Capitolo 46

Luigi Comollo entra in seminario - Preziosi frutti di una santa amicizia Bontà, umiltà e pazienza di Giovanni coi compagni - Le visite degli studenti di Chieri - Il circolo scolastico e una santa lega per l'osservanza delle regole del seminario - Studii ne' quali si occupa Giovanni - Stima ed affezione dei Chieresi - Due consolanti avvenimenti.

Capitolo 46

da Memorie Biografiche

del 13 ottobre 2006

Nelle vacanze dell’anno 1836, indossò pur l’abito chiericale l'angelico giovane Luigi Comollo, ed al riaprirsi delle scuole entrò anch'esso nel seminario di Chieri, dove nuovamente s'incontrò con Giovanni Bosco, il quale, ottenuto il condono di mezza pensione che solevasi concedere ai giovani più studiosi e poveri, con maggior lena incominciava il secondo anno di filosofia. Quivi vieppiù si riannodarono fra i due compagni i vincoli dell'antica amicizia, sicchè la vita dell'uno si confonde con quella dell'altro, e, per parlar di Giovanni, è giuocoforza valerci della biografia ch'egli stesso scrisse del Comollo, celando il proprio nome sotto l'appellativo di intimo amico. Noi in servirci di essa metteremo a posto il benedetto suo nome e accenneremo qua e colà a qualcuna delle sue virtù, che egli sempre gelosamente nasconde.

Comollo fin dal principio dell'anno erasi scritto sopra un pezzo di carta, che teneva sempre nel libro o nel quaderno, di cui giornalmente soleva servirsi, un motto come programma della sua condotta: Fa molto chi fa poco, ma fa quello che deve fare; fa nulla chi ha molto, ma non fa quello che deve fare. Egli era obbedientissimo in ogni circostanza e in ogni cosa, e, suonato il campanello, subito interrompeva qualsivoglia cosa facesse, per rispondere alla voce di Dio, rappresentatagli da quel suono. Abborriva dallo spirito di critica e di censura, e niuno mai lo intese proferir parola che fosse contraria a quel principio che teneva fisso nella mente: Degli altri o parlare bene, o tacere affatto. Nella ricreazione, ne' circoli, ne' tempi di passeggiata desiderava sempre parlare di cose scientifiche, anzi in tempo di studio soleva formarsi nella mente una serie delle cose che meno intendeva, per quindi tosto comunicarle in tempo libero a Giovanni, onde averne la spiegazione.

Tutte le volte che i seminaristi assistevano in duomo alle solenni funzioni, non solevano più recarsi a recitare la corona della B. V.; ma il Comollo non seppe mai astenersi da siffatta speciale divozione; perciò, terminate queste pubbliche funzioni, mentre ognuno passava il tempo nella permessa ricreazione, egli con Giovanni si ritirava in cappella a pagare, come soleva dire, i debiti alla sua buona Madre colla recita del santo Rosario.

Amante e devoto di Gesù, Sacramentato, approfittava di tutte le occasioni per comunicarsi. Giunta l'ora di accostarsi alla sacra mensa, Giovanni, che gli era al fianco, lo scorgeva tutto assorto ne' più alti e divoti pensieri. Composta la persona in santo atteggiamento, a passo grave, cogli occhi bassi, dando anche in iscuotimenti di commozione, avvicinavasi al Santo dei Santi. Ritiratosi poscia a suo posto, pareva fosse fuor di sè, tanto vivamente vedevasi commosso e da viva divozione compreso. Pregava, ma ne era interrotto da singhiozzi, da interni gemiti e da lagrime; nè poteva acquetare i trasporti di tenera pietà, se non quando, terminata la Messa, si cominciava il canto del mattutino. Avvertito più volte da Giovanni a frenare quegli atti di esterna commozione, come quelli che potevano offendere l'occhio altrui: “Mi sento, rispondevagli, mi sento tale piena di affetti e di contento nel cuore, che, se non permetto qualche sfogo, mi pare di essere soffocato”. “Nel giorno della Comunione, diceva altre volte, mi sento ripieno di dolcezza e di gaudio, che non so nè capire, nè spiegare”.

Giovanni rispettava questa ardente divozione di Comollo, ma sentivasi internamente avverso a quanto aveva apparenza di singolarità, che potesse destare ammirazione negli altri. La sua pietà non era meno ardente di quella di Comollo, ma aveva aspetto diverso. Giovanni, fatta la S. Comunione, si ritirava al suo posto, e qui colla persona diritta, col capo leggermente chino, cogli occhi chiusi e colle mani giunte innanzi al petto, restava immobile tutto il tempo del ringraziamento. Non udivi un sospiro; vedevi solamente di quando in quando tremar le labbra che proferivano una muta giaculatoria: ma sovra il suo sembiante appariva così viva l'espressione della fede, che rimanevasi incantato a mirarlo.

