Capitolo 43

Una scuola di morale nell'oratorio - Incoraggiamenti dell'Arcivescovo Sacerdoti - Illustri che vengono ad ascoltare D. Bosco - Avvisi per le confessioni dei giovani - Alcune norme per la predicazione - Chiusura del Convitto Ecclesiastico, ed esclusione da questo degli esterni - Radunanze di teologi - Amore costante di D. Bosco agli studi ecclesiastici.

Capitolo 43

da Memorie Biografiche

del 14 novembre 2006

 Nel 1876 D. Bosco diceva a D. Michele Rua, a D. Celestino Durando e a D. Giulio Barberis: - Quando fissai la mia abitazione in Valdocco, la mia mente era solamente divisa in due o tre cose: i giovani e quanto li riguardava, l'esercizio dei sacro ministero e lo studio della morale.  È rimarchevole dunque la sua perseveranza in questo studio, nella quale i suoi discepoli sacerdoti debbono ispirarsi, se vogliono raggiungere intieramente lo scopo della loro vocazione, per salvare le anime dei fedeli e la propria. Non bisogna illudersi: - Dove non è la scienza dell'anima non v'ha nessun bene: e chi cammina frettoloso inciamperà. D. Bosco era maestro in questa scienza. Alcuni sacerdoti suoi compagni del Convitto, e altri suoi amici che aveva lasciati chierici in Seminario, quando fu ordinato prete, conoscendo per testimonianza di D. Cafasso quanto egli fosse esperto nella teologia morale, frequentando come esterni le lezioni che erano insegnate al Convitto, venivano nei primordi al Refugio e poi in certi giorni fissati alla casetta Pinardi, perchè loro facesse ripetizione degli insegnamenti ascoltati. Ciò che li attraeva maggiormente si era la rara valentia di D. Bosco nel dare la chiave dei trattati, colla quale, posto il principio dominante, con tutta facilità scendeva alle molteplici e varie conseguenze dei casi pratici. Questi uditori erano per lo più, nel maggior numero, ecclesiastici desiderosi di fare studi abbreviati e prendere presto l'esame di confessione, per andar cappellano, maestro di scuola, o vice - parroco in qualche borgata. Mons. Fransoni aveva incoraggiato molto D. Bosco a dar queste ripetizioni.

Egli infatti oltre la scienza trasfondeva ne' suoi uditori tutto l'affetto che ardeva nel suo cuore per il sacramento della Penitenza; li animava a procurare con ogni sollecitudine la salvezza delle anime; li esortava ad esser pronti a scendere al confessionale ad ogni chiamata; e talora noi l'abbiamo udito a dire: - Essere cosa desiderabile che un sacerdote prendesse tanto di cibo da potere senza incomodo mettersi in confessionale solo mezz'ora dopo aver finito il suo pranzo . Ed egli faceva ciò che agli altri consigliava, mettendo eziandio, in pratica e ricordando il grande avviso che D. Cafasso era solito dare ai preti: - Volete che si frequenti la confessione nelle vostre chiese? Fate due cose: 1. Parlatene con frequenza dal pulpito; 2. Date comodità ai fedeli di confessarsi. Così facendo state certi che il popolo sarà frequente a questo sacramento.

Venivano ad ascoltarlo con assiduità i Teologi Nasi, Trivero, Carpano, Giordano, i due Vola, D. Rademaker, Don Deamicis, D. Palazzolo, D. Giacomelli e motti altri. Talvolta assisteva il Teologo collegiato Eugenio Galletti che fu poi Vescovo d'Alba. Mons. Solari che studiò presso di lui la morale, ci assicurava che sotto la direzione di tale maestro la imparò molto bene. Aggiungeva che alcuni dei sopraddetti personaggi, molto dotti in Teologia, assistevano a tale scuola, perchè D. Bosco trattava sempre in modo speciale i punti che riguardavano la gioventù e in qual maniera confessarla con speditezza e con profitto. Esponendo molteplici casi di coscienza, insegnava come interrogare, giudicare della colpa, togliere le occasioni prossime, assicurarsi delle disposizioni, dare le istruzioni indispensabili ai più rozzi. Era una meraviglia come rendesse facili e brevi le confessioni. E nello stesso tempo in cento modi insegnava la prudenza nel parlare. Ad un giovane, p. es., che si fosse confessato di aver detto bestemmie, non voleva che il confessore domandasse se spiegazioni pronunziando l'epiteto ingiurioso unitamente al Santo Nome di Dio, ma sibbene chiedesse: - Hai detto che il Signore è falso? - E ciò perché gli faceva orrore quella frase sulle labbra di un sacerdote.

