Capitolo 44

Si continua la costruzione dell'Ospizio - Avvisi ingegnosi e salutari di D. Bosco ai muratori - Il Can. Gastaldi e suo interesse per l'Oratorio - Rovina della nuova casa - Visibile protezione del cielo - Tranquillità e rassegnazione di D. Bosco - Scuole improvvisate - Poesia.

Capitolo 44

da Memorie Biografiche

del 27 novembre 2006

 

 Lavori della fabbrica procedevano alacremente e Don Bosco curava intanto la riforma morale dei muratori.

 

Da più mesi al dopo pranzo stava in mezzo ai giovani, e raccontava loro parabole, novelle, aneddoti per tenerli allegri. I muratori e i loro garzoni venivano anch'essi dietro agli alunni; e finchè durava il tempo del loro riposo, stavano ad ascoltarlo, ridendo di gran cuore alle sue facezie. Ma D. Bosco di quando in quando, quasi senza che apparisse porre egli mente agli operai, con arguzie dirette ai giovani, e con raccomandazioni più o meno esplicite, accennava con pochissime parole, alla bellezza o ai premi della virtù, alla bruttezza o al castigo del peccato, alle consolazioni di una buona confessione, al pensiero dell'eternità, al pericolo di una chiamata improvvisa al tribunale di Dio. Ciò produceva grande effetto e la maggior parte dei muratori andarono a confessarsi. Ma qualcuno di essi dimostrava chiaramente, dall'espressione del viso, non gradire il ricordo di certe verità, e un giorno che D. Bosco aveva incominciato i suoi racconti,uno di quelli lo interruppe, dicendogli freddamente: - Crede Lei che io non veda dove vadano a parare i suoi discorsi? Ma non mi coglie, sa! -Il Ch. Buzzetti, che era presente, compatì quell'infelice! D. Bosco non rispose.

Si era sul finir dell'ottobre e il Canonico Lorenzo Gastaldi, venuto da Stresa, faceva una visita carissima a Don Bosco; e s'intratteneva con lui parlando a lungo sull'avvenire dell'Oratorio, che tanto stavagli a cuore. Perciò come fu di ritorno al noviziato dei Rosminiani, per qualche timore che erasi in lui destato, sul legale possesso della casa Pinardi, per tranquillarsi scriveva una lettera a D. Bosco. Il quale così rispondevagli:

 

Carissimo Sig. Canonico,

 

Ecco a V. S. Car.ma il desiderato riscontro riguardante alla mia posizione in faccia al Governo. Il locale essendo mio proprio, io credo che a qualsiasi evento un novello edifizio sia sempre del padrone del suolo; tuttavia per togliere anche questo dubbio, ho fatto si che le offerte fattemi dalla carità dei privati, compresa la Lotteria, fossero tutte impiegate per la costruzione della chiesa, riserbando una somma ricavata da un piccolo corpo di casa, alcuni anni fa in queste vicinanze venduta, come pure quanto ricavo dal sito ivi posto in vendita, tutto affatto per la costruzione della casa. Così sono dai migliori avvocati assicurato che il Governo in nulla può mischiarsi in questa proprietà.

Ma... e morto D. Bosco? Qui stava la difficoltà. Attese le circostanze dei tempi, non potendosi la durazione della proprietà assicurare altrimenti, ho invitato il Sig. Teol. Borel, il Teol. Murialdo, D. Cafasso ad intervenire alla compra di quanto sopra; quindi fu fatta disposizione testamentaria a vantaggio reciproco, dimodochè , alla morte di uno, la proprietà passa ai tre superstiti, i quali certamente sono liberi di associarsi un altro individuo: ben inteso così convien pagare il diritto di successione per la parte del defunto.

Ho consultato parecchi legali di mia confidenza e non ho potuto avere altro espediente in proposito. In quanto poi al novello acquisto di cui si tratta, io mi rimetto intieramente a quanto il Sig. Ab. Rosmini nella sua prudenza stimerà conveniente, offerendomegli pronto ad impiegare ogni mio debole sforzo per cooperare in tutto che possa tornare a gloria di Dio ed a vantaggio delle anime.

Voglia intanto offerire li miei umilissimi ossequî al prelodato Sig. Ab. Rosmini, e raccomandandomi alle preghiere di Lei, Le auguro ogni bene dal Signore con dirmi

Di V. S. Car.ma

Torino, 24 Nov. 1852.

