Capitolo 40

Le vacanze pasquali - Giovanni va a Pinerolo e di qui a Barge dal Prof. Banaudi - Viaggio verso Fenestrelle - Un temporale e ritorno a Pinerolo, poi a Chieri - Lettera al Sig. Strambio - Giovanni è invitato a dar consiglio sulla vocazione.

Capitolo 40

da Memorie Biografiche

del 11 ottobre 2006

A Chieri Giovanni si era pure stretto in amicizia col giovane Annibale Strambio di Pinerolo, suo compagno di scuola negli anni antecedenti. Ora, venute le vacanze pasquali, i parenti di quest'amico, i quali avevano conosciuto la illibatezza e la bontà di Giovanni, lo invitarono per qualche giorno in casa loro, e Giovanni di buon grado vi andò per respirare un po' d'aria libera e passare alcuni istanti coll'amico.

Di questo viaggio Giovanni stesso ci ha lasciato la descrizione. È la prima e l'unica lettera che di lui, studente di ginnasio, possediamo e la prendiamo dalla brutta copia che sola ci rimane.

Dopo aver narrato del suo arrivo a Pinerolo, dell'accoglienza avuta dall'amico Annibale Strambio e dalla sua famiglia, presso cui fu ospitato, così continua a scrivere: “Il giorno seguente mi determinai ad andare a Barge, che è distante da Pinerolo otto miglia. Ascoltata la prima Messa, presa colazione e incaricato di fare molti complimenti al nostro professor Banaudi, me ne partii il giorno 12 dello stesso mese, Domenica delle Palme, osservando, via facendo, molte belle valli e bei paesi, che quasi sembravano città, fra i quali annoverai Roseo, Bricherasio, S. Secondo, Bibiana, la quale ultima forma tre parrocchie. Ed eccomi giunto prosperamente a Barge.

” Chiesto della casa del professore di retorica D. Banaudi, tosto mi fu indicata. Andai, ma mi venne detto che egli era in parrocchia. Recatomi alla chiesa lo vidi che cantava il Passio. Attentamente ascoltai la sua dilettevole voce, e dopo la funzione andai ad aspettarlo in piazza. Intanto stavo osservando quella gente tutta nuova per me, perchè erano quasi tutti pastorelli, ma di bell'aspetto e ben portanti della persona. Il professore fu il primo a vedermi, mi venne incontro, mi prese per la mano, mi baciò quasi lagrimando e tante cose voleva dirmi; ma non poteva profferir parola, vinto dalla contentezza che provava. Io ero egualmente commosso. Calmato quel primo sussulto del cuore, incominciammo con somma gioia a ragionare su varii argomenti e andammo intanto alla sua casa. Ivi fui ricevuto colla più grande cortesia e vi dimorai due giorni. Come io sia stato, non si può esprimere, soltanto dico che passai due giorni di paradiso. Dovunque andavamo a spasso o per qualche affare, tutti ci invitavano, alle loro case, e sè dicevamo di non voler andare, ci prendevano per mano e ci conducevano alle loro abitazioni con infiniti atti di cortesia. Fummo dal vicario e dal prefetto delle scuole, dal sindaco, dal vicesindaco e dall'albergatore Balbiano, parente di questo che è qui a Chieri. Fummo da tutti lautamente ricevuti.

” Passati questi due giorni, deliberai di partire. Il mio professore voleva a tutti i costi ritenermi ancora, e mi nascose il paracqua; ma vedendomi risoluto, si rassegnò, accompagnandomi per cinque miglia e mezzo. A questo punto della via messici a sedere sopra una ripa, discorremmo alquanto lietamente; ma allorchè accennai di volermi congedare, egli si mise a piangere e non parlava. Io volevo parlare e non poteva. Calmatici alquanto, dopo aver discorso di qualche cosa confidenziale, che doveva rimaner fra noi due soli, ci alzammo e ci dividemmo con una muta stretta di mano. Affrettando il passo, io giunsi a Pinerolo. Quivi ebbi nuovi complimenti e nuove domande intorno al viaggio ed al professore Banaudi.

” In questi ragionamenti io ed Annibale stabilimmo di fare una passeggiata verso Fenestrelle. Per fare questo viaggio domandammo la carrozzella dell'illustre Alberto Nota, il più famoso scrittore di commedie ai nostri tempi. Egli ce la imprestò molto volentieri e ce la fece allestire e fornire di ogni cosa. Noi, poste sopra la carrozzella alcune provviste, salimmo e lentamente uscimmo da Pinerolo.

