I giovani alle dimostrazioni politiche - Semi di disunione - Disgustoso incidente - Invito respinto - Nuovo abbandono - Seconda muta di spirituali esercizi - Ho perduto i peccati - Rovescio delle armi piemontesi
del 10 novembre 2006
 I giorni del 1848 e del 1849 furono terribili per Don Bosco. I preti erano fra di loro in discordia, e direi quasi in lotta, per le opinioni politiche dei liberali e dei così detti retrivi. Il popolo subornato dai settari astiava il clero, accusandolo di retrogrado e di nemico dell'indipendenza nazionale. Certi distinti personaggi, anche buoni, si dimostravano sempre contrari a D. Bosco per la novità delle sue opere, per il decoro compromesso, dicevano essi, del ministero sacerdotale, causa il famigliarizzare del prete di Valdocco coi giovani più scapestrati della città. Monsignor Fransoni, il suo più valido appoggio, era in Svizzera. In mezzo ad una vita di tante angustie, ad un'altra prova ancor più pericolosa di quelle che prima aveva attraversate, veniva esposto il nostro oratorio.
Sapendo il demonio che un regno, una società, una famiglia in discordia non può a lungo durare e si scioglie; e perciò dopo di aver fin da principio attentato indarno di distruggere l'opera di D. Bosco colla malevolenza degli illusi, colle calunnie e pur colle minacce, egli si appigliò in ultimo al mezzo della disunione. Semi di divisione erano stati, con poco buon esito, gettati fin dagli anni addietro; ma in appresso questi si svilupparono disgustosamente tra parecchi degli aiutanti di Don Bosco, che dalla città venivano a fare il catechismo e la scuola e ad intrattenersi in ricreazione coi giovani. Parecchi, fissi nelle loro idee di liberalismo e di Costituzione, si lasciavano andare a seconda della corrente. Parteggiavano costoro per certi messeri, che si struggevano di voglia di deporre le divise clericali; ne avevano scritto sui giornali, e sollecitando i confratelli con lettere, proponevano l'abbandono del cappello triangolare e dei calzoni corti. La proposta incominciava ad attecchire: per la città si vedevano parecchi del clero senza collare con cappello rotondo o a cilindro e panni lunghi in gamba; e i liberali promovevano questa trasformazione, con eccitare i monelli a motteggiare e insultare i preti che portavano l'antico costume. Un giorno un di que' sacerdoti, conoscendo l'impulso che avrebbe dato alle nuove idee l'esempio di D. Bosco, adducendo il parere degli altri gli fu dattorno a fine di convertirlo ai suoi progetti di riforma nel vestiario. D. Bosco si pose a ridere e poi domandò:
 - Avete già parlato in proposito con D. Cafasso?
 - Non ancora.
Ebbene cominciate indurre a portare i calzoni lunghi e il cilindro il Canonico Anglesio, D. Cafasso e il Teol. Borel. Quando si vedranno questi tre modelli di sacerdoti, che io venero e rispetto, andar vestiti a questa foggia, chi sa che non ne venga la voglia anche a me.
I Vescovi non tardarono a condannare tali sciocche pretensioni; ma coloro che trovavano pesante un punto così importante di ecclesiastica disciplina non potevano essere elementi di ordine negli oratori. Infatti questi, ai quali si erano uniti alcuni laici, incominciavano a pretendere che tutti i giovani prendessero parte in corpo ai pubblici spettacoli e feste, ed in luoghi dove certi evviva non dovevano tardare a mutarsi in grida di morte; altri scaldavano loro la testa esternando e propugnando alla loro presenza opinioni bizzarre in materia di religione e di politica. D. Bosco non lasciava di far notare che la politica da insegnarsi ai giovani dell'Oratorio, doveva consistere nell'allontanarli dal mal fare, renderli buoni cristiani, docili figliuoli di famiglia, affinchè divenissero un giorno utili ed onorati cittadini. Quindi raccomandava ai suoi colleghi di ben guardarsi dall'insinuare negli animi giovanili fantasie ed idee per lo meno inopportune, le quali altro non avrebbero fatto che distrarli dai propri doveri.
