Proposte d'impieghi - Consiglio di D. Cafasso - Il Convitto Ecclesiastico di Torino - D. Bosco nell'avviarsi a Torino - Abbandono nella Divina Provvidenza - Gli istrumenti di essa.
del 18 ottobre 2006
Le ferie autunnali volgevano omai al loro termine, e Don Giovanni Bosco, che contava già i suoi ventisei anni, doveva pensare al proprio avvenire e formarsi una posizione.
Tre impieghi gli venivano offerti. Il primo era di maestro in casa di un nobile signore genovese, collo stipendio di mille lire annue. I parenti e gli amici cercavano di indurre Margherita a persuadere D. Giovanni sulla convenienza di accettare questo posto. Siccome sarebbe stato provvisto di vitto e di vestito, l'intiero stipendio avrebbe migliorato le condizioni di sua famiglia. Senonchè la buona Margherita, intravedendo come dietro alle portiere di seta non regnava sempre l'innocenza di costumi, rispondeva: - Mio figlio in casa di signori?.. Che cosa ne farebbe egli di mille lire, che cosa ne faccio io, che cosa ne farà suo fratello, se poi Giovanni avesse a perdere l'anima? - Gli era stato proposto eziandio l'ufficio di Cappellano nella sua borgata di Morialdo coll'aumento della retribuzione solita a darsi sino allora al prete; anzi quei borghigiani nelle loro insistenze avevano dichiarato di essere pronti a duplicargli lo stipendio pel desiderio di ritenerlo in mezzo ai loro figliuoli come maestro. Il terzo impiego era quello di Vicecurato in Castelnuovo, ove era molto amato dai suoi compatriotti e specialmente dal Teologo Cinzano.
D. Bosco, prima di abbracciare un partito, era solito prefiggersi in primo luogo per fine la gloria di Dio e la salute dell'anima, quindi pensava bene se con essa avrebbe conseguito questo così nobile scopo. Pregava perciò Iddio che lo illuminasse, e nel tempo stesso dimandava consiglio a persona dotta e pia. Fatto moralmente certo che il suo disegno era di gradimento al Signore si risolveva a compierlo. Questa fu sua pratica costante per tutta la vita.
Trattandosi adunque di prendere una definitiva deliberazione in cosa di tanta importanza, D. Bosco si portò a Torino per chiedere consiglio a D. Giuseppe Cafasso, affine di conoscere e fare la volontà di Dio. Il Santo Sacerdote ripetitore delle conferenze morali nel Convitto Ecclesiastico di San Francesco d'Assisi, il quale da parecchi anni era divenuto del nostro D. Giovanni guida nelle cose spirituali e temporali, ascoltò tutte le profferte di buoni stipendii, le insistenze dei parenti e degli amici, il suo buon volere di dedicarsi tutto al lavoro evangelico, e poi gli disse senza esitare un istante: - Voi avete bisogno di studiare la morale e la predicazione: rinunziate per ora ad ogni proposta e venite al Convitto.
Che cosa sia il Convitto Ecclesiastico di Torino non v'è sacerdote omai, almeno in Italia, che nol sappia. Però a soddisfazione di tutti i lettori, ne darò un breve cenno.
Sul principio di questo secolo fioriva in Torino un degnissimo ecclesiastico, che fu il Teologo Collegiato Luigi Guala, Rettore della Chiesa di S. Francesco d'Assisi. Uomo di costumi irreprensibili, di pietà sincera, disinteressato, ricco di scienza, di prudenza e di coraggio, si faceva amare dai buoni e stimare dai cattivi. Devotissimo del Sommo Pontefice, nei tempi del dominio francese, insieme coi P. Lanteri ed altri insigni personaggi, aveva tenuta una attivissima corrispondenza con Pio VII prigioniero a Savona, informandolo di quanto accadeva e trasmettendo alla Chiesa le volontà dei Papa su molti punti di disciplina ecclesiastica. Anima di un Comitato costituitosi per soccorrere il Sommo Pontefice, con generose offerte, il Teol. Guala ed il Banchiere Gonella caddero in sospetto della polizia, e solo furono salvi per un grazioso equivoco. Il mandato di cattura era spiccato contro il Teologo Gonella e il Banchiere Guala. L'essersi i gendarmi messi in cerca inutilmente di persone così mal designate, pose sull'avviso gli imputati, i quali fatte scomparire tutte le carte compromettenti, si nascosero, finchè per buoni uffici di personaggi altolocati e per mancanza di prove ottennero di non essere più molestati.
