Capitolo 45

L'ultimo giorno nel prato - Un pellegrinaggio alla Madonna di Campagna - Il suono delle campane - Nuovi rifiuti, afflizione e lagrime - Un raggio di luce - D. Pietro Merla - Casa Pinardi e la tettoia di Valdocco - Patto conchiuso - Commozione ed entusiasmo dei giovani all'annuncio del nuovo Oratorio - La preghiera di ringraziamento a Maria - Ultimo saluto al prato.

Capitolo 45

da Memorie Biografiche

del 26 ottobre 2006

 Tra queste ed altre consimili peripezie era giunto il 5 di aprile 1846, Domenica delle Palme, ultimo giorno in cui veniva permesso di tenere Oratorio nel prato. Nella sera della festa antecedente, D. Bosco aveva detto ai giovani, licenziandoli: - Venite ancora domenica prossima, e vedremo ciò che la Provvidenza disporrà. - Fu quello uno dei giorni più affannosi pel nostro Don Bosco, un giorno di grande afflizione pel povero suo cuore, già per altre angustie ferito e addolorato. In quel dì egli doveva sapere in qual altro sito avrebbe potuto raccogliere i suoi giovani la domenica seguente, per avvisarli ed invece, malgrado ogni indagine ed ogni più minuta ricerca, niun raggio di speranza gli balenava alla mente di poterlo trovare. La diffidenza, per le cause già narrate, aveva sollevato contro di lui l'opinione pubblica; dappertutto gli si rifiutava un sito opportuno, chiesto con supplici istanze. Trovandosi coll'animo altamente amareggiato, ma pur sempre confidente in Dio, egli pensò di mettere alla prova le preghiere de' suoi cari fanciulli, molti dei quali erano veramente angioletti di virtù. Perciò in quel mattino avutili nel prato e confessatine una buona parte, ei li raccolse, ed annunziò che sarebbero andati ad udire la Messa al Convento della Madonna di Campagna, luogo distante circa due chilometri sulla via di Lanzo. - Noi andiamo colà, egli disse loro, come in divoto pellegrinaggio ad onor di Maria, affinchè questa pietosa Madre ci ottenga la grazia di trovare presto un altro locale pel nostro Oratorio. - La proposta fu accolta con gaudio, e si posero tosto in ordine. Sapendo che la gita era più di divozione che non di passatempo, tennero un contegno più che mai edificante; e quindi lungo la via or pregavano recitando il Rosario, or cantavano le Litanie e sacre Laudi.

Quando furono sull'ombroso viale, che dalla strada maestra mette al Convento, con grande maraviglia di tutti le campane della chiesa presero a suonare a distesa. Dissi con grande meraviglia di tutti, perchè quantunque si fossero già recati colà parecchie altre volte, non mai il loro arrivo era stato festeggiato col suono dei sacri bronzi. Questa dimostrazione parve così insolita e fuor dell'uso, che si sparse la voce, che le campane si fossero poste a suonare da se stesse. Il certo si è che il Padre Fulgenzio, Guardiano del Convento ed allora Confessore del re Carlo Alberto, assicurò che nè egli nè altri della famiglia aveva ordinato di suonare le campane in quell'occasione, e per quanto brigasse di sapere chi le avesse suonate, non gli venne mai fatto di scoprirlo.

Entrati in chiesa, assistettero alla Messa, e parecchi dei giovani si accostarono anche alla santa Comunione. Dopo Messa, e mentre il buon Guardiano faceva preparare colazione nel giardino del Convento, D. Bosco tenne un bel discorso di opportunità. Paragonando i suoi fanciulli ad uccelli, cui veniva gettato a terra il nido, egli li animò a pregare la Madonna, che loro ne volesse preparare un altro più stabile e sicuro; ed essi La pregarono con lui veramente di cuore, pieni di fiducia che li avrebbe esauditi. Refiziati, ritornarono in città, per raccogliersi nelle ore pomeridiane per l'ultima volta nel prato.

Avevano collocate le loro sorti nelle mani di Maria; nel tempo stesso D. Bosco aveva lasciato chi cercasse altro sito; ma prima che cadesse il giorno, la loro speranza e soprattutto il cuor di D. Bosco dovevano essere posti ad un grande cimento.

