D.Bosco va a Bergamo - Sue osservazioni sopra la lettura di un giornale cattivo - Confessa in treno un viaggiatore - Fatti ameni all'arrivo e in casa del Vescovo di Bergamo - Premure paterne di Mons. Speranza - La S. Messa in Duomo - Si stabilisce una conferenza di S. Vincenzo de' Paoli - D. Bosco conduce a Terno il parroco Bagini uscito di carcere - Festose accoglienze - D. Bosco visita il Seminario di Bottanuco - Promette al Vescovo di predicare l'anno venturo gli esercizi ai chierici: lo esorta a presentare i preti e i chierici agli esami per i diplomi e per le lauree.
del 30 novembre 2006
Il giorno 6 di maggio D. Bosco partiva alla volta di Bergamo. Deplorabile oltre ogni dire era la condizione del clero in quella discesi. Essendo i sacerdoti del Bergamasco tra i più dotti ed esemplari della Lombardia, venivano fatti segno alle ire rivoluzionarie. L'anno antecedente era stato invaso da una turba ladra e frenetica il palazzo Vescovile e malmenata sacrilegamente la stessa persona del Vescovo. Ogni giorno scrivevasi sulle mura delle case: Morte ai preti! Ma ciò che è peggio gli stessi ufficiali del governo non si vergognavano d'infierire contro sacerdoti innocenti. Parecchi erano stati tradotti pubblicamente alle carceri dei malfattori con grande scandalo e dolore di quella buona popolazione. Si accusavano di cospirazioni commesse per mezzo di associazioni pubbliche, di preghiere, di danaro di S. Pietro e cose simili.
D. Bosco pertanto si mise in viaggio per confortare Mons. Pietro Luigi Speranza, Vescovo di Bergamo; e, dopo qualche giorno, ritornato in Torino narrava ai suoi alunni quanto gli era occorso. Era questa la sua costumanza quando, stava qualche tempo fuori dell'Oratorio, perchè i giovani vivevano della sua vita. Così aveva occasione di impartir loro qualche ammaestramento e col suo stile ricco e festivo dar sempre nuovo pascolo alla loro fantasia. Ecco dunque la sua descrizione, colla quale intrattenne per qualche sera la Comunità: potrà sembrare troppo prolissa e particolareggiata, ma tale era il suo stile in simili circostanze. Noi la riportiamo esattamente come ce la riferisce la Cronaca di Don Bonetti.
Il 6 maggio montato a Torino sul vagone, mi trovai insieme con due altri viaggiatori. Uno di questi si lagnava che essendo venuto a Torino per parlare con D. Bosco di un suo ragazzo che voleva mettere nell'Oratorio, non lo aveva potuto trovare. Gli domandai se conoscesse D. Bosco ed ebbi per risposta che lo conosceva benissimo. Passai quindi ad interrogarlo del ragazzo e su questo oggetto si discorse quasi fino a Saluggia. Allora lasciando l'incognito mi palesai a quell'uomo dicendogli il mio nome e con ciò gli cagionai sorpresa e consolazione, con grandi risa di ambedue le parti. Giunti a Saluggia siam tutti discesi e approfittandoci del tempo che vi era di fermata, il mio compagno volle visitare qualche cosa del paese. Intanto venne il tempo della partenza e colui che era per terzo, avendo lasciato nel nostro vagone il parapioggia ed il sacco da viaggio, non dandosene pensiero, salì in un altro scompartimento. Restammo perciò in due soli in quel vagone. Il mio compagno era un uomo di buon fondo, ma imbevuto di pregiudizii, causa l'ignoranza e la lettura dei giornali cattivi pieni di veleno contro i preti e specialmente contro il Papa. In quel frattempo aveva comprato il giornale l'Opinione; lo aperse, ne scorse qualche riga e poi per compiacermi me lo porse, perchè io leggessi. - Grazie, mio caro, ma io non leggo simili giornali e mi fa meraviglia che la S. V. l'abbia comprato.