Aff.mo amico servitore

Sac. Bosco Giovanni.

 

P. S. Mentre scrivo, la signora sua madre lavora nella camera degli oggetti per pulirli e aggiustarli: la sua visita l'ha imparadisata.

 

Chi legge questo foglio, intende come D. Bosco fosse pieno di fiducia nella stabilità della sua fondazione; ma non gli può venire neppure il sospetto, che egli si trovasse in quei giorni sotto il peso di una prova inaspettata e ben dolorosa. Il sabato 20 novembre un tratto della sommità del braccio, a levante, dell'edifizio in costruzione, per la rottura di un ponte, rovinava dall'altezza del terzo piano. Tre operai ne furono gravemente feriti, dei quali uno dava poche speranze di guarigione. Grande era stata la costernazione e lo spavento di tutti; ma D. Bosco nell'angoscia di quei momenti, alzando rassegnato gli occhi al cielo, aveva pronunziate quelle parole che aveva sempre sulle labbra: - Sia fatta la volontà di Dio i Tutto come Dio vuole! - Il suo dolore tuttavia era tanto più vivo in quantochè amava i suoi operai.

Egli però, cui rendeva leggiero ogni sacrifizio la speranza di vedere terminata quella fabbrica specialmente per uso delle scuole serali agli artigiani, senza sgomentarsi per il grave danno che aveva patito, comandava che si rialzasse con prestezza quel tratto di muro caduto.

Ma pur troppo che una pi√π grave perdita era riserbata a lui, ed ai caritatevoli che a nome di Dio gli porgevano la mano,

La fabbrica era al coperchio. Già le travature collocate a posto, i listelli inchiodati, le tegole ammonticchiate sul culmine per esservi ordinatamente deposte; quando un violento e prolungato acquazzone fece interrompere ogni lavoro. Nè  qui fu il tutto; chè la pioggia diluviò più giorni e più notti, e l'acqua, scorrendo e colando dalle travi e dai listelli, rose e trasse seco la fresca e fors'anche cattiva calcina, lasciando le muraglie come un mucchio di mattoni e di pietre senza cemento e legatura.

Era già inoltrata la sera del 1° dicembre, e più centinaia di giovanetti della città stavano raccolti nell'Oratorio per la scuola serale. Usciti dalle rispettive classi verso le nove ore, prima di recarsi alle proprie case, solevano trattenersi ancora cogli interni per alcun tempo, divertendosi e scorrazzando nei vani del nuovo fabbricato. È vero che D. Bosco, essendo ogni cosa bagnata dalla pioggia, aveva loro proibito di andarvi, pel timore che sdrucciolassero e si facessero del male; ma in quella sera gli spensierati più non si ricordarono; salirono, corsero su e giù per le scale dei muratori, qua e là per i ponti, mentre molti giocavano a pian di terra, fra assi e travi fradici.

Gli alunni esteri eransi restituiti alla città; D. Bosco e i suoi giovani erano profondamente immersi nel primo sonno; quando, passate di poco le undici, un orribile fracasso, che ad ogni istante si fa più intenso e rumoroso, viene in un subito a destarli. Lo scroscio aveva fatto traballare l'antica casa attigua a quella in costruzione, della quale una parte del muro situato a mezzogiorno si sfasciava e rovesciava a terra. Fu una terribile catastrofe; ma, nell'ora segnata al disastro, incominciò a spiccare la misericordia del Signore verso di tutti. Se mai il rovesciamento fosse accaduto due ore innanzi, chi sa quante vittime avrebbe fatte. Ma il buon Dio vegliava alle sorti di D. Bosco e de' suoi giovanetti.

Stava in quel mentre la madre di D. Bosco per andare a riposo, e frettolosa uscì piangendo dalla sua cella. Temeva, e non senza ragione, che il figlio fosse rimasto sepolto sotto le rovine e gridava con quanta voce aveva in petto: - Don Bosco, D. Bosco, alzati, esci, salvati! - Corse all'uscio della camera, chiamò, ma non udiva risposta; spinse la porta, ma questa non si apriva. Intanto vide che una grossa pietra cadendo aveva offeso un angolo di quella camera e, rompendo le tegole, vi aveva praticato un buco pel quale penetrava la pioggia. Allora con tutta celerità scese la scala che metteva in cucina per prendere un'altra chiave e tentare l'apertura di quella porta.