Questo pio e dotto sacerdote adunque, che conosceva assai bene i bisogni de' suoi tempi, vide essere cosa importantissima che i giovani ecclesiastici, compiuti i corsi di studio nel Seminario, attendessero per qualche tempo all'acquisto della morale pratica, innanzi di entrare nell'esercizio del sacro ministero. Altamente persuaso di ciò, il saggio Teologo fin dall'anno 1808 cominciò ad esercitare alcuni novelli sacerdoti con apposite conferenze morali in sua casa. La cosa continuò così sino all'anno 1818, quando, cessato già in Piemonte il governo di Napoleone I, e sgombrato dalla soldatesca il Convento dei Minori Conventuali presso la Chiesa di San Francesco d'Assisi, il Guala vi stabilì un Convitto con apposito Regolamento per giovani preti. Il re Carlo Felice nel 1822 autorizzavalo ad accettare donazioni e legati, ed assegnavagli per abitazione la parte invenduta del Convento soppresso. L'Autorità ecclesiastica porse essa pure il suo appoggio efficace alla santa instituzione, e Monsignor Colombano Chiaverotti, Arcivescovo di Torino, con suo Decreto dei 4 giugno 1823, nominava Rettore del Convitto lo stesso Guala ed approvavane il Regolamento da lui compilato. Meditazione, lettura spirituale, due conferenze al giorno, lezioni di predicazione, comodità di studiare, leggere e consultare buoni autori, ecco le occupazioni dei sacerdoti convittori.
Immenso fu il bene, che il Guala procurò alle diocesi del Piemonte, specialmente a quella di Torino, con questa fondazione. Egli riuscì primieramente a sbarbicare le ultime radici che vi restavano di Giansenismo; dottrina esecrabile, che con arbitrario e condannato rigorismo scoraggia le anime nella via dell'eterna salute e le allontana e le priva di usare alle fonti vitali della divina Redenzione. Fra le altre enormità insegnava, il penitente reo eziandio di colpe non tanto gravi non essere degno di assoluzione, se non dopo mesi ed anni di austere penitenze: la S. Comunione richiedere disposizioni angeliche ed un cristiano non essere mai preparato sufficientemente per accostarsi alla Mensa Eucaristica. Contro di questi disastrosi errori era sorto nel secolo precedente il Dottor S. Alfonso, Fondatore de' Redentoristi, e le sue opere tutte sono un antidoto efficacissimo contro di essi. Perciò il Teol. Guala si adoperò a diffondere in Piemonte le opere di questo Santo, stampate in Francia e ricevute clandestinamente per l'ostilità del Governo e de' suoi non troppo cattolici consiglieri. Valevasi all'uopo di certo Giani, scultore, nativo di Cerano in Vall'Intelvi sopra il lago di Como, suo penitente, il quale nel negozio di Giacinto Marietti a quanti si presentavano alla libreria dava a poco prezzo ed anche gratuitamente La pratica di amar Gesù Cristo, Le glorie di Maria, Il gran mezzo della preghiera, Le visite al SS. Sacramento. Ben presto questi aurei libri corsero nelle mani di moltissimi religiosi, monache, e specialmente giovani studenti. Colle opere ascetiche il Teol. Guala faceva distribuire ai sacerdoti la Teologia Morale del Santo e l'Homo Apostolicus, che ne forma il compendio. Li donava direttamente a un gran numero di sacerdoti di sua conoscenza, mentre il Giani li regalava ai parroci o ad altri ecclesiastici, quando venivano nel negozio del Tipografo Marietti per far provvista di libri; oppure ne involgeva i preziosi volumi, senza che fossero richiesti, nei pacchi di coloro che scrivendo facevano dimanda di libri.