- E perchè?
- Non vede che è un giornale cattivo che parla male della religione e de' suoi ministri?
- Oh! si sa che trattandosi di giornali non si va troppo pel sottile.
- Il bene è bene, il male è male.
- Ma non sa che tutto il mondo legge questo giornale?
- Adagio, caro mio; tutto il mondo! Di novecentomila, per es., cristiani, non ne troverà un duemila che leggano tale sconcezza.
- Ma dica quel che vuole; molti lo leggono, dunque non è male.
- Non dica cosi! Molti lo leggono e molti fanno male; e sappia che se noi potessimo in questo momento aprire le porte dell'inferno, sentiremmo le grida di molti che si sono dannati solo per aver letti libri o fogli cattivi.
- Non sa che mi fa paura! E se è così vada al diavolo l'Opinione, chè io non ci voglio andare.
E preso quel giornale lo fece in minutissimi pezzi e lo gettò dallo sportello. Dopo questo bell'atto io cercai di entrare con lui in confidenza ed in breve mi aprì tutto il suo cuore. In fine mi disse: - Io avrei piacere di confessarmi. - Allora io contento come un principe, non esitai, lo presi in parola e gli dissi che si preparasse. Accondiscese: da Magenta a Milano egli fece la sua confessione, lasciandomi le più belle speranze di sua conversione. Vedete quanto può operare la grazia del Signore. Quel giorno io era per quel fatto così contento, che non poteva più stare nella pelle; principalmente perchè aveva veduto quivi un tratto speciale della Divina Provvidenza, nel far si che quell'altro uomo non cercasse più di venir a montare in quel nostro vagone, dove aveva le sue robe, quantunque si fossero fatte molte fermate. Se fosse di nuovo venuto con noi, non sarebbe certo stato possibile provvedere a quell'anima, perchè non avremmo potuto entrare in confidenza. Questo terzo venne poi a salutarmi e a prendere il fatto suo, giunti che fummo a Milano.
Alcuni di voi domanderanno: - Ma D. Bosco aveva licenza di confessare fuori diocesi? State tranquilli che io avevo il permesso e questo l'ottenni da S. S. Pio IX quando sono andato a Roma. Il Papa mi diede facoltà senza limite di confessare ovunque.
Giunsi a Bergamo alle 8 di sera. Pioveva. Domandai ad un ragazzo se avesse voluto condurmi a casa del Vescovo, ma si mise a gridare così forte, che quelli che rimanevano con me rimasero spaventati. Non' so se si fosse preso paura di me o che cosa avesse visto o pensato, il fatto si sta che non mi volle guidare. Perciò presi un brun o cittadina e fui condotto ancora assai bene, non avendo il vetturino proferito bestemmie. Gli domandai quanto volesse per quel tragitto e mi rispose: - Un fiorino.
- Lasci i fiorini e dica quanti franchi.
- Due franchi e mezzo. -
Tastai la mia borsa e cavai fuori uno scudo, dicendogli che mi desse indietro un fiorino; ma risposemi di non aver moneta. Cavai fuori delle pezze da otto soldi e voleva pagarlo con queste, ma egli dando ai nostri soldi il valore dei soldi austriaci, non potevamo andare d'accordo, perchè secondo lui colle mie brave monete toccavami pagare un franco di più. - Abbia pazienza, gli dissi, quando saremo col Vescovo ci aggiusteremo.
- Si, si; mi rispose.
Giungemmo al palazzo Vescovile, pregai il Vescovo di intendersi egli col vetturino e subito la cosa fu aggiustata, poichè il Vescovo ne incaricò il domestico che gli diede un fiorino, moneta che il nostro carrozziere conosceva. Quella sera l'abbiamo passata in continuo riso col Vescovo e con quelli di sua casa; ed il Vescovo godeva nel farmi raccontare tutta la scena di quel vetturino. Venne intanto l'ora della cena; ma io non mi sentiva voglia di mangiare sebbene stessi benone. Il Vescovo però prima di andare a letto è solito dire tutte le sere il rosario. Andai io pure con lui. Per giungere più speditamente alla cappella si doveva passare per un corridoio, ma io giunto ad un certo punto, diedi tale un colpo colla mia zucca che credetti aver la testa rotta.