Il Ch. Rua, destato allora dal fracasso e udita quella voce che gridava disperatamente, non seppe subito discernere donde venisse e di chi fosse; ma come la riconobbe per quella di Mamma Margherita, temendo che qualcuno fosse caduto ferendosi gravemente, si vestì e le andò incontro.

Intanto i giovani, pieni di spavento, balzarono da letto,chi in mutande e chi in camicia, e nella piena confusione, ignorando ancora che cosa fosse accaduto, ciascuno si era ravvolto alla meglio nelle coperte e lenzuola; ed erano usciti dai poveri dormitori a pian terreno senza saper dove. Gli uni corrono verso la porta della cinta per fuggire, gli altri nella chiesa per trovarsi un rifugio ai piedi degli altari; altri si rannicchiano presso gli alberi vicini, altri finalmente si fermano in mezzo al cortile. Era uno spettacolo compassionevole vedere, nel tetro orror della notte, al cupo rumore della pioggia che dirottamente cadeva, cinquanta giovani correre qua e là. Chi singhiozzava da una parte, chi urlava dall'altra, chi dava dei ginocchio in una panca, chi s'intoppava in uno sterpo e cadeva, chi si sprofondava di qua e s'impiastricciava nel fango, chi di là s'ingolfava in una gora. Intanto si erano accorti ben presto della causa di quel rumore, perchè travi, tegole e materiali ingombravano il terreno.

E D. Bosco? Mentre tutti i giovani chiamavano, e stavano aspettando mamma Margherita che prese le chiavi risaliva la scala, ecco che si fa udire il suono conosciuto di un piccolo campanello e quindi di lì a non molto apparire un lume in fondo alla loggia. Era D. Bosco che tranquillo, tranquillo se ne usciva dalla sua camera e discendeva a visitar le rovine. Egli, tra la veglia e il sonno, udito in confuso il primo scroscio, si era messo in ascolto ed ecco risuonare un altro gran colpo. Egli pensava: Che tuoni ancora in questa stagione! - Ma non vedendo il lampo, apprese il suo pericolo, essendo di stanza il più prossimo alla fabbrica nuova. Sceso da letto, non era però riuscito ad orizzontarsi e non trovava la porta per uscire ed i zolfanelli per accendere il lume.

Appena egli comparve, da ogni parte gridavano i giovani: - D. Bosco! Oh D. Bosco! D. Bosco è salvo! - E dimentichi del fango e degli intoppi gli corsero incontro.

Circondatolo, uno gli diceva: - Ebbene, D. Bosco, non ha sentito il rovesciarsi delle mura e le grida di sua madre? Un altro: - D. Bosco, ha sofferto molto? Si è fatto male? - Un terzo: - Come va che non è subito uscito? - Un quarto Veda come siamo ben conciati nei piedi e nelle gambe. E ognuno andava a gara nel narrargli la propria destrezza, i giuochi ginnastici e i salti mortali di quella notte. E a tutti D. Bosco, senza punto scomporsi e con quella pacatezza che è solo propria dei veri servi di Dio e degli uomini così detti della pace, porgeva ascolto e rispondeva consolanti parole. Aveva chiesto in primo luogo se era accaduta qualche disgrazia alle persone; ma udito che nessun sinistro, fuori della caduta del fabbricato, aveva turbati i figli dell'Oratorio, tutto giulivo prese a scherzare, canzonandoli delle loro grottesche figure, ridendo sulla paura dell'uno, sull'improvvisato abbigliamento dell'altro, e in fine invitandoli a far partita, correndo nel cortile per raggiungersi. Il suo spirito calmo giovò moltissimo a rasserenare i giovani in mezzo a quel grande sgomento. Indi li conduceva nella sala da pranzo e loro narrava come l'Oratorio avesse già sofferte persecuzioni, sforzati traslocamenti, e come tuttavia fosse andato ognora fiorendo e crescendo. Perciò li eccitava tutti a mantenere ferma la fiducia nella Divina Provvidenza. - Su, via, diceva loro, ora che abbiamo ricevuta grazia così segnalata, che tutti siamo incolumi, recitiamo le litanie. - A questo invito tutti si posero in ginocchio, recitando insieme con lui le litanie, in rendimento di grazie al Signore, il quale non avea permesso che neppur uno venisse schiacciato sotto le rovine.