Ma i saggi suoi ammonimenti non erano presi in buona parte, e si continuarono a sostenere le nuove teorie. D. Bosco allora fu costretto a disapprovarle e a correggerle dal pulpito. Benchè egli ciò facesse con molta prudenza, si accentuò sempre più viva l'avversione di alcuni de suoi coadiutori verso di lui e commentavano le sue parole con scherzi e derisioni. Il fermento si diffondeva anche fra i giovani, eccitato dalla curiosità; gruppi di questi non intervenivano talora alle sacre funzioni per correre a godere degli spettacoli di tanta gente, grida, canti e suoni. Colpivano la loro fantasia i cori dei fanciulli vestiti all'italiana, cioè con tunichette e calzoni di velluto nero, con feltro ornato di pennoncello in capo sotto il quale scendevano inanellati sulle spalle i capelli; un pugnale alla cintura e sul petto un piccolo scudo rappresentante l'Italia, appeso ad una catenella indorata. Ritornati all'oratorio nella domenica seguente, coi loro racconti invogliavano i compagni più spensierati, di fare una corsa in città. La dissipazione faceva diminuire la frequenza dei sacramenti, e molte cose D. Bosco doveva tollerare per non compromettersi; tuttavia la sua presenza era stata fino allora un gran ritegno alla maggior parte dei giovani.
Intanto imprudenti bollettini della guerra, inventati dai giornalisti, avevano celebrate immaginarie vittorie degli Italiani e promettevano imminenti altre buone notizie, sicchè Torino di bel nuovo si agitava in dimostrazioni di trionfo. Il fatto però stava che per un mese i due eserciti non si erano più mossi, causa un accomodamento proposto dall'Inghilterra. Solo il 13 luglio Carlo Alberto aveva finalmente ordinato che si circondasse Mantova, e il 18 i Piemontesi assalivano a Governolo un grosso corpo di Austriaci e lo sconfiggevano. Con ciò crebbero all'infinito le acclamazioni, alle quali si mescolavano grida e applausi anticristiani. In questo stesso giorno il Parlamento subalpino approvava la legge sopprimente la Compagnia di Gesù e la Congregazione delle Dame del Sacro Cuore, dichiarando i loro beni mobili ed immobili devoluti irrevocabilmente allo Stato. Tutti i deputati, membri del clero, votarono in favore della soppressione. Ed ecco presentarsi a D. Bosco due teologi, incaricati dell'Oratorio di S. Luigi, e chiedergli risolutamente licenza di poter condurre i giovani colla bandiera e colla coccarda tricolore sul petto per le strade di Torino a prender parte alle gioie politiche. D. Bosco allora uscì dal suo riserbo, e non solo negò di permettere, ma proibì con severità simili piazzate. Allora i due teologi e vari altri chierici infatuati dalla “Gazzetta del Popolo” si dichiararono apertamente contro D. Bosco, e protestarono che le dimostrazioni si sarebbero fatte a dispetto di chiunque. Bisognava compatirli. Era un vero delirio generale per l'indipendenza d'Italia, era in tutti una febbre per la guerra. Chi non si trovò a quel tempi non può farsene un'idea.
La protesta dei due teologi fu mantenuta, e nel mattino della seguente Domenica condussero per Torino alle feste nazionali i giovani di Porta Nuova. D. Bosco non esitò, e, raccomandato l'Oratorio di Valdocco al Teol. Borel, che era accorso dal Refugio al suo invito, andò nel dopopranzo a Porta Nuova. Abboccatosi col Direttore, gli disse, come, abbastanza chiaramente, egli avesse dimostrato di non volere che alcuno degli addetti agli Oratorii s'immischiasse in partiti o crocchi politici; egli intendere che ogni cosa procedesse da un solo principio d'autorità e che si ottemperasse fedelmente ai suoi ordini; e siccome questi erano stati in tal modo trasgrediti, più non aver egli bisogno di un aiuto che riusciva di danno al Regolamento ed alla concordia. Quell'ecclesiastico, che doveva fare l'istruzione ai giovani, sorpreso da queste risolute parole, sul momento non seppe che cosa rispondere; e D. Bosco replicò:
 - Stasera la predica la faccio io! - E salito il pulpito, predicò sulle verità eterne, senza dir motto nè pro nè contro a ciò che era accaduto al mattino! Data la benedizione, il teologo gli chiese ancora chi farebbe la predica la Domenica seguente, ed egli rispose: - La farò io!
Irritati da quella comparsa di D. Bosco e delle sue giuste rimostranze, gli sconsigliati stabilirono di prendersi una rivincita.