Le azioni più semplici e indifferenti divenivano per Comollo mezzi opportuni ad esercitar la virtù. Era assuefatto ad incrocicchiar l'una sull'altra le gambe ed appoggiarsi col gomito, quando gli veniva bene, a mensa, o nello studio, o nella scuola. Per amor di virtù, anche di questo si volle correggere, e per riuscirvi pregò istantemente Giovanni di ammonirlo ed anche di imporgli qualche penitenza ogniqualvolta l'avesse veduto nelle succitate posizioni. Giovanni non mancò di accontentarlo, tanto più che egli fin d'allora era veramente l'edificazione di tutti pel suo contegno. Mai si vide con una gamba a cavalcioni sull'altra, mai sdraiato sulle sedie; ritto sulla persona, il suo dorso non toccava la spalliera, e, se non lavorava, le sue mani teneva sul petto colle dita incrocicchiate. Di qui procedeva in ambedue quella esteriore compostezza, per cui in chiesa, nello studio, in iscuola, in refettorio e altrove innamoravano ed edificavano chiunque li rimirasse.

Nelle sue memorie D. Bosco fa cenno dell'amico suo con termini, che svelano, senza volerlo, la bellezza del proprio cuore e l'umile sentire di sè: “La mia ricreazione era non di rado interrotta dal Comollo. Mi prendeva egli per un lembo dell'abito, e dicendomi di accompagnarlo, conducevami in cappella per far la visita al SS. Sacramento per gli agonizzanti; recitare il S. Rosario, o l'uffizio della Madonna in suffragio delle Anime del Purgatorio.

” Questo meraviglioso compagno fu la mia fortuna. A suo tempo sapeva avvisarmi, correggermi, consolarmi con sì bel garbo e con tanta carità, che in certo modo era contento di dargliene motivo per gustare il piacere di esserne corretto. Trattava famigliarmente con lui, mi sentiva naturalmente portato ad imitarlo; e sebbene fossi mille miglia da lui indietro nella virtù, tuttavia se non sono stato rovinato dai dissipati e se potei progredire nella mia vocazione, ne sono veramente a lui debitore. In una cosa solo non ho nemmeno provato ad imitarlo: nella mortificazione. Il vedere un giovanetto sui diciannove anni digiunare rigorosamente l'intera quaresima ed altro tempo dalla Chiesa comandato; digiunare ogni sabato in onore della B. Vergine, spesso rinunziare alla colezione del mattino, talvolta pranzare a pane ed acqua, sopportare qualunque disprezzo ed ingiuria, senza mai dare minimo segno di risentimento, il vederlo esattissimo ad ogni più piccolo dovere di studio e di pietà, queste cose mi sbalordivano e mi facevano ravvisare in quel compagno un angiolo come amico, un eccitamento al bene, un modello di virtù per chi vive in seminario”.

Non ostante queste umili espressioni di Giovanni, egli era ben degno di stare a pari e di godere dell'amicizia di Comollo. Ecco infatti come ne parlano alcuni suoi compagni. D. Giovanni Francesco Giacomelli di Avigliana, che fu sempre amico carissimo di D. Bosco e a lui sopravvisse, così raccontava il modo, onde strinse con lui famigliarità. “Entrai nel seminario di Chieri un anno dopo di Giovanni Bosco. La prima volta che mi assisi nella sala di studio tra gli alunni di filosofia, mi vidi avanti un chierico che mi pareva di età avanzata. Giudicai che avesse dieci anni più di me. Di assai bell'aspetto, coi capelli tutti ricciuti, era pallido, magro e sembrava sofferente. Si sarebbe detto che con difficoltà avrebbe resistito agli studi fino alla fine dell'anno; invece, sebbene sempre un po' cagionevole di sanità, andò di giorno in giorno acquistando maggior vigoria. Era il caro, nostro D. Bosco. Io allora fui preso per lui da viva simpatia e compassione. Egli pure guardava me con occhio compassionevole per l'imbarazzo, nel quale mi trovava, essendo io fatto, segno ai motteggi di alcuni compagni.

” Entrato in seminario un mese dopo gli altri, non conosceva quasi nessuno, e nei primi giorni ero come sperso in mezzo ad una solitudine. Fu il chierico Bosco, che si avvicinò a me la prima volta che mi vide solo dopo il pranzo, e mi tenne compagnia tutto il tempo della ricreazione, raccontandomi varie cose graziose, per divagarmi dai pensieri che potessi avere di casa o dei parenti lasciati. Discorrendo con lui, venni a sapere che durante le vacanze era stato, alquanto ammalato. Egli poi mi usò molte gentilezze. Tra le altre mi ricordo che, avendo io una berretta sproporzionatamente alta, per cui varii compagni mi davano un po’ di baia, e ciò rincrescendo a me e a Bosco, che veniva sovente meco, me la aggiustò egli stesso, avendo seco l'occorrente ed essendo molto abile a cucire. D'allora in poi incominciai ad ammirare la bontà del suo cuore.

” La sua compagnia era edificante. Varie volte mi condusse in chiesa a recitare il vespro della Madonna o qualche altra preghiera in onore della gran