- Si prenda guardia, mi disse il venerando prelato; il passaggio qui è un poco basso.
- Me ne sono pur troppo accorto che è un poco basso! - risposi; ed intanto andava presso al Vescovo che aveva in mano il lume! Giungemmo ad un posto dove eranvi due scalini da calare. Il Vescovo aveva a fare per sè e non poteva attendere a me; fatto sta che io saltai due scalini ad una volta e caddi addosso al Vescovo. - Ma che fa? mi disse il Vescovo: Non ha paura d'incorrere la scomunica, volando addosso ad un Vescovo in questo modo?
- La scomunica l'incorriamo tutti e due, gli risposi, perchè ci siamo a vicenda urtati l'uno contro l'altro.
- È bene che per questa volta ce la perdoniamo a vicenda. Abbiamo di nuovo riso un poco, ma io sentiva il capo che mi doleva ed un ginocchio che mi faceva molto male, perchè aveva eziandio dato un colpo in uno scalino. Si disse il rosario; quindi il Vescovo stesso ripreso il lume volle accompagnarmi nella stanza che mi era destinata. Entrai in una gran sala riccamente addobbata, passai in un'altra ancor più splendida, e in una terza ove la manificenza non poteva essere maggiore. Un letto, ove una dozzina di persone avrebbero potuto dormire comodamente, mi fu additato dal Vescovo. Io rimasi stupefatto vedendo per me preparato un letto che risplendeva d'oro e d'argento; chè non pareva un letto, ma un trono regale. Dissi pertanto al Vescovo: - Monsignore, non ha altro letto da darmi per dormire?
- No, sig. D. Bosco, se ne avessi uno migliore glielo esibirei di buon grado.
- Ma no, Monsignore; non è questo che dico io. Non avrebbe una stanza dove mette la roba sporca? Io non posso, dormire in questo letto e non oso.
- Non faccia cerimonie; sì adatti.
- No; piuttosto dormirò su questo sofà; ma non andrò a pestare quel letto lì.
- Lasciamo le facezie a parte, proseguì il Vescovo; adesso ella è sotto la mia giurisdizione; si corichi glielo comando, ed ella lo faccia in virtù di santa obbedienza.
- Se è così allora mi corico.
Il buon Vescovo dopo alcune altre parole, augurandomi la buona notte, si ritirò. Io era appena coricato ed aveva allora spento il lume, quando sento uno venir verso la mia camera e bussare. - Avanti! dissi. - Era il Vescovo.
- Scusi tanto, sig. D. Bosco; non mi son ricordato di accertarmi se fosse ben coperto.
- Oh, Monsignore, mi confonde, sa; ma perchè prendersi tanta pena? Sono servito come un imperatore! - Infatti in quel letto aveva già dormito l'Imperatore d'Austria.
Il Vescovo visitò di nuovo le finestre per vedere se fossero ben chiuse, osservò se avevo tutto e lume e zolfanelli, tantochè una madre non poteva far di più per un suo amatissimo figlio. Malgrado io avessi un letto tanto bello e soffice, potei dormir poco, perchè il mio capo ancora mi doleva ed il ginocchio parimente. Perciò al mattino saltai su molto presto ed ebbi così tempo a far molto lavoro al tavolino. Intanto Monsignore mandommi un domestico, il quale mi condusse nella sacrestia del Duomo. Il servitore si avvicinò al capo sagrestano e dissegli che io voleva dir messa e che era stato mandato da Monsignore. All'udire che ero mandato dal Vescovo tutta la turba dei sagrestani fu in moto. Tolsero il calice che era pronto e ne misero al posto un altro più prezioso, cangiarono le paramenta e trassero fuori una stupenda pianeta. Come fui vestito, mi domandarono: - Eminenza, dove vuol andare a dir messa ?