La domenica seguente verso le due pomeridiane uno dei giovani più fidi ed assennati stava in un angolo del nostro cortile in Valdocco leggendo “L'Armonia”. In quel punto ecco entrare nell'oratorio alcuni di quei cotali col petto fregiato della coccarda, ed uno di essi colla bandiera tricolore in mano. Quest'ultimo, persona per altro di dottrina e di zelo, si accosta a chi leggeva “L'Armonia”, e “ Vitupero, prese a gridare, è tempo di finirla con questi rugiadosi! ”. Così dicendo strappa di mano a colui il foglio cattolico, lo fa in pezzi, lo getta per terra, e sputandogli sopra, lo pesta e calpesta furiosamente. Dato questo primo sfogo, si avvicina a D. Bosco, che era vicino alla pompa, circondato da vari fanciulli, invitandolo a mettersi anche lui una coccarda sul petto, e tratta fuori di tasca un'altra gazzetta chiamata “L'Opinione”, - Questo sì che è un buon giornale, disse; questo e non altro si dovrebbe leggere da tutti gli onesti cittadini. Non è più tempo di dar ascolto alle chiacchiere dei retrogradi e degli intransigenti; bisogna operare. - A quell'atto e a queste parole D. Bosco rimase sbalordito e non volendo che si facessero ulteriori scandali in mezzo al giovani, lo pregò a riserbare quelle dispute in privato. “ No, signore, ripigliò colui, oramai non vi deve più essere nè privato nè segreto, ma tutto va posto in chiara luce ”.
In quel momento il campanello chiamò i giovani in chiesa, e D. Bosco sperò che appiè dell'altare gli spiriti si sarebbero calmati; ma per mala sorte non fu così. Quel sacerdote che tempo prima era stato incaricato di fare la predica in quella sera, salito sulla piccola bigoncia tirò fuori una diceria deplorabile. Per circa mezz'ora altre parole non rimbombarono, alle orecchie della giovanile udienza, che emancipazione, indipendenza, libertà. Molti giovani fremevano, altri ridevano, e taluni alla parola libertà, libertà facevano la rima, ripetendo sottovoce in dialetto piemontese: torototèla torototà. Chi di più ne ebbe a soffrire fu il povero D. Bosco, che in cuor suo amaramente ne pianse. “ Questa non me l'aspettava, andava dicendo in sagrestia; il diavolo me l'ha fatta troppo grossa. Dio mio, disperdete gl'insani consigli, e fate che i miei cari giovani non ne ricevano scandalo ”. Terminate le sacre funzioni, egli intendeva di chiamare a sè il povero traviato, e in bel modo fargli conoscere il suo fallo: ma non ebbe tempo, che l'altro, appena uscito di cappella, invitò colleghi e giovani ad associarsi con lui, intonò a squarciagola un inno popolare, e con un centinaio di persone uscì dall'oratorio facendo sventolare farneticamente la sua bandiera. La squadra ribellatasi andò a far sosta presso al monte dei Cappuccini. Colà fu fatta ed accettata la proposta di non più intervenire all'oratorio, se non invitati e ricevuti in forma solenne, vale a dire colle bandiere in mano e colle medaglie e coccarde in petto. D. Bosco, quantunque afflitto da questo disordine, non si smarrì d'animo e non cedette di un punto alle pretese di coloro: sicuro di sostenere un principio buono, sapeva che bisognava venire a risoluzioni gravi quando si tratta di combattere principi falsi e funesti nelle loro conseguenze. D'altra parte vedeva non essere possibile mettersi d'accordo almeno per allora colle opinioni di tali suoi coadiutori. Perciò lungo la settimana scrisse un biglietto a tutti quelli che, andando per fare il catechismo, solevano invece esporre le loro idee politiche. Si esprimeva con frasi molto cortesi; li ringraziava di quanto avevano fatto per l'oratorio nel tempo passato; e intanto li assicurava che più non occorreva l'opera loro, pregandoli, anzi proibendoli di porre d'allora in poi ancor piede nell'oratorio.
Per questo inaspettato licenziamento, inaspriti quei signori, si posero tutti d'accordo nel fare il possibile per allontanar da D. Bosco i giovani, e visitandoli alle loro case e alle loro botteghe, o aspettandoli nelle vie che mettevano ai due oratori, riuscirono a tirar via da D. Bosco tutti i pi√π grandi. I chierici e i preti che prima prestavano l'opera loro, per motivi anche giustificati, avevano quasi tutti abbandonato D. Bosco Non piccolo numero di catechisti e maestri adulti erano stati chiamati a prendere le armi e si trovavano al campo. Eziandio quei catechisti, che ancora gli rimanevano, furono spinti ad andarsene da' pi√π inviperiti. Alcuni pochi i quali continuavano a venire per fare il catechismo, erano trattenuti dal rispetto umano o dal bisogno che avevano di
qualche favore od aiuto. Il Seminario e il Convitto Ecclesiastico, occupati dalle truppe, non potevano mandargli quegli aiuti straordinari che talora gli avevano dato. L'Oratorio di Valdocco rimase quasi deserto, e mentre prima nei giorni festivi era animato da cinquecento e più giovani, per qualche Domenica non se ne videro più di trenta o quaranta. Non tardava però questo numero a crescere a vista d'occhio e riempire, forse più di prima, i cortili; senonchè erano tutti piccoli.
