarie famiglie di Torino. Con piacere dei due insegnanti vi si recava ogni sabato. Le sue parole attraenti, le sue maniere affettuose tutte candore e semplicità, lo rendevano padrone dei cuori degli scolari. Era sempre una festa la sua apparizione in una scuola. Gli argomenti che svolgeva traevali dalla storia sacra, ed era così innamorato di ogni cosa che la riguardasse e con tanto piacere ne parlava, che non mancava mai a questo convegno, perseverando per circa dieci anni. Era suo ultimo fine raccomandare agli allievi la frequente confessione e comunione. Quantunque fosse manifesta di primo aspetto la sincerità dello zelo di D. Bosco, non tutti sentivano bene di questo suo intromettersi nelle scuole cittadine. Eziandio la frequenza di tanti giovanetti alla casa Moretta non poteva passare inosservata e dava da dire agli sfaccendati. 

Era la prima volta che nei nostri paesi istituivasi tale genere di scuole, perciò se ne fece un gran rumore, da alcuni in senso favorevole e da altri in senso avverso. In quell'inverno del 1845 e 1846 incominciarono a propagarsi certe dicerie, che, se non a D. Bosco, diedero a' suoi giovani non piccolo dispiacere. L'opera sua era giudicata da molti vana e pericolosa, anche da persone serie. 

Alcune male lingue della città presero a chiamare il nostro D. Bosco un rivoluzionario, altre un pazzo, certune un eretico. Dicevasi essere l'Oratorio un ripiego studiato per allontanare la gioventù dalle rispettive parrocchie e per istruirla in massime sospette. Quest'ultima imputazione, che era la prevalente, fondavasi sulla falsa credenza che Don Bosco fosse partigiano di una pedagogia della quale si era diffusa una fama meritamente dubbia, dopo le resistenze dell'Arcivescovo; e nell'osservare che egli, benchè non tollerasse cosa che fosse peccato o contraria alla civiltà, pure permetteva a' suoi ragazzi ogni sorta di ricreazione rumorosa. Il sistema antico di educazione nelle scuole era disciplinato dal viso arcigno del maestro e dalla sferza, e le innovazioni di D. Bosco arieggiavano troppo a libertà. D. Bosco cercava di scolparsi co' suoi critici nell'incontrarli per la città, o quando venivano a visitarlo; ma più si sforzava di far conoscere le cose nel vero aspetto e più erano sinistramente interpretate. 

Crediamo che costoro, tra i quali certamente qualche fautore delle idee settarie, parlassero così coll'intento di allontanare da lui i giovanetti e sciogliere le loro festive adunanze; ma questi che lo conoscevano appieno, in vece di perdergli stima, gliela professavano ognor più grande, e si stringevano a lui d'intorno vie più affezionati. Eziandio alcuni del clero vedevano in D. Bosco qualche cosa di straordinario e di grande che non sapevano spiegare, specialmente la sua attività e la sua arte nel legare a sè gli animi e dominare le moltitudini; sicchè esclamavano: Guai a noi, guai alla Chiesa se D. Bosco non è un prete secondo il cuore di Dio!…..Lo sarà? - E l'osteggiarono non potendo persuadersi che egli secondasse gli impulsi di una missione celeste.

D. Cafasso intanto vedendo D. Bosco mal compreso, avuto in diffidenza dalle stesse autorità, s'argomentava per ogni miglior modo di far svanire le prevenzioni, e nello stesso tempo gli cercava benefattori e protettori. Di questa sua costanza nel favorire ed aiutare D. Bosco gli venne perfino fatto rimprovero, e vi furono ecclesiastici di considerazione che su questo punto lo giudicarono ingannato. A ciò accenna il Despiney nell'introduzione alla sua opera su D. Bosco, là dove scrive: “Alcuni amici (di D. Bosco) a lui peraltro affezionatissimi s'indirizzarono a D. Cafasso suo confessore, rappresentandogli che sarebbe un vero servigio reso alla Chiesa il segnar limiti precisi ad uno zelo troppo intraprendente D. Cafasso, sorridendo e con la massima calma ascoltava queste rimostranze che, or sotto un aspetto, or sotto un altro, gli pervenivano frequentissime; ma poi invariabilmente rispondeva con tono grave e con accento quasi profetico: “Lasciatelo fare, lasciatelo fare...”. Nessuno eravi a Torino che non riconoscesse in D. Cafasso una certa penetrazione degli spiriti: egli ne aveva dato saggio molte volte in occasioni delicatissime; ma si era tentati a credere, che per quanto spettava D. Bosco, questo senso sovrumano potesse patir difetto in alcuna parte. E tutta quella gente tornava alla carica con tale costanza e con tale abbondanza di riflessioni, da dar indizio per lo meno di una specialissima cura degli interessi di Dio. D. Cafasso si dimostrava sempre affabile, buono, cortese; ma una era sempre la parola, divenuta poi celebre, colla quale conchiudeva: Lasciatelo fare! ”

 

 

 

 

 

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