- Ovunque, risposi, purchè vi sia un altare, ed ove si trovi il Signore e la Madonna.
- Vuole andare al sacro Cuore di Maria? - Sì!
- Vi sarà da comunicare! - È quello che io desidero. - E così feci. Comunicai un gran numero di persone. Finita la mia messa ritornai alla sagrestia. Svestitomi e messomi a fare il ringraziamento, udiva che dicevasi di qua e di là: - Chissà chi sia costui? Chissà donde venga? Un cardinale non può essere! - E facevano mille supposizioni. Non osando domandarmi chi io fossi, finito che io ebbi di pregare mi dissero: - Eccellenza! (non più Eminenza) C'è il costume che quei sacerdoti che vengono qui a dir messa, scrivano in questo quaderno il loro nome e l'altare al quale la celebrarono.
- Ebbene; anch'io lo farò. - E scrissi. Missam celebravi ad altare B. V. Sacerdos.
- Ma di grazia metta anche il nome.
- Ma è proprio necessario?
- Così si fa da tutti. -
Quanto più io mostrava di non voler mettere il mio nome, tanto più cresceva in essi il desiderio di saperlo. - Eh! sentano, conclusi; non avrei proprio nessuna voglia di scrivere il mio nome: è quello del primo eremita del mondo. - E lo scrissi. Subito uno ripetè all'altro: - D. Bosco, D. Bosco, D. Bosco! - tanto che corse un bisbiglio non indifferente, sebbene nessuno sapesse chi fosse quel D. Bosco.
Me ne ritornai alla casa del Vescovo e quivi eravi già un parroco, stato mandato a chiamar dal Vescovo perchè io vedessi, d'accordo con lui, il modo di stabilire la Società di S. Vincenzo de' Paoli. Questa non esisteva ancora a Bergamo e il Vescovo desiderava, molto di stabilirla. Io sciolsi tutte le difficoltà che mi vennero fatte, dicendo: - Non si potranno avere due bravi giovani in tutta questa città?
- Per questo non c'è difficoltà, mi fu risposto; non solo due, ma molti mi sento di prepararne; ed esemplari.
- Ebbene, questo basta. Li raduni in sua casa ed io questa sera mi vi porterò e daremo principio.
Così feci; alla sera 18 giovani già stavano radunati nella casa del parroco; loro feci coraggio, dimostrando quanto grande fosse il bene che potevano operare per vantaggio dei poveri, e per quello delle anime loro; che mettessero sotto i piedi il rispetto umano col pensiero che non il mondo sarà quello che ci dovrà premiare, ma quel Dio che tiene preparato in questa vita il centuplo ed in cielo la vita eterna per una buona azione. Tutti furono entusiasmati e mi promisero di tornare la sera dopo, per stabilire il nostro Consilio. Vennero e si tenne quella sera la prima seduta.
Ma ritorniamo alla casa del Vescovo ed andiamo a pranzo. Mentre pranzavamo, nel giorno 8, ecco sentiamo i domestici esclamare: - È qui, è giunto, è uscito di prigione il prevosto di Terno! - E dopo pochi istanti entrava nella nostra sala un venerando sacerdote D. Bagini Ferdinando, che subito si slanciò a baciare la mano al Vescovo, tutto consolato per l'inaspettata comparsa. Quel parroco venne quindi pure da me e per un qualche pregiudizio che io fossi quegli, che, venuto apposta per lui da Torino, gli avesse ottenuto la liberazione, come dicevasi fra il popolo, mi ringraziava e tornava a ringraziarmi.