” Il primo paese, che incontrammo, si chiama Porte, paese annidato fra le rupi, poi Floè, sempre sulla strada regia che costeggia il Chiusone. Questo fiume raddoppia le acque del Po. Dall'altro lato della via si innalzava un'alta catena di monti. Finalmente da lungi scoprimmo un'altissima montagna, che si chiama Malanagi o Malandaggio, la quale ci sembrava coperta di neve, ma non era; imperciocchè, fattici più da vicino, conoscemmo che era un monte di pietra bianca, alle falde del quale vi erano circa mille cinquecento uomini che lavoravano in quelle pietre.

” Attaccate alla vetta, penzolavano, lunghissime corde fino al fondo, poichè le rupi sono così liscie e a picco, che neppure i gatti potrebbero arrampicarvisi. Gli operai si aggrappano a queste grosse funi e salgono fin dove si vuol fare una mina. Là giunti, piantano due ferri acuminati nella pietra viva, perchè sostengano un asse, e su questi seduti fanno il loro foro per la mina e lo riempiono di polvere e lo muniscono di miccia che scende fino a terra. Preparata una mina, il suono della tromba avvisa tutti gli operai, perchè scendano e si allontanino e si dà fuoco. Sono enormi i massi che divelti precipitano nella valle. Le colonne tanto alte e tanto grosse, che sono a Torino alla Madonna del Pilone, furono staccate, da queste cave. Dieci botteghe da fabbro lavorano solamente a fare ed aggiustare pungoli, martelli e scalpelli. Stati alquanto ad ammirare quella meraviglia, seguitammo la nostra strada.

” Dopo un miglio di viaggio sulla pietra viva, coperta di sabbia trasportata, trovammo un paese degno di speciale menzione. In questo paese hanno tutti il gozzo; i fanciulli ne hanno soltanto uno chi più grosso, chi più piccolo; e quelli più avanzati in età ne hanno chi tre e chi quattro, di maniera che per non soffrirne il peso li fasciano con fazzoletti e sembra veramente che portino sotto il collo un sacchetto pieno di pallottole. Costoro poi sono mezzi cristiani e mezzi barbetti, e perciò hanno due chiese; l'una pei cattolici, sulla quale campeggia la croce, l'altra pei valdesi senza croce. Sono tutti vestiti molto grossolanamente, bassi di statura, brutti in volto. Intorno a questo paese vi è una montagna, alta due miglia e mezzo, così ripida che nessuno vi si potrebbe arrampicare. È però tutta abitata, ed ecco in qual modo. Collo scalpello formano scalini nella pietra viva, e su questi pianerottoli innalzano i loro tugurii e dintorno vi portano terra dalla valle, e vi seminano patate, fagiuoli ed altre cose simili.

” Preso adunque riposo in questo misero paese, procedemmo verso Fenestrelle. Eravamo già a quel gran monte, che si chiama Monviso, vedevamo già di fronte Fenestrelle, quando si levò un vento così furioso, che respingeva il cavallo, ci toglieva le forze di reggerlo e persino la parola. Turbinoso

si sollevava il polverio della strada, mescolato a pietruzze, che battendo nei nostri volti ci faceva molto male. Un buio spaventevole si stendeva su tutta la strada. Il cavallo urtava or qua or là, e sbuffando non voleva più andare avanti. Noi a tal vista sbigottiti fermammo il cavallo e lo rivoltammo indietro per ritornare a Pinerolo. Ma calando noi giù dal monte, ci assalse un nuovo timore. Quel vento precipitoso minacciava di rovesciare noi, il cavallo e la carrozzella giù per la china del monte fra le rupi e là in fondo farci perdere miseramente la vita. Ma la Provvidenza venne in nostro aiuto. Accanto alla strada scorgemmo un incavo nel monte, che ci offriva un sicuro rifugio. Quivi stentatamente menammo il cavallo, aspettando che passasse la bufera. Dopo circa un'ora e mezzo, il vento cessò, ma la notte sopraggiungeva. La luna però ci illuminava la via ed entrammo in Pinerolo verso le 11.

” Stetti ancora due giorni a Pinerolo e sempre allegramente e mi determinai di venire a Chieri il giorno 16. Incaricato di diverse commissioni e di salutare il sig. Valimberti, il dì prefisso salii sulla diligenza, e giunto a Torino, di qui feci ritorno a Chieri. In questo viaggio impiegai sette giorni, che a me sembrarono sette ore, poichè tanto a Barge come a Pinerolo, quantunque indegno, fui trattato onorevolmente quanto mai dire si possa. Scusatemi, sono ancora un misero il quale” ecc. ecc.