Per questo mezzo si incominciarono a rettificare molte idee e a ridurre non pochi sul retto sentiero. Con tale santa ed eroica industria si indusse inoltre gran parte del clero a studiare i principii morali di S. Alfonso. In quei giorni era agitatissima tra i teologi la questione del così detto probabilismo e del probabiliorismo. I promotori del primo seguivano le sentenze dei Dottore Sant’Alfonso de' Liguori, le cui opere erano state dalla Chiesa lodate e proclamate immuni da ogni censura; e i fautori del secondo si attenevano invece alle opinioni di alcuni rigidi autori, la cui pratica non regolata da prudenza poteva condurre ad un rigorismo irragionevole e pernicioso alle anime. Ora il Teologo Guala colla instituzione del Convitto Ecclesiastico mirò a togliere questo dissidio, e per centro di ogni opinione ponendo la carità e mansuetudine di Nostro. Signor Gesù Cristo, riuscì a farlo cessare in gran parte, ottenendo che S. Alfonso divenisse il Maestro delle nostre Scuole di Morale, con sommo vantaggio dei fedeli e quiete delle coscienze. Egli però sul principio insegnando a' suoi allievi, dovette far leggere l'Alasia, che era il testo adottato nelle scuole, ma consultando sempre S. Alfonso, che soleva chiamare il NOSTRO SANTO. In quel tempo era cosa pericolosa combattere le opinioni Alasiane. Le lezioni procedevano colla massima circospezione, perchè, se la notizia di questo nuovo indirizzo dato agli studii della Morale fosse giunta all'orecchio dei Direttori dell'Istruzione nell'Archidiocesi, avrebbe suscitato gravi ostacoli all'opera santa intrapresa.
Braccio forte dei Teologo Guala era D. Giuseppe Cafasso, suo supplente nelle conferenze morali e poscia suo successore. Con una virtù, che resisteva a tutte prove, con una calma prodigiosa, con un'accortezza e prudenza ammirabile, con una pietà esimia e ad un tempo facile e modesta D. Cafasso fece scomparire affatto in Piemonte quell'acrimonia, che in alcuni probabilioristi ancor rimaneva contro i Liguoristi, e, cooperò efficacemente a formare un Clero dotto ed esemplare.
Una miniera d'oro nascondevasi pure nel Sacerdote torinese Teologo Felice Golzio, allora convittore. Nella sua vita nascosta egli fece poco rumore, ma col lavoro indefesso, coll'umiltà e scienza profonda, era un grande appoggio del Guala e del Cafasso, che lo amavano e stimavano altamente.
L'esercizio del ministero di questi tre Sacerdoti non si restringeva al recinto del Convitto e della Chiesa attigua, ma assai più in là si estendeva. Le carceri, gli ospedali, gli Istituti di beneficenza, gli ammalati a domicilio, i palazzi dei grandi ed i tugurii dei poveri, i paesi e le città vicine provarono i salutari effetti della carità e zelo di questi tre luminari del Clero torinese; anzi della loro luce e calore benefico, anche dopo il tramonto, godono tuttavia le Diocesi Piemontesi per mezzo dei numerosi discepoli che vi lasciarono. Tra questi basti nominare il Teologo Giovanni Battista Bertagna, compatriota del nostro D. Bosco, Vescovo Titolare di Cafarnao, per alcun tempo Coadiutore di Torino, e a sua volta esimio maestro di Morale.
Alla scuola di questi grandi modelli sacerdotali, di questi, insigni maestri era adunque invitato D. Bosco. Saggio era il consiglio di D. Cafasso. Fuori del Convitto, restava difficile a D. Bosco uno studio completo e ben fatto della morale pratica, qual era necessario per la sua futura e svariatissima missione, o perchè sarebbe stato costretto in patria ad uno studio privato ed insufficiente all'uopo, o perchè fuori di patria, essendo privo di mezzi, avrebbe dovuto procurarsi il vitto con occupazioni estranee al Sacro Ministero e con eccessive relazioni con persone secolari. Per il passato la mancanza di quel benefico Istituto aveva cagionata la scarsità di confessori abili per ogni genere di persone e quindi una certa difficoltà d'accostarsi ai Sacramenti nel popolo cristiano. Ed ora D. Bosco non si approfitterà di questa benedizione celeste per rendersi atto al governo di migliaia e migliaia d'anime, d'ogni età, di ogni sesso, di ogni classe sociale, di ogni ordine e grado sacerdotale e religioso? Il sacerdote deve aver scienza “da saper discernere tra il santo e il profano, il mondo e l'immondo” e non imporre obblighi che la legge certamente non impone. E poi i consigli di D. Cafasso erano comandi ed inspirazioni celesti per D. Bosco. E però di buon grado ne accettò il suggerimento, e generosamente rinunziando ad ogni lucroso impiego e pur alla santa soddisfazione, che lo portava ad occuparsi subito dei giovanetti del suo paese, presentendo che Iddio altri ed altri giovanetti gli avrebbe consegnato più tardi, si decise ad entrare nel Convitto Ecclesiastico.