Verso le ore due dopo mezzogiorno erano già pressochè tutti convenuti nel prato. Sapendo essere quella l'ultima volta che ad essi era concesso di approfittarsene, loro sembrava di provare un gusto squisito nel correrlo da capo a fondo e calpestarlo a talento. Non le avranno contate, ma ben molte radici d'erba dovranno aver fatto perdere in quella sera, da mettere a non lieve repentaglio il vistoso patrimonio dei fratelli Filippi!

Nell'ora stabilita vi fu catechismo, canto, predica, tutto come le altre volte. Dopo ciò, i giovani ripigliarono gli amati giuochi e trastulli; ma una cosa insolita non tardò a colpire i loro sguardi e a frenare in alcuni l'ardore nel divertirsi. Colui che per lo innanzi era sempre stato l'anima delle ricreazioni e che, nuovo Filippo Neri, si faceva piccolo coi piccoli, cantando, giocando, correndo con essi, il caro D. Bosco, stavasene tutto solo in un angolo del prato, pensieroso e melanconico. Era forse quella la prima volta che i fanciulli lo vedevano starsene così isolato. Sopra il suo labbro più non fioriva quel dolce sorriso che tanto li rallegrava; dal suo volto spirava un'aria trista ed affannata; i suoi occhi erano velati dalle lagrime. Egli passeggiava e pregava. Alcuni di loro, vedendolo in quello stato, gli si facevano da vicino per tenergli compagnia; ma egli: - Andate, miei figli, diceva, e lasciatemi solo.'

D. Bosco taceva, ma i giovani pi√π adulti avevano saputo de' suoi imbarazzi e delle sue pene. Era stato dopo il mezzogiorno a visitare ancora una volta i fratelli Filippi, e la loro signora madre, senza poterli smuovere dalla intimata decisione.

 - Ma io, aveva esclamato D. Bosco, ho preso in affitto quel prato per un anno a venti lire al mese, ed il tempo della locazione non è ancora finito. Tale somma venne pattuita precisamente in considerazione del raccolto del fieno che sarebbe stato pregiudicato.

 - E noi non siamo disposti, avevano soggiunto i signori Filippi, a patire un danno grave e non preveduto. Si cerchi un altro luogo.

 - E ora dove vogliono ch'io vada?

 - Le abbiamo concesso il tempo necessario! Si doveva provvedere!

Il povero D. Bosco era adunque in quel momento sotto l'incubo di un'afflizione, che penna alcuna non varrebbe a descrivere. Egli era come un agricoltore, il quale mira il cielo oscurato e un nembo di grandine che gli minaccia il campo le sta per rapirgli le sue più care speranze; era come un pastore amoroso che vedevasi costretto ad abbandonare la sua greggia diletta, a lasciare i suoi agnelletti in preda a lupi rapaci; era come un padre, anzi come una madre affettuosa, che per violenza doveva separarsi forse per sempre, dai cari suoi figli. Egli andava riflettendo seco stesso: I miei aiutanti mi hanno voltate le spalle e lasciato solo alla coltura di questi numerosi ragazzi; io sono sfinito di forze, la mia salute ormai se n'è andata, e per soprappiù, di qui a due ore scade il tempo di potermi intrattenere in questo prato; mi è d'uopo avere un altro luogo dove raccogliere questi giovanetti ed avvisarli per la domenica prossima, e questo luogo, malgrado ogni ricerca, non comparisce, e fin di questa sera ha da finire quest'Oratorio. Dunque sono gettate al vento tutte le durate fatiche? dunque inutilmente sparsi tanti sudori? Dunque è giocoforza licenziare e dare l'addio a tanti giovanetti che mi amano, lasciarli nuovamente in balia di se stessi, rivederli a girondolare per le vie e per le piazze, ingolfarsi nel vizio, incamminarsi alla prigione, perdersi nell'anima e nel corpo? Ma pure questo non è il voler di Dio!... A tali considerazioni gli si fece così intensa la pena, che il povero D. Bosco non ne potè più; proruppe in singhiozzi e pianse.

Qualcuno potrebbe qui domandare: Ma la speranza, anzi la certezza del futuro Oratorio lo abbandonò forse in quell'occasione?