Per questo scisma ed abbandono D. Bosco ebbe a trovarsi di nuovo per qualche tempo pressochè solo sotto il peso dell'Oratorio. Il mattino dei giorni festivi sino a mezzogiorno in chiesa, a scuola, in ricreazione, altro sacerdote non si vedeva coi giovani, fuorchè il povero D. Bosco, ed uno o due altri, i quali, perchè altrove nel sacro ministero già occupatissimi, non facevano nell'oratorio che una breve apparizione.
Nel rimanente del giorno restava egli solo ad assistere, raccogliere i giovani, condurli in chiesa, e far loro il catechismo. Intonava e cantava il vespro senza mettersi la cotta, perchè mentre cantava doveva uscire dal coro e sorvegliare acciocchè i giovani stessero buoni. Poi montava in pulpito a fare la predica, ed anche in quest'atto senza cotta, perchè talora gli toccava discendere per mettere in ordine qualche classe, o per far stare zitto qualcuno mutandolo di posto, o per condurre fuori di chiesa un disturbatore incorreggibile. Quindi ascendeva di bel nuovo sul pulpito per continuare il suo argomento e dava poi la benedizione. Finite le funzioni, s'intratteneva coi giovani fino a notte oscura e infine andava ad accompagnarli fino alle prime case della città, perchè non avessero cattivi incontri nei campi solitari di Valdocco.
Ma quantunque D. Bosco si trovasse così abbandonato, e ormai sfinito per le fatiche, non gli mancava un grande conforto: e questi era sempre il Teol. Borel. Occupato nell'Istituto dei Refugio, nelle prigioni dello Stato, e in cento altri luoghi della città, quell'uomo, piccolo di statura, ma grande di animo trovava ancor tempo per venire a lavorare nell'Oratorio. Non di rado egli rubava le ore al sonno per recarvisi a confessare; sovente negava al corpo stanco il necessario riposo e vi si portava a predicare nella sera delle teste, per sollevare l'amico almeno da questa fatica. Sia eterna lode a quel sacerdote incomparabile!
Una cosa intanto stava molto a cuore a D. Bosco: di avere un discreto numero di giovani ben fondati nella virtù, i quali fossero come sale e luce in mezzo agli altri; e cercò modo di formarseli. A questo fine egli stabilì di tenere anche in quest'anno un corso di esercizi spirituali, memore dei frutti ricavati da quelli dell'anno antecedente. Ne fece parola con alcuni che gli parvero meglio disposti; con i suoi consigli li aiutò ad ottenere dai parenti o dai padroni una settimana di libertà per quest'uopo, e così ne raccolse una piccola schiera. Preparate le cose, che occorrevano, e previe le dovute intelligenze coi predicatori, che furono il Rev.mo Sig. Giuseppe Gliemone Canonico di Rivoli per le meditazioni, e il Teol. Borel per le istruzioni, la sera di una domenica di luglio si diede principio ai santi Esercizi, che terminarono al mattino della domenica consecutiva colla Comunione e coi ricordi di perseveranza. I giovani esercitandi si fermavano tutto il giorno all'oratorio, vi udivano mattino e sera le meditazioni e le istruzioni, mangiavano con D. Bosco, ma non essendovi letti per tutti, nella sera una parte si recava alla propria casa pel riposo. I predicatori scelti da D. Bosco parevano fatti appositamente all'uopo; quindi le verità, gli insegnamenti, le massime, gli esempi e i fatti edificanti, che vennero esposti, non potevano essere meglio adattati alla condizione dell'udienza, e meglio attirare la giovanile attenzione. Col divino aiuto vari giovani riformarono affatto la loro vita, e cominciarono a tenere una condotta così esemplare, che fu gran bene per loro e per tutto l'Oratorio. In appresso alcuni si fecero religiosi, gli altri rimasero nel secolo, ma vivendo sempre da buoni cristiani.