Il 3 novembre 1841 pertanto celebrava la Messa nella Chiesa di Castelnuovo nell'atto di mettersi in viaggio per stabilirsi a Torino. Quali fossero i suoi pensieri ed affetti in quel momento solenne ci pare di trovarli riprodotti in una vecchia carta scritta di sua mano in un tempo di poco posteriore a quest'anno:
“Le parole del Santo Vangelo: Ut filios Dei, qui erant dispersi, congregaret in unum  che ci fanno conoscere essere il Divin Salvatore venuto di cielo in terra per radunare insieme tutti i figliuoli di Dio, dispersi nelle varie parti della terra, parmi che si possano letteralmente applicare alla gioventù dei nostri giorni. Questa porzione la più delicata, e la più preziosa dell'umana società, su cui si fondano le speranze di un felice avvenire, non è per se stessa di indole perversa. Tolta la trascuratezza dei genitori, l'ozio, lo scontro dei cattivi compagni, cui vanno specialmente soggetti nei giorni festivi, riesce facilissima cosa insinuare nei teneri cuori i principii di ordine, di buon costume, di rispetto, di religione; perchè se accade talvolta che già siano guasti in quella età, il sono piuttosto per inconsideratezza che per malizia consumata. Questi giovani hanno veramente bisogno di una mano benefica che prenda cura di loro, li coltivi quindi alla virtù, li allontani dal vizio. La difficoltà consiste nel trovar modo di radunarli, loro poter parlare, moralizzarli. Fu questa la missione del Figliuol di Dio: questo può solamente fare la sua santa Religione. Ma questa Religione, che è eterna ed immutabile in sè, che fu e sarà mai sempre in ogni tempo la maestra degli uomini, contiene una legge così perfetta, che sa piegarsi alle vicende de' tempi e adattarsi all'indole diversa di tutti gli uomini. Fra i mezzi atti a diffondere lo spirito di religione nei cuori incolti ed abbandonati, si reputano gli Oratorii... Quando mi sono dato a questa parte del Sacro Ministero, intesi di consecrare ogni mia fatica alla maggior gloria di Dio ed a vantaggio delle anime, intesi di adoperarmi per fare buoni cittadini in questa terra, perchè fossero poi un giorno degni abitatori del cielo. Dio mi aiuti a potere così, continuare fino all'ultimo respiro di mia vita”.
Da queste linee traspare come l'idea prima a lui manifestata nei sogni fosse quella di un solo gregge sotto un solo pastore, la missione stessa di Gesù Cristo. Anelava a radunare i fanciulli non solamente di Torino e dei dintorni, ma, quelli di tutte le nazioni della terra, cristiane e gentili, cattoliche, scismatiche, eretiche, selvaggie ed incivilite e a tutte far conoscere il vero Dio ed il suo Figliuolo Gesù Cristo. La sua carità non doveva aver limiti. “Un amor tenero verso il prossimo, scriveva S. Francesco di Sales, è uno dei più grandi ed eccellenti doni che la divina bontà faccia agli uomini”. E perciò risoluto D. Bosco esclama: Salviamo la gioventù!
D. Bosco si allontana da Castelnuovo, ma “le sue vie sono belle ed in tutti i suoi sentieri c'è la pace”. Egli è privo di mezzi umani, non ha soldi in saccoccia, ma nel suo cuore abita Gesù Cristo, e radicato nella carità e ripieno della pienezza di Dio, in lui si abbandona “che è potente per fare tutte le cose con sovrabbondanza superiore a quel che dimandiamo o comprendiamo”, e però cammina nella semplicità e con fiducia si avanza verso di quella città, che in confuso almeno gli era già stata preannunziata.