Ma D. Bosco in quell'istante pensava seriamente: - E ora dove andare? Che cosa fare? - La notte era buia, pioveva sempre, faceva freddo. Da un po' di tempo però non si udivano più sinistri rumori. - Dunque, continuò a riflettere Don Bosco: ciò che si è spostato, ormai ha finito di cadere. Dalla parte della casa ove si dorme non appaiono danni rilevanti.

Era già scorsa una mezz'ora dopo la mezza notte, e Don Bosco, volendo che ognuno prendesse il necessario riposo, disse ai giovani: - È tempo che andiate tranquillamente a dormire. State sicuri che non vi accadrà nessuna disgrazia. Togliete adunque i vostri letti da quella camera pericolante, e con tutta la possibile cautela portateli parte in sagrestia e parte qui in refettorio. - Detto fatto. In un batter d'occhio tutti spariscono e volano a caricarsi sulle spalle il proprio letticciuolo. Chi avesse visto con quanta facilità e prestezza gli artigiani trasportavano i loro bagagli, li avrebbe creduti altrettanti bersaglieri, tanto si mostrarono svelti. In meno di un quarto d'ora furono disposti venti letti al luogo provvisoriamente loro destinato.

Mamma Margherita dava prova di un coraggio virile degno di alto encomio. Stava attenta perchè nessuno si avvicinasse al luogo del pericolo, distribuiva i giovani quali in una e quali in altra camera, e vegliava fino all'alba, passando intrepida da un luogo all'altro come un generale in campo di battaglia. Si vedeva una vera madre resa dall'amore dimentica di se medesima e solamente sollecita de' figli suoi. Anche D. Bosco per parte sua mostrossi figlio ben degno di una tal madre; poichè per assicurare la vita loro espose più volte la sua a grande repentaglio, andando a constatare se vi fosse minaccia di nuove rovine. E fu d'uopo che la tenera non meno che coraggiosa Margherita, ne lo allontanasse come per forza e lo costringesse a rientrare in casa.

D. Bosco tornò dove i giovani finivano di assettare i dormitori; ciascuno rovistava le scarselle dei proprii abiti temendo in quella furia di aver perduto qualche cosa.

In quel frattempo un lepido episodio sopravvenne ad esilararli. Fra i ricoverati uno ve n'era, sarto di professione, per nome Innocenzo Brunengo; era storpio delle gambe, già mezzo calvo per malattia e munito della parrucca, ma di bell'umore e molto faceto. Nel maggior rischio, come gli altri, era balzato in fretta dal letto, dimenticando sotto il capezzale la pagnotta della colazione che si distribuiva a ciascuno la sera pel mattino; poichè vari giovani dovevano prima dell'alba trovarsi dai padroni in città. Ed ora nel rimuovere il suo materasso, la pagnotta, senza che egli se ne avvedesse, era caduta per terra. Addolorato per quella dimenticanza, egli non bada a se stesso, nè  alle voci di chi tenta dissuaderlo; ma a dispetto di tutti ritorna nella camera abbandonata, trova la cara pagnotta, l'afferra e via ratto quanto può uno zoppo. Ed eccolo giungere tutto allegro ove erano i compagni ed esclamare di gran cuore: - Poffare! la mia colazione è salva! Don Bosco, D. Bosco, la mia colazione è salva! - E così costringe i compagni, in allora ed in appresso, alle risa più saporite. Finchè visse, il primo saluto che gli facevano incontrandolo era: È salva, è salva! e piacevolmente si celiava sopra l'eroica prodezza da lui spiegata in quella notte per amore di una pagnotta.

D. Bosco intanto, poichè era già passata un'ora del 2 dicembre, esortò i giovani a coricarsi, e fatta breve preghiera egli pel primo si ritirò nella sua carriera che era la più esposta al pericolo. Tutti gli altri a poco a poco l'imitarono, eccetto qualcuno che ritirossi in chiesa a pregare, e distesi sui loro letticciuoli provaronsi a riprendere il sonno.