Raccomandava eziandio caldamente di non rendere, con impazienza e con sgridate, odiosa e pesante la confessione, perchè i giovani facilmente non osano più parlare, e quindi sacrilegi su sacrilegi; ma di procurare con tutta carità di guadagnarsi la loro confidenza. Insisteva però che si usasse con essi un grande riserbo nel trattare; mai d'ordinario si confessasse in luogo appartato senza testimoni; mai avvicinar troppo la persona; mai carezze sdolcinate di nessun genere e per nessun pretesto. La parola esprimente un vero desiderio per la salute dell'anima era quella che doveva aprire i cuori. E D. Bosco ne aveva un tesoro di queste parole e le suggeriva ai suoi volontari discepoli: come pure quei sentimenti brevi e taglienti come una saetta, coi quali muoveva al dolore.

Nel tenere queste conferenze dava talvolta norme sul modo di predicare ed insegnare il catechismo al popolo ed ai giovanetti. Qui non vogliamo ripetere ciò che egli diceva, avendone noi già fatto cenno altrove. Due cose tuttavia aggiungeremo. La prima si è che secondo usanza, invalsa in tutta la diocesi, egli preferiva allora che si predicasse in dialetto piemontese, perchè agli uditori riuscisse facile intendere la parola di Dio. Per ciò dal 1841 al 1850 egli stesso e i suoi coadiutori facevano uso solamente di questo. Di poi essendo aumentate le scuole e venendo giovanetti da ogni parte d'Italia, e anche da altre nazioni, egli adottò la lingua italiana come quella usata in tutta la penisola. Però nell'Oratorio la maggior parte delle istruzioni della sera, fino circa al 1865, continuarono ad esporsi in dialetto, tanto più che ai giovani tornavano gradite per i motti lepidi e i proverbi popolari dei quali abbondavano. D. Bosco voleva che i giovani capissero e si istruissero. Nel suo Regolamento degli oratori festivi coi saggi ammonimenti che dà ai sacri oratori, insiste sulla importanza di esporre con molta chiarezza le verità eterne.

La seconda cosa, che non vogliamo tralasciare, si è la raccomandazione che faceva di non avventurar mai, predicando o anche parlando in privato, le obbiezioni degli empii contro la fede, per combatterle, quando queste non fossero universalmente conosciute dall'uditorio, e nel solo caso nel quale si fosse a ciò costretti per sostenere l'onor di Dio. - Basta affermare e provare aver Dio insegnata o comandata una cosa, e non mai turbar in un'anima la semplicità della sua fede.

Un giorno un sacerdote narrava a D. Bosco, presenti alcuni giovani, come l'impudenza di uno scrittore protestante fosse giunta al punto di inventare di sana pianta, e dare alle stampe, una lunga e scellerata storiella contro il Sacramento della Penitenza, che diceva istituito pei suoi fini dal Concilio Lateranense IV coi nomi e cognomi dei finti personaggi che affermava aver fatta, combattuta, approvata la proposta. Don Bosco taceva, ma quando i giovani si furono ritirati, disse a quel prete: - Ha considerato bene prima di parlare l'effetto che potevano produrre le sue parole sull'animo di quei giovani? Ha visto come stavano attenti al suo racconto? - Io parlai per far loro intendere come la menzogna sia l'arma dei nemici della religione! - E lei ne ha portate le prove? E i giovani le avrebbero intese? E che bisogno vi era di narrar quella fanfaluca, troppo particolareggiata? Gli spropositi sono subito intesi, ma a dissipare le obbiezioni ci vuole ingegno, scienza e tempo notevole. Nei giovani anche un principio di dubbio fa molto male, e certe impressioni durano lungo tempo; e in qualche circostanza portano alla rovina.