A questo suo viaggio a noi pure sembra che alludesse quando l'udimmo predicare in Alba il panegirico di San Filippo Neri. Entrò in argomento ex abrupto e in modo poetico. S'immaginò di trovarsi sovra uno dei colli di Roma, colla città distesa innanzi a sè e di vedere un giovane, il quale, stanco da un lungo cammino, si arresta assorto in gravi pensieri, collo sguardo fisso in quello splendido panorama... Quindi proseguiva: Avviciniamoci ed interroghiamolo: - Giovane, chi siete voi e che cosa rimirate con tanta ansietà?
 - Io sono un povero forestiero; rimiro questa grande città, e un pensiero occupa la mia mente; ma temo che sia follia o temerità.
 - Quale?
 - Consacrarmi al bene di tante povere anime, di tanti poveri fanciulli, che per mancanza di religiosa istruzione camminano la strada della perdizione.
 - Avete scienza?
 - Ho fatto poche scuole e non sono annoverato fra i dotti.
 - Avete mezzi materiali?
 - Niente; non ho un tozzo di pane, fuor di quello che caritatevolmente mi dà ogni giorno il mio padrone.
 - Avete chiese, avete case?
 - Non ho altro che una bassa e stretta camera, il cui uso mi è per carità concesso. Le mie guardarobe sono una semplice fune tirata dall'uno all'altro muro, sopra cui metto i miei abiti e tutto il mio corredo.
 - Come dunque volete senza nome, senza scienza, senza sostanze e senza sito intraprendere un'impresa così gigantesca?
 - È vero: appunto la mancanza di mezzi e di meriti mi tiene sopra pensiero. Dio per altro che me ne inspira il coraggio, Dio che dalle pietre suscita figliuoli di Abramo, quel medesimo Iddio è quello che....
Amate voi la Madonna? - D. Bosco a questo punto sospese il dialogo, descrisse le sembianze del giovane, il lampo degli occhi a tale domanda, il suo sorriso, la sua risposta. Finì col dimandargli: - Come vi chiamate?
 - Filippo Neri, rispose il giovane.
D. Bosco di qui entrò nel suo argomento, svolgendo ai suoi uditori la missione compiuta in Roma da S. Filippo. Or bene, quando egli ebbe pronunciate le parole: - Filippo Neri! - più d'uno degli ascoltanti corresse sottovoce - Giovanni Bosco! Giovanni Bosco!
E queste infatti dovettero essere le splendide sue fantasie quando dai colli di Soperga vide apparire la città di Torino. Aveva tanto zelo e tanta fiducia di essere aiutato dalla divina Provvidenza, che era pronto a non mai indietreggiare di fronte a qualsiasi fatica o pericolo. Nelle imprese che gli venivano proposte, osservava se fossero necessarie o di grande utilità per la gloria di Dio e la salute delle anime, quindi studiava ai mezzi, cui appigliarsi, li sceglieva con raro criterio e li metteva, in esecuzione andando avanti con vero coraggio e colla certezza che il Signore non lo avrebbe abbandonato. È solo con questa osservazione che noi possiamo darci ragione del gran bene da lui fatto. Di tutte le sue opere si può dire senza errare, che coepit et perfecit, nessuna rimase a metà, malgrado le difficoltà e le spese enormi che dovette incontrare.
Oltre a ciò Dio e la sua SS. Madre aveangli già tracciata la strada non solo, ma disposto lungo questa, in stazioni opportune, compagni e cooperatori, i quali in ogni modo sarebbero stati suoi aiutatori potenti. Scriveva D. Bosco poi ai membri del Comitato del Circolo Cattolico di Dinan il 31 ottobre 1887. “La Divina Provvidenza, quasi per togliere ogni merito al mio totale abbandono ai suoi voleri, durante la mia non breve vita, ha fatto sempre che io trovassi sul mio cammino. anime piene d'un eroico spirito di sacrifizio, cuori incomparabilmente generosi”. E tra questi vi fu un grandissimo numero di sacerdoti, uomini di grande santità, sicchè udimmo ripetere dallo stesso D. Bosco: “L'opera degli Oratorii e della Pia Società di S. Francesco di Sales essere opera del Clero”. Il primo fu D. Cafasso, del quale Don Bosco fu più volte udito a dire con espressioni di profonda gratitudine, ciò che lasciò scritto in un suo foglio: “ Se io ho fatto qualche cosa di bene, lo debbo a questo degno ecclesiastico, nelle cui mani rimisi ogni mia deliberazione, ogni studio, ogni azione della mia vita.
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