Ebbi un bel dire che io non ci era entrato per niente in quella liberazione, ma egli prendendo le mie parole come un atto di umiltà, mi colmava di tante finezze e ringraziamenti che n'era tutto confuso.
Quel zelantissimo prevosto era stato due mesi e mezzo in carcere. Causa di ciò fu aver egli fatto stampare un'orazione, con cui s'implorava l'aiuto di Dio pel Papa e aver raccomandato il denaro di S. Pietro. Il Governo ed il partito liberale stavano contro di lui. Alcuni maligni interpretando sinistramente il suo operato, lo avevano accusato per odio; e quindi la prigionia dal 22 febbraio fino all' 8 maggio. In questo giorno però il tribunale lo aveva sottoposto ad un breve dibattimento, in cui manifestatosi l'insussistenza dell'accusa, rimandavalo in libertà, e sciolto da ogni spesa, con dichiarazione che non faceasi luogo a procedimento.
Dopo le prime accoglienze, continuammo il pranzo ed io vedendo come il Vescovo fosse divenuto pensieroso, non potei fare a meno che domandargli qual pena lo affliggesse. Il Vescovo mi rispose come quel Prevosto dovesse ritornare il domani alla propria parrocchia e che il partito liberale essendo mal predisposto contra di lui, temevansi tumulti. Essere conveniente che esso Vescovo lo accompagnasse, ma per questo motivo e perchè il Governo spiava ogni suo passo e parola per colpirlo, tornargli pesantissimo quel viaggio, del quale ben volentieri avrebbe fatto a meno.
- Oh! se è per questo, io risposi, per levar d'impiccio Monsignore, andrò io ad accompagnare questo Reverendo alla sua parrocchia.
- Grazie! esclamò Monsignore respirando; è un favore grande che mi farà assumendosi le mie parti, perchè l'assicuro che ero troppo angustiato, pel timore di dover compromettere la mia persona e la mia autorità!
Questa determinazione non mi portava nessun incomodo. Era tutta strada che io già voleva fare. Il domani io doveva andare a Bottanuco parrocchia della stessa Diocesi, distante circa 10 miglia da Bergamo, a predicare e visitare un Seminario. Per recarmi in quel paese era necessario passare in Terno, che si trovava circa ai due terzi di strada.
Intanto questo giorno passò, lietamente. Il Vescovo mi aveva proposto di servirmi della sua carrozza per fare quel viaggio. Io ben volentieri accettai massimamente che non mi sarei sentito di farlo a piedi.
La mattina del giorno 9 montammo in carrozza, io, due altri preti, uno segretario del Vescovo, l'altro professore nel seminario ed il prevosto Bagini. Appena fummo usciti di città, subito si presentò un uomo che cavalcava un cavallino che pareva un somarello, il quale veniva già da Terno; e ci domandò: - C'è il nostro Prevosto, qui con voi?
- C’è -, gli si rispose.
- Ne ho abbastanza! Esclama; e volta indietro il suo ronzino, quindi galoppando a rompicollo, colle braccia aperte, sicchè io non sapeva come potesse tenersi in sella, volò a portare la notizia dell'arrivo del Prevosto a tutti quelli che incontrava.
Avevamo percorso un mezzo chilometro ed incontrammo una folla di ragazzi scalzi e colle gambe nude, i quali avevano fatto quel lungo cammino per essere i primi a salutare il loro pastore: - C'è il nostro parroco? gridarono ad una voce.
- C'è, c'è!
- Evviva il nostro Prevosto! Evviva!
Intanto i cavalli galoppavano ed i fanciulli ad ogni costo vollero tener dietro alla carrozza. Abbiamo avuto un bel dire: - Non stancatevi! Venite appresso pian piano; arriverete a tempo. - Non ci fu verso di arrestarli e correvano a precipizio.