Ma fenomeno singolare! Nelle stanze del piano superiore tre chierici, Viale, Reviglio e Vacchetta Stefano, che poi si ascrisse fra gli Oblati di Maria, nulla avevano udito di tanto trambusto e se ne stavano dormendo placidissimamente. Il Ch. Rua Michele, dopo aver aiutato D. Bosco a ristabilir l'ordine, saliva alla sua cella con altri due. Il Ch. Vacchetta descrivendo minutamente questo fatto in una sua lettera, che noi possediamo, diretta al Ch. Bellia nel venerando Seminario di Chieri in data 25 dicembre 1852, narrava:

“Entravano nelle mia camera i chierici Danussi, Buzzetti e Rua, i quali, col loro ridere smoderato, perchè io non mi ero svegliato, mi turbarono il sonno. Chiesi allora se la levata era già suonata e mi stupivo di non aver udito il suo prolungato tintinnio. Ma Danussi, prorompendo in risa maggiori: - Eh! non hai sentito la nuova casa a crollare? - No, no, risposi io: sono però contentissimo, poichè l'impresario la fabbricherà nuovamente da capo a fondo. Provvidenza, provvidenza è questo fatto. Il Signore vuole che l'Oratorio sia fondato non sulla sabbia, ma sopra sode fondamenta. Ha fatto cadere, o meglio, ha permesso che a cagion della calce già poco tenace in se stessa, venisse a rovesciarsi a terra il fabbricato, ed ha fatto benissimo. Esso vedeva che D. Bosco è troppo buono e che forse le cose già si aggiustavano a danno dell'Oratorio, e quindi ha così saggiamente provveduto. Provvidenza, provvidenza! - Detto ciò si impose silenzio e si tacque.

”I giovani si erano coricati per riposare; ma, poveretti, qual riposo abbiano potuto prendere ben te lo potrai immaginare da ciò, che al mattino tutti raccontavano i continui rumori causati dalla caduta, ora di mattoni o di pietre ed ora di travi od assi che erano rimasti in alto sospesi.

”Suonatele cinque ore, mentre la maggior parte di giovani già stava nel cortile osservando le rovine e la minore era ancora assopita dal sonno, si sentì crollare verso le cinque e mezzo la parte situata a mezzanotte, la quale battendo su quella di mezzo di altezza più elevata, fe' rovesciare anche

questa con un rumore quadruplo del primo, con tale scossa, che fece tremare l'attigua casa per alcuni minuti secondi. Coloro che sonnacchiosi stavano ancora nel letto balzarono in piedi e vestitisi in tutta fretta discesero a far numero e compagnia a tutti i curiosi”.

Ma D. Bosco, abbandonandosi nelle mani di Dio, calmo ed impassibile, essendo egli già disceso in chiesa, fece radunare i giovani, e invitandoli di bel nuovo a ringraziare il Signore per averli scampati così miracolosamente, celebrò la S. Messa. Uscito poi di chiesa in mezzo a tutti gli alunni raccolti, sorrideva esclamando: - Il diavolo me l'ha fatta: egli non vuole, che allarghi l'Istituto e raccolga nuovi giovani; ma noi lo faremo a suo dispetto. - E poi ripetè : - Il demonio ha voluto darci un calcio; ma state tranquilli, il Signore è più forte di lui, e il demonio non riuscirà ad impedire l'opera sua.

Di lì a non molto il cortile fu zeppo di gente, accorsa per la curiosità di vedere l'edifizio diroccato. Ed ecco in una vettura accorrere il sindaco con due ingegneri municipali, il quale prese a confortare D. Bosco, assicurandolo che l'Oratorio non avrebbe avuto danno da quella disgrazia. Subito i due ingegneri iniziarono un'ispezione sulla natura e sulla causa del disastro. La nuova costruzione, come abbiamo detto, aderiva al basso e vecchio abitato e sulla camera di D. Bosco soprastava di parecchi metri un alto e grosso pilastro della cadente fabbrica, il quale, nel rovinio, smosso dalla sua base pendeva spaventosamente sul povero abituro. Il Cav. Gabbetti, uno degli ingegneri, esaminato attentamente quel pilastro, mordendosi le labbra, domandò a D. Bosco: - Chi dormiva questa notte in quel sito? -Dormivo io, rispose D. Bosco, e una trentina de' miei giovanetti. - Allora quel perito prese D. Bosco pel braccio e disse: - Vada pure co' suoi giovani a ringraziare la Madonna, che ne ha ben motivo. Quel pilastro si regge là contro tutte le ragioni dell'arte e se cadeva avrebbe schiacciato lei e i giovani nel proprio letto. Sfido io tutti gli ingegneri dei mondo a far stare in piedi una torre con tale pendenza. È un vero miracolo! Si diede tosto ordine di demolirlo; ma come far ciò senza mettere a cimento la vita degli operai? Colle necessarie precauzioni i muratori lo legarono con grosse funi, lo assicurarono per bene e poi, saliti sui ponti, lo disfecero poco per volta, liberando dall'estrema rovina la povera casupola.