Un lepido episodio ci occorre qui alla mente, che ci venne raccontato siccome avvenuto in questa occasione. Un buon giovanetto, desideroso di fare la sua confessione generale, colla maggior precisione che fosse possibile, si aveva scritti i suoi peccati. Fosse scrupolo o fosse realtà, fatto sta ed è che ne aveva riempito un piccolo quaderno, con l'intenzione di mandarli poscia a memoria o leggerli appiè del confessore. Ma, non si sa come, un giorno egli perdette il volumetto delle ingloriose sue gesta. Tocca e ritocca in tasca, cerca e ricerca per ogni parte, ma il manoscritto non si trova. Allora il povero ragazzo cade nella desolazione; si sente a gonfiare il cuore, e giù un pianto dirotto. Per buona ventura, ma all'insaputa di tutti, il quadernetto era stato trovato da D. Bosco.
Intanto vedendolo singhiozzare a quel modo, alcuni compagni, dopo averlo inutilmente tempestato che loro ne dicesse il perchè, lo condussero a D. Bosco.
 - Che cosa hai, mio caro Giacomino? - gli domandò questi - hai male? hai dispiaceri? ti hanno dato? - e intanto paternamente lo accarezzava per fargli rallentare il pianto.
Il buon ragazzo asciugatesi un tantino le lagrime, preso un po' di lena, rispose:
 - Ho perduto i peccati!
A queste parole i compagni diedero in uno scroscio di risa, e D. Bosco, che aveva tosto capito, facetamente soggiunse: - Te felice, se hai perduto i peccati, e te felicissimo se non li trovi più; perchè senza peccati andrai di certo in Paradiso.
Ma quel buon figliuolo credendo di non essere stato inteso riprese: - Ho smarrito il quaderno dove li aveva scritti.
Allora D. Bosco, tratto di tasca il gran segreto: - Sta tranquillo, disse, mio caro, che i tuoi peccati sono caduti in buone mani; eccoli qua.
A quella vista il poveretto rasserenò la fronte, e sorridendo conchiuse:
 - Se avessi saputo che li aveva trovati lei, invece di piangere mi sarei messo a ridere: stasera poi andandomi a confessare le avrei detto: - Padre, io mi accuso di tutti i peccati che lei ha trovati e che tiene in tasca.
Le radunanze belle, per raccoglimento e fervore, si erano tenute nel piccolo coro. I giovani erano tredici, fra i quali Reviglio Felice, Buzzetti Giuseppe e Gastini Carlo. Vi si trovarono presenti Arnaud Giacinto, Sansoldo, Galesio Nicola, Costantino Giovanni, Cerruti Giacomo, Gravano Giovanni, Borgialli Domenico. D. Bosco li assisteva e non mancò una sola volta alle prediche. La calma di quegli esercizii faceva contrasto con l'agitazione grandissima che regnava in città in questi stessi giorni. Il Can. Glielmone, che si recava mattino e sera da casa sua all'Oratorio, scriveva poi a D. Bonetti, come allora nel traversare le piazze e le vie gli sembrasse venuta l'ora del finimondo, tanto rabbiose erano le tumultuanti dimostrazioni.
La sconfitta delle armi Italiane accendeva tutte quelle passioni. Radetzki aveva presa l'offensiva con più di 60.000 uomini. Il 22 luglio, dopo un giorno intiero di eroica resistenza, i Piemontesi sgombravano Rivoli, e il 23 gli Austriaci avevano assalite ed occupate le alture di Somma campagna e di Custoza, dalle quali però avevali ricacciati Carlo Alberto il 24 con sforzi di supremo valore. Ma il giorno dopo il Re sopraffatto dal numero dei nemici e costretto ad abbandonarle, minacciato di essere preso anche di fianco, perduta Volta, che il generale di Sonnaz aveva tentato invano di ricuperare, svanita ogni speranza, si ritirava. Il 31 ripassava l'Adda, col suo esercito mancante di vettovaglie, estenuato dalle fatiche e dagli stenti, avvilito, disordinato, e scemato continuamente per la fuga dei soldati.
E il 25 luglio il Governo decretava una chiamata sotto le bandiere, di tutti i capaci alle armi, e poi si rivolgeva ai parroci acciocchè persuadessero il popolo della necessità e santità di quella guerra, trattandosi di difendere le istituzioni, la monarchia, e l'indipendenza politica della Santa Sede; poichè l'Austria vittoriosa la distruggerebbe e toglierebbe al Papa le Legazioni. Ricorreva anche ai Vescovi, perchè il clero implorasse aiuti dal Signore per la patria pericolante, mentre parecchi padri cappuccini, colla necessaria licenza, percorrevano le città e le campagne, predicando nelle chiese è nelle piazze la crociata per la causa nazionale.
 
 
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