A mano a mano che ci avvicinavamo al territorio di Terno, s'incontravano gruppi di gente la maggior parte di vecchi coi capelli bianchi, di vecchie che non potevano pi√π camminare senza un appoggio, di bambini e di bambine. Abbandonati i lavori domestici e rurali, venivano sulla strada incontro al glorioso prigioniero e tutti lacrimando di consolazione, esclamavano - Evviva il nostro parroco! il Signore ce lo conservi; nessuno venga mai pi√π a disturbarlo, a strapparlo dal nostro seno. - Alle lagrime, agli atti, alle voci di quella brava gente, io era agitato da profonda commozione e con me il segretario ed il professore. Il Prevosto piangeva dirottamente. Ei pensava alla scena dolorosa, lugubre della sua partenza quando fu imprigionato e la confrontava col giubilo del presente ritorno alla sua cara parrocchia.
Ma in mezzo allo spettacolo serio vi fu eziandio la parte comica.
Siccome eravamo nella carrozza del Vescovo, quella buona gente alla vista della livrea del cocchiere credeva vi fosse anche il Prelato: quindi s'inginocchiava per esser benedetta. Io diceva al Parroco che benedicesse, ma egli pretendeva che dovessi dar io la benedizione. Io mi rifiutava; finalmente il Prevosto preso il mio braccio mi sforzava di quando in quando a far dei segni di croce in aria e la gente, che vedeva la mano, curvava la fronte e si segnava.
Ed ecco finalmente il campanile e le case di Terno. Da tutte le borgate circostanti si vedeva non solo i fedeli, ma tutti parroci e molti preti della Vicaria e di altre parrocchie, parte a cavallo e parte a piedi, incamminarsi per onorare D. Ferdinando Bagini. Si udivano le campane suonare a festa e continui li spari de' mortaletti.
All'entrata del paese aspettava una folla enorme di popolo di ogni età e di ogni condizione. La facciata della parrocchia, le case, gli archi trionfali, tutto era coperto di arazzi a varii colori. Sulla piazza della chiesa attendeva il sindaco col municipio; e la parte migliore dei parrocchiani. Qui erano pronte le ovazioni.
Al comparire della carrozza si udì un brontolio indistinto, ma non voci ostili, che partiva da qualche crocchio di liberali; ma tosto cessò quando costoro e tutti gli altri videro ai fianchi del parroco un altro personaggio che aveva il cappello differente da quello dei preti lombardi. S'interrogavano a vicenda chi fosse quel prete e facevano le meraviglie del mio cappello alla piemontese, il quale a tre punte colle falde strettamente accartocciate, faceva singolare contrasto con quello degli altri ecclesiastici le cui falde sollevavansi maestosamente come tre vele. Credettero essi pure che io fossi il liberatore del parroco.
In questo primo istante non si udirono applausi, ma appena entrati noi tra le case, ecco la guardia nazionale schierata in gran tenuta, presentare rispettosamente le armi, e sparare tutti i fucili in aria, e a questa salva rispondere le sinfonie della banda municipale. Gli applausi e le grida di gioia andavano alle stelle e soffocavano il suono della banda. - Viva il nostro parroco! - erompeva da migliaia di petti! Io pensava tra me: - Oh santa religione cattolica, quale forza, quale potenza hai sul cuore dell'uomo! Quanti vi saranno qui i quali avranno forse l'anima indurita nel male; eppure spinti da un interno irresistibile impulso, non possono fare a meno di prestare omaggio e di venerare i servi del Signore!
Ma la carrozza non potendo procedere, tanto fitta era la moltitudine, fece una larga volta lasciando la via principale e andammo a fermarci sotto il muro che circondava il giardino parrocchiale. Il popolo aspettava dalla parte opposta dei fabbricati sulla piazza della chiesa. Noi fatta venire una scaletta salimmo lassù, ma quando fummo sul muro ci trovammo ben impacciati. Come fare a scendere? Nell'interno non ci erano scale. Bisognava adunque che uno di noi si spenzolasse e calasse il primo. - Scende Lei o scendo io? Si dicemmo a vicenda: e sceso il primo prendendo un leggero stramazzone, aiutò a scendere gli altri. Ma quando fummo a terra, ecco il popolo, accortosi di quella manovra, irrompere nel giardino, e riempirlo così da non poterci più muovere. Non si sapeva più come fare per poter giungere alla chiesa, ma in buon punto il campanaro venne in nostro soccorso, e dopo sforzi inauditi potemmo entrare in sagrestia, passando per una porticina. Quivi erano convenuti tutti i parroci dei dintorni.