Altro bel tratto della visibile protezione del cielo, fu questo. Erano le 8 ore. Della nuova casa rimaneva tuttavia in piedi una parte del muro respiciente il cortile a mezzogiorno cogli archi dei portici ancora intatti. Or mentre colla commissione municipale D. Bosco e vari giovani, fra i quali Cagliero, Turchi, Tomatis, Arnaud, stavano come trasecolati, guardando e lamentando quella immensa rovina, uno di essi, vedendo muoversi i pilastri, alza un grido dicendo: Fuggite! Tutti in un baleno si allontanano in mezzo al cortile, dove appena giunti il muro precipita con un fragore spaventoso, gettando travi, pietre e mattoni a più metri di distanza. Come ognuno si rimanesse, a quella vista, è agevole l'immaginarlo. Tutti senza parola e D. Bosco per un istante attonito e pallido in volto. Al tremito del suolo come per scossa di terremoto, nuova folla di cittadini accorse da tutte parti e circondavano D. Bosco deplorando la disgrazia. Ma egli già calmo e sorridente diceva al signor Duina: - Abbiamo giuocato al giuoco dei mattoni! - alludendo al divertimento dei ragazzi, che drizzano, vicino l'uno all'altro, una fila di mattoni e toccato il primo cadono tutti.

L'impressione che tanto disastro lasciò nei ricoverati fu tale, che per più mesi un piccolo rumore, come il passare di un carro, o il rovesciarsi di una corba di pietre e simili, rimescolava loro il sangue, li faceva tremare e diventar pallidi come la morte. Ma D. Bosco, sempre pronto ad assoggettarsi colla più profonda sommessione a tutte le disposizioni del Signore, così allora come in altre cento e cento dolorose circostanze, non si udì uscire in parole di lamento, nè  si vide mostrarsi triste e melanconico, nè  trepidante e pauroso, ma col suo volto ilare e la sua dolce parola incoraggiava gli alunni. Disse in pubblico: - Sicut Domino placuit; sit nomen Domini benedictum. Pigliamo tutto quanto ci accade dalla sua mano e vi assicuro che il Signore terrà in gran conto la nostra rassegnazione. - E ripeteva: - Sì, dobbiamo proprio ringraziare il Signore e la Beata Vergine che in mezzo alle tristi vicende che opprimono l'umanità, avvi sempre la mano benefica e provvidenziale di Dio che mitiga le nostre sventure. - Diceva, ed anche a se stesso: Niente ti turbi; chi ha Dio, ha tutto. Il Signore è il padrone di casa; io sono l'umile servo. Ciò che piace al padrone, deve piacere anche a me.

Della santa pace che regnava nell'anima sua reca testimonianza una lettera da lui scritta al Prevosto di Capriglio.

 

Car.mo Sig. Prevosto,

 

Ho già parlato coi Sig. Cav. Curtine 1° Ufficiale nella Sacra Religione dei SS. Maurizio e L., e lo conobbi molto propenso a suo riguardo: faccia il giorgio nuovo e, senza nominar me, scriva un'altra lettera al prefato Cavaliere ed un'altra al Sig. Cav. Cibrario e spero qualche buon esito: repetita iuvant.

Ho qui una scuola di greco ed ho bisogno di alcuni libri analoghi che sono a mia casa ai Becchi.

Mi farà un gran piacere se andasse oppur mandasse alcuno p. e. D. Duino a scegliermi tali libri e spedirmeli al più presto e questo per risparmiare alcuni centesimi a comperarne altri. Ho avuto una disgrazia: la casa, posta in costruzione, rovinò quasi intieramente mentre era già quasi tutta coperta: tre soli furono lesi gravemente, niuno morto, ma uno spavento, una costernazione da far andare il povero Don Bosco all'altro mondo.

Sic Domino placuit.

Mi ami nel Signore, saluti l'ottimo suo Sig. Vicecurato e se valgo a qualche cosa mi comandi e mi troverà

Di V. S. Car.ma

Torino, 6 Dicembre 1852.