E non fu questo il solo viaggio che fece a Pinerolo. Anticipiamo i fatti per non complicare i racconti. Annibale Strambio era un eccellente giovane ed aveva dimostrato desiderio di abbracciare la carriera ecclesiastica. Quindi l'anno seguente 1836 Giovanni scriveva al padre di lui:

“Avendo già più volte scritto al suo figlio Annibale amico mio prediletto, e non sapendo se abbia ricevuto lettera o no, poichè non ebbi mai, risposta, giudicai bene scrivere a V. S. pregandola favorirmi nel fargli avere questa lettera.

” Non so se Annibale studii la gita a Pinerolo o dove neppure so se sia chierico o secolare: disse però che sarebbe andato a prendere l'esame di vestizione chiericale e che avremmo parlato insieme in tal tempo; ma a cagion del coléra, che in allora minacciava le nostre contrade, non potei più parlare ad Annibale e non seppi più nulla se abbia preso l'esame di vestizione o no. Io studio il primo anno di filosofia nel seminario di Chieri. Bramo molto saper nuova di V. S. come pure di Madama Strambio, di cui non posso dimenticare la generosità usatami allora che andai a Pinerolo. Seppi che Domenico era ammalato e non so se siasi ristabilito bene. Desidero insomma di saper nuove di tutta la sua famiglia....”

La risposta fu che Annibale aveva indossato l'abito talare. Ma questa non era la via, per la quale lo voleva il Signore. Si trovava già innanzi nello studio della teologia, quando incominciò a venirgli dubbio sulla sua vocazione. Per un chierico di buona condotta e di delicata coscienza è oltremodo dolorosa questa incertezza; tanto più se non trova un consigliere di tale dottrina, esperienza e pietà, da giudicare senza esitanza sul partito da prendere. Peggio se avendolo trovato, non ha in lui intera confidenza ed abbandono. Aggiungi che il presentarsi a lui lo stato chiericale com’è il maggior bene assoluto, del quale si è fatto un abituale pensiero, mentre ora incomincia a ripugnargli il timore di far contro la volontà di Dio, vagheggiando altri ideali; il non sentire in sè il coraggio di retrocedere da quella via, dopo più anni di veste chiericale, la ripugnanza di palesare ai superiori le sue lotte interne, che potrebbero essere giudicate mosse da velleità irragionevoli; il riguardo ai parenti, per non disgustarli dopo tante spese e disegni sopra il suo avvenire assicurato; il rispetto umano verso i compagni, per non comparire leggiero e volubile nelle sue deliberazioni; sono sentimenti che a volta a volta si affacciano alla sua mente, lo turbano e mantengono angosciosa la sua vita. Non sono molti coloro che Dio soggetta a simile prova; perchè i candidati al sacerdozio, prima di ascriversi al clero, hanno per la sapienza della Chiesa mezzi sicuri per aver certezza morale della loro vocazione. In generale la defezione di coloro, che furono promossi agli ultimi anni degli studii sacri, è dovuta ad irregolare condotta o a spensieratezza colpevole. Che l’amico di Giovanni non fosse di questi lo dimostrò la sua vita splendidamente cristiana sino all'ultimo de' suoi giorni nelle cariche onorevoli da lui occupate: vita che egli sostenne colle teologiche discipline studiate in seminario. Egli adunque in questo tempo era divenuto pensieroso, preferiva trovarsi solo e per timidezza non si apriva con alcuno.

I suoi parenti, che erano eccellenti cristiani, essendosi nelle vacanze accorti del cambiamento, scrissero a Giovanni, perchè venisse a Pinerolo e s'intrattenesse col figlio sull'argomento che loro stava a cuore, cioè del suo avvenire. “Chi è amico, ama in ogni tempo; e il fratello (per amicizia) si sperimenta nelle afflizioni”. Giovanni, lasciato ogni affare che aveva per le mani, e sottostando all'incomodo del viaggio, volò dall'amico, si fermò più giorni, parlò lungamente con lui, senza insistenze inopportune, come in simili casi era solito fare, quando non appariva evidente la volontà del Signore; e dalle risposte affermative, ma non risolute, potè conoscere che probabilmente non avrebbe continuata la carriera ecclesiastica. Lo incoraggiò quindi a lasciar da parte ogni melanconia, gli suggerì le norme opportune per procedere con sicurezza nella risoluzione che avrebbe presa, e lasciollo consolato. Infatti, l'anno seguente, securo di sè, depose tranquillamente l'abito chiericale.

Annibale Strambio fu poi console a Marsiglia, conservò sempre una tenera affezione per D. Bosco, e nel tempo dei famosi decreti d'espulsione contro i religiosi, cooperò grandemente alla salvezza delle Case Salesiane di Francia.

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