La chiesa era stivata di gente ansiosa di udire la voce del suo pastore; ma egli profondamente commosso, non poteva articolar parola. Io feci allora osservare a tutti quei sacerdoti, che sarebbe stata cosa convenientissima indirizzare qualche parola alla popolazione. Quindi invitai in particolare qualcuno di quei reverendi a salire in pulpito, ma tutti si rifiutarono - Io non son pronto, dissero; non si pensava che ci dovesse esser predica; è troppo facile compromettersi; è una circostanza spinosa; monti lei in pulpito!
- Ebbene conclusi, vedendo gli occhi di tutti volti a me: monterò io! E comparvi innanzi all'udienza col cappello nella mano sinistra e il mantello sul braccio destro. Incominciai a ringraziare i fedeli dell'accoglienza fatta al Prevosto; li invitai a ringraziare la Divina Provvidenza che spesso permette tribulazioni, le quali eziandio nella vita presente non di rado sono compensate da Dio con grandi consolazioni; loro raccomandai di perseverare nella venerazione verso un sì degno sacerdote, riconoscendo sempre nelle parole di lui la voce di quel Dio di cui egli è ministro; accennai ai doveri del popolo verso il loro pastore; conclusi col parlare della carità, vincolo soave tra il parroco e i suoi parrocchiani.
Mentre io parlava si udivano nella chiesa continui singhiozzi ed io stesso a stento poteva trattenere le lagrime.
Quindi fu intonato un solenne Te Deum e si fini colla benedizione del Venerabile. Appena questo fu riposto, la gente si affrettò ad uscire di chiesa, perchè nessuno voleva ritornare a casa senza prima dare un figliale saluto al padre delle anime loro. La casa parrocchiale fu in un istante assediata dalla moltitudine che voleva vedere il parroco.
Invano i militi della guardia nazionale tentavano rattenere quell'agglomerazione tumultuosa che non era senza pericoli. Allora si combinò che il parroco si sarebbe messo in un luogo nel quale tutti potessero venire a baciargli la mano. D. Bosco salì sopra un muricciuolo e fatto fare silenzio a quella immensa turba prese a dire: - Ecco! Adesso il vostro parroco si porrà qui in un luogo onde voi possiate non solo vederlo, ma ancora baciargli la mano! - Una voce unanime partì allora dalla folla: - Bravo, bravo! L'ha pensata bene; - Ma però, io replicai, vi raccomando  di non spingervi a lui tutti in una volta, perchè come avete visto è così stanco, che non può più stare in piedi e se lo opprimete ancora lo farete morire. Andate dunque adagio uno per volta a baciargli la mano. - Ciò detto scesi giù. Il parroco si mise contro un muro perchè non lo gettassero a terra e prima in piedi e poi seduto porgeva la mano ai suoi parrocchiani sempre lagrimando per la divozione che gli professava il suo popolo. La sfilata durò due ore.
La predica, per grazia di Dio, aveva ottenuto il suo effetto. Gli animi ostili al parroco si volsero a benevolenza, perchè io non aveva fatto nè allusione nè recriminazioni; la gran maggioranza del popolo che lo amava grandemente era fuor di sè dalla contentezza! e quello fu giorno di gioia e di festa per tutti.