Siamo d'avviso che, stando Iddio per fare all'Oratorio una grazia singolare col dargli finalmente una dimora stabile e sicura, volle quella sera che il suo fondatore sentisse tutto il peso dell'abbandono, e ne rimanesse come accasciato, affinchè il prossimo favore gli riuscisse più gradito e quale un premio di un grave travaglio; poichè è regola della divina Provvidenza ai grandi sacrifizi far tener dietro i benefizi più segnalati, Ma in quello stato di oppressione D. Bosco non poteva smarrire punto la sua fiducia, e si può ripetere di lui quello che del gran Patriarca Abramo scrisse S. Paolo: Contra spem in spem credidit, ut fieret pater multarum gentium, secundum quod dictum est ei: Contro l'umana speranza, egli credette alla speranza di divenir padre di molti fanciulli, secondo quello che a lui fu detto.

Alcuni dei giovani, che in quei momenti non gli erano distanti, lo videro alzare gli occhi lagrimosi al cielo, e lo udirono esclamare: “O Dio mio, Dio mio, perchè non mi fate palese il luogo in cui volete che io raccolga questi fanciulli? O fatemelo conoscere, o ditemi quello che debbo fare”. Era questa la preghiera del dolore bensì, ma pure della speranza; e il Dio della bontà, il Padre degli orfani non tardò a raccogliere quelle pietose lagrime, ed esaudire quegli amorosi accenti.

D. Bosco aveva appena terminate queste parole e terso il pianto, quand'ecco entrare nel prato un certo Pancrazio Soave, tanto balbuziente, che per cavargli le parole di bocca sarebbero state necessarie le tanaglie di Nicodemo. Il buon uomo, fattosi avanti a D. Bosco, gli domandò alla bella meglio: - È vero che ella cerca un sito per fare un laboratorio? - Non per fare un laboratorio, rispose D. Bosco, ira un Oratorio. - Non so, rispose Pancrazio, se sia la stessa cosa Oratorio o laboratorio; ma un sito c'è: lo venga a vedere. È di proprietà del signor Francesco Pinardi, onesta persona che ha intenzione di darlo in affitto. Venga e farà un buon contratto. Questa proposta inaspettata fu come un raggio di luce apparso tra mezzo a dense nuvole. In quell'istante giungeva un fedele amico di D. Bosco, un certo D. Pietro Merla, fondatore dell'Opera pia sotto il nome di Famiglia di S. Pietro, la quale ha per scopo di provvedere al tristo abbandono in cui si trovano tante povere zitelle, a cui per varie ragioni riesce pressochè impossibile trovare chi voglia dare loro pane o lavoro. Compagno di Seminario del nostro D. Bosco e conscio del gran bene che egli faceva in una parte di ministero non dissimile da quella che a lui stava a cuore, quel degno Sacerdote, quando nel giorno festivo avea un ritaglio di tempo, correva con piacere in aiuto dell'amico prestandosi volentieri ad assistere, a fare il catechismo, a predicare ed in ogni altro caritatevole ufficio.

 - Che cosa hai? domandò allora a D. Bosco, appena gli ebbe dato uno sguardo; non ti vidi mai così melanconico. T'incolse forse qualche disgrazia?

 - Disgrazia no, ma un grande imbarazzo. Oggi è l'ultimo giorno, che mi è permesso il dimorare in questo prato; siamo alla sera: debbo dire a' miei figli dove si raduneranno un'altra domenica, e non lo so. Vi ha quest'uomo che mi dice essere qui presso un locale forse conveniente, e m'invita ad andarlo a visitare. Giungesti qui opportuno. Assisti un momento alla ricreazione; io vado a vederlo, e ritorno.

 - Sono qua tutto per te, soggiunse tosto D. Pietro; va pure tranquillo, e fa le cose con tuo comodo.

E D. Bosco si accompagnò col Pancrazio, il quale lo guidò ove aspettavalo il Sig. Pinardi. Giunto sul luogo, attorniato da orti, prati e campi, egli trovò una casupola di un solo piano oltre il terreno, colla scala e con un balcone di legno tarlato, ed in quella riconobbe l'abitazione di cattiva fama, che più volte gli era stata mostrata in sogno.

D. Bosco voleva salire al piano superiore, ma il Pinardi e Pancrazio: - No, gli dissero; il sito per Lei è qui dietro - e ve lo condussero. Era una tettoia prolungata a piano inclinato, e diremmo piuttosto, a piano precipitato, sicchè da un lato aveva poco più di un metro di altezza. Prima aveva servito di laboratorio per un fabbricante di cappelli e poi di magazzino per certe lavandaie che qui facevano il bucato, lavando la biancheria in un canale vicino e sciorinandola in un cortile attiguo. D. Bosco entrandovi dovette aver d'occhio alla sua testa per non portargliela rotta. Per pavimento aveva il nudo terreno; e quando pioveva molto, vi si poteva andare in barca. Poteva tutt'al più servire di magazzino da legna. In quei giorni poi vi era il convegno dei topi e delle faíne, non che il nido dei gufi e dei pipistrelli.