Questa scuola aveva preso un maggior incremento per il seguente fatto. Un cattivo spirito si era infiltrato eziandio nel Convitto Ecclesiastico. Quei giovani sacerdoti e quei chierici si erano entusiasmati delle novità politiche e della guerra contro l'Austria; e per la lettura di certi libri e di certi giornali nelle menti di molti di loro avevano messa radice idee non completamente ortodosse sul potere temporale e sugli ordini religiosi. Invano D. Cafasso aveva loro inculcato paternamente di tenersi alieni da quel movimento, rappresentando i mali che si andavano maturando a danno della Chiesa e della società. Ma taluni, ostinati nelle loro opinioni, si accaloravano ogni giorno in dispute e cantarellavano gli inni all'Italia. D. Cafasso avrebbe voluto adottare radicali misure, ma la prudenza richiesta dalle condizioni eccezionali di quei tempi non gliele permettevano. Quando ecco in buon punto gli era giunta la domanda del Governo per l'occupazione provvisoria del locale per alloggio dei soldati, e i convittori, i quali appartenevano alle diocesi diverse del Piemonte erano stati rimandati alle case loro.

Fu allora che D. Bosco ebbe da D. Cafasso calda raccomandazione di continuare le sue lezioni di orale, eziandio a quei convittori che abitando in Torino avrebbero voluto approfittarne; e siccome, riapertosi il Convitto, pi√π non si tennero conferenze pubbliche per escludere gli alunni esterni, causa in gran parte dei lamentati disordini, D. Bosco accolse alla sua scuola eziandio alcuni di questi.

Per circa sette anni, senza retribuzione alcuna, continuò D. Bosco a dare queste lezioni e a tener circolo. Il Can. Ravina Vicario Generale stimava molto il suo sapere. Quando coloro che avevano prese lezioni da lui si presentavano in Curia per l'esame di abilitazione alle Confessioni, recando un biglietto in cui D. Bosco aveva scritto sufficienter instructus, il più delle volte si rilasciava la patente senza esame.

Quasi appendice di tale scuola era un'altra radunanza che D. Bosco, aveva stabilito avesse luogo ogni settimana in Valdocco, per camminare sempre con prudenza nello sviluppo dei suoi oratori. Erano personaggi insigni per pietà e dottrina, come il Teol. Borel e il Teol. Morialdo Roberto, i due fratelli Vola ed eziandio più altri che frequentavano la Conferenza, e non mancavano mai all’ invito di D. Bosco. Il loro ultimo fine era studiare i mezzi per sempre meglio affaticarsi nella santificazione dei giovani e nell'aiutarsi a vicenda per superare le difficoltà che faceva sorgere il nemico di ogni bene. Il Teol. Reviglio Felice fu testimonio oculare di questi convegni.

D. Bosco dunque non cessò di riandare gli studi sulla teologia morale anche quando non gli fu più possibile continuare quella scuola. Sovente, ci narrava Mons. Cagliero, proponeva soluzioni di casi e questioni di principi ai Teologi più stimati della città, e talora dopo una seria disputa, quei dotti convenivano nell'approvare le sue conclusioni. Procurava eziandio istruirsi nel Diritto canonico, e di quando in quando veniva a dispute col suo amico il Can. Gastaldi Lorenzo, il quale avendo compiuto i suoi studi all'Università di Torino, sosteneva qualche opinione non intieramente conforme alle dottrine insegnate a Roma. In tutto il tempo poi della sua vita spesso era solito a tener conferenze con distinti canonisti e specialmente col P. Rostagno, conoscitore profondo di questa materia e già Professore alla Cattolica Università di Lovanio. Nei dissidi tra lo Stato e la Chiesa, tra i Vescovi e gli ordini religiosi si informava minutamente delle disposizioni e decreti della S. Sede e dei Concili, e per la sua portentosa memoria era un continuo accrescimento di scienza che più non dimenticava. Era in vero meraviglioso il continuo lavorio che si operava nella mente di D. Bosco.

 

 

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