Appena ebbi pranzato partii subito per Bottanuco, col professore e col segretario. Quivi il Vescovo aveva collocati nel suo piccolo Seminario i Chierici di Filosofia e di Teologia, avendo i Francesi occupato il grande Seminario di Bergamo nel tempo della guerra, ed essendovi rimasti anche dopo lungamente. Io era contento. Appena giunto, m'intrattenni famigliarmente coi chierici, e fummo subito amici, quindi si andò a cena; dopo tenni loro un breve discorso, e infine andai a dormire, come stassera farete anche voi. Buona notte. - Fin qui D. Bosco.
Noi aggiungeremo ciò che non disse ai giovani. Egli era stato anche a Chiuduno ove il parroco Calvi Giuseppe pel suo zelo si meritava le ire dei cattivi. Ritornato presso Mons. Speranza gli espose l'esito della missione confidatagli e le opposizioni che avrebbe ancor potuto incontrare Don Bagini. La sua prigionia era dovuta specialmente alle replicate accuse di un prete perverso; e il Vescovo scoperte le trame, comandò a quel prete, pena la sospensione, di uscire in poche ore dal territorio parrocchiale di Terno.
D. Bosco parlò anche al Vescovo della visita sua ai chierici, e fece la proposta di ritornare egli stesso l'anno venturo a predicare gli esercizii nel seminario di Bergamo. La sua offerta venne accolta con entusiasmo, e i chierici ne fecero festa. D. Bosco a Bottanuco aveva dette loro parole così dolci e così consolanti che tutti ne erano stupiti e si avvidero di quale santità e di quale sapienza il Signore avesse arricchito il suo servo.
D. Bosco espose eziandio a Monsignore il progetto di provvedere maestri e professori per la sua diocesi, mandando preti e chierici a subire gli esami per ottenere lauree e patenti in quel maggior numero che fosse possibile. Monsignore essendo contrario a questa idea, e di più intransigente in ogni cosa che riguardasse la sua giurisdizione, rispose dicendo non permettergli la coscienza di piegarsi in nessun modo verso i persecutori della Chiesa. Tuttavia non era uomo da misconoscere i vantaggi di questo progetto. Rimase quindi soprapensiero e come furono a pranzo, interrogò di bel nuovo D. Bosco, esponendo come non credesse lecito sottomettere, come professori e maestri, i suoi preti all'ispezione secolare. Toccare ai Vescovi dirigere l'istruzione del popolo e non poter essi rinunciare al proprio diritto.
D. Bosco rispose: - Dirò poche parole per non far questioni. O i pastori della Chiesa si gettano avanti e riprendono con questo mezzo l'istruzione della gioventù prevenendo i laici, e allora le cose andranno bene: ovvero si ritirano e stanno inerti ed allora da qui a 10 anni l'empietà avrà il suo trionfo nelle scuole.
Il Vescovo credeva, come tanti altri, che quella rivoluzione fosse cosa di un momento e che l'ordine avrebbe ripreso il suo antico posto. Don Bosco insistette assicurando che la rivoluzione sostenuta da tutti i mezzi potenti, de' quali può disporre un governo regolare, aveva preso stabile dimora nei nostri paesi e Dio solo poter sapere quando, dopo molti anni, sarebbe accaduta, col suo aiuto, una ristorazione dell'autorità Ecclesiastica. Le speranze umane essersi ormai tutte dileguate, e non veder nessun barlume neppur lontano che indicasse cessare quello stato di cose. I Governi esteri essere tutti contrarii alla Chiesa.
Monsignore non volle togliersi dalle sue illusioni e rimase incredulo ai pronostici di D. Bosco; ma dopo qualche anno gli scriveva: - Avevate ragione, ma ora forse è troppo tardi.
In Bergamo D. Bosco, sempre pi√π riconoscente alla famiglia De Maistre, aveva visitata la figlia del Conte Rodolfo, vedova a 19 anni del Conte Medolago, e si affrettava a dar notizie di lei, che sapeva essere vivamente desiderate, al Conte padre molto avanti negli anni che era in Francia a Beaumesnil.
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