Aff.mo amico

Sac. Bosco Giovanni

 

Intanto la caduta della casa, oltre al danno materiale recava più altri disturbi. La stagione avanzata non permetteva più, non diremo terminare, ma neppure ricominciare i lavori. A stento si poteva coprire e riparare il braccio a levante non ancor finito che rimaneva in piedi. Come dunque prov- vedere alla strettezza di locali? La carità è industriosa, e tale era quella di D. Bosco. Rassicurate le mura della Cappella antica, questa venne ridotta a dormitorio; e le scuole diurne e serali; colle dovute cautele e pii riguardi si trasferirono nella chiesa nuova, la quale perciò nei giorni festivi e tutte le mattine serviva pel divin culto e per le pratiche religiose, e lungo la settimana dopo il mezzodì si convertiva in collegio e in palestra letteraria.

Si stabili pertanto una classe in coro, un'altra in presbiterio, una terza ed una quarta nelle due cappelle degli altari laterali, altre nel corpo della chiesa. Tutto ciò rendeva un insieme imbrogliato e confuso, ma di un'apparenza così romantica e singolare, che tutti i giovani vi accorrevano con un

vero entusiasmo. E l'ambiente per certo non era caldo. Ma D. Bosco ebbe sempre questo di mira: mostrarsi contento in ogni contrarietà, e in queste trovare il lato lepido; ordinando qualche variazione nell'ordine della casa, farlo con una cert'aria d'allegria che fosse prova dell'utilità grande che sarebbe per provenire da quella disposizione. Con questo sistema tutti i giovani accoglievano sempre colla miglior voglia del mondo qualunque cambiamento occorresse, fosse pure strano ed incomodo.

Essi stessi senza accorgersene, seguendo il suo esempio, sentivansi inclinati per costante abitudine di trovar argomento da ridere anche nelle proprie avversità. In fatti, passato lo spavento e la pena prodotta da quel disastro, Carlo Tomatis, essendo di facile e lepido ingegno, compose una poesia in piemontese, la quale recitata molte volte anche sul teatro, faceva ridere a più non posso.

Questi celebri versi furono stampati nel Bollettino Salesiano. Noi qui li riportiamo, ma tradotti dal nostro confratello Dottore D. Gio. Batt. Francesia, onde siano intesi anche da chi non conosce il dialetto del Piemonte.

 

Ero lì che sognavo, e mi parea

Veder tutta fumante in sul tagliere

Una bella polenta, che mi fea

Rider l'anima lieta pel piacere;

Quando la mamma con dolente voce

Grida: Cade la casa! Ahi caso atroce

 

Io mi sveglio intronato nella testa

Da un forte scroscio, che sentir si fece

E con la mente ancor non bene desta,

Gli abiti cerco, e del cappello invece

Prendo a Brunengo il sarto la parrucca;

Frettoloso così salvo mia zucca.

 

Uscito fuori, cerco invan le stelle,

La bella luna luminosa in cielo,

Che invece piove a furia, a catinelle;

Trovo D. Bosco, con paterno zelo,

A cercar, a contar tutti i suoi figli

Scampati per prodigio dai perigli

 

In chiesa ci raduna, e poi ci esorta

A confidar nella celeste aita:

Ognuno nel sentirlo si conforta,

Nè  teme davvantaggio della vita:

Mentre un colpo all'orecchio s'avvicina

Come il mondo n'andasse alla rovina.

 

Che sarà mai? gridammo spaventati,

Guardandoci l'un l'altro con orrore;

Saremmo in questa notte sotterrati?

Un trave e poi un altro con rumore,

Come la paglia che si porta il vento,

Col muro eran caduti in quel momento.

 

E là pochi dì prima aveva il letto

Posato, ove dormiva i sonni belli;

Di me che saria stato, poveretto,

E della tavolozza e dei pennelli?

Sarei andato con i padri antichi,

Nè  più la pancia serberei pei fichi.

 

Che ne dici, Gastini, e tu, Buzzetti?

Che vi pare di questo gran periglio?

Mi trema l'alma se penso a Rocchietti;

Mi ride invece in osservar Reviglio

A pregar, o gridar con vivo affetto,

Tenendo in testa il berrettin da letto.

 

Ed Arnaud il guantaio, e poi Battista,

Colui cioè che pela le carote,

E Marchisio, e ben altri in lunga lista

Stavano bianchi in ambedue le gote.

Di quella notte è degno che la storia

Ne serbi in bella pagina memoria.

 

All'alba intanto rovinava in tutto

Con orrendo frastuono quella mole,

Che il buon Padre erigeva, e in mezzo al

lutto

Ci disse, e le ricordo sue parole,

Con la calma dell'anima sicura:

Risorgeranno un dì coteste mura!

 

 

 

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