 - È troppo bassa, non mi serve, disse D. Bosco, dopo averla squadrata.

 - Io la farò riattare, soggiunse graziosamente il Pinardi; scaverò, metterò scalini, farò un altro pavimento, e tutto come Ella vuole, perchè desidero che sia stabilito qui il suo laboratorio.

 - Non laboratorio, caro amico, ma Oratorio, cioè una piccola chiesa ove radunare dei giovanetti.

 - Tanto meglio e più volentieri ancora. Sono anch'io cantore, porterò due sedie, una per me e l'altra per mia moglie. E poi in casa ho una lampada, e la metterò anche qui per ornamento, va benone per un Oratorio.

Il buon uomo pareva fuori di sè per la contentezza di avere una chiesa in sua casa, e il desiderio che allora concepì di far contratto poteva forse eguagliare quello di D. Bosco. Era disposizione della Provvidenza.

 - Vi ringrazio, disse D. Bosco, del buon volere e delle offerte che mi fate. Se voi potete abbassare il pavimento non meno di un piede (centimetri 50), io accetto; ma quanto domandate?

 - Trecento lire all'anno; me ne vogliono dare di più, sa, ma preferisco Lei, che vuol destinare questo locale ad un fine religioso e al pubblico bene.

 - Ve ne do trecento e venti, purchè mi diate anche questa striscia di terreno per la ricreazione, e mi promettiate che domenica prossima io vi possa già condurre i miei giovanetti.

 - Inteso; patto conchiuso: venga pure; domenica tutto, sarà all'ordine.

D. Bosco non cercò di più, e coll'animo in festa ritornò ai giovani, li raccolse a sè d'intorno, e ad alta voce prese a gridare: - Allegri, figliuoli miei, allegri; abbiamo trovato, l'Oratorio; avremo Chiesa, sacrestia, camere per le scuole, sito per correre e giocare. Domenica, domenica già vi andremo. È là in casa Pinardi; - e così dicendo additò il luogo, che essendo vicino si vedeva dal prato. Udita questa notizia, sulle prime gli uni stavano immobili per lo stupore come se non avessero bene inteso, e gli altri come chi prova un gran piacere e non sa come esprimerlo; e si volgevano da una parte e dall'altra. “Ma dopo qualche istante non fu più possibile farci star fermi e quieti, ci attestavano alcuni dei superstiti. Ci siamo sbandati, e poi chi correva, chi saltava, chi faceva capriole, chi lanciava il berretto in aria, chi gridava a tutta possa, chi batteva le mani: pareva il finimondo. La gente che si trovava in quelle parti sbalordita traeva a noi, domandando che vi fosse. D. Merla rideva; D. Bosco piangeva di consolazione. Fu un momento di commozione, anzi di entusiasmo indescrivibile; una scena veramente degna di essere tramandata ai posteri. Così per la bontà di Dio, per l'intercessione di Maria Immacolata si passava come per incanto da una cupa mestizia ad una soavissima allegrezza ”.

Dopo quello sfogo di gioia, D. Bosco li richiamò, impose silenzio, volse loro alcune parole analoghe sul buon esito del pellegrinaggio, e invitò ad inginocchiarsi e a recitare il santo Rosario in ringraziamento. Fu quella la preghiera della gratitudine verso la celeste Benefattrice e Madre, la quale nel giorno stesso li aveva così amorosamente esauditi.

Alzatisi, diedero l'ultimo saluto al prato, che avevano fino allora amato per necessità, ma che, per la certezza di aver un luogo migliore e più stabile, abbandonavano senza rincrescimento.

Il sole era già tramontato, ed i giovani, riverito ed acclamato D. Bosco, presero a ritirarsi alle proprie case a dirvi le vicende di quella fortunosa sera.

Il contratto di questa locazione porta la data del 1° aprile1846: è firmato da Francesco Pinardi e dal Teologo Giovanni Borel, e doveva durare tre anni.

 

 

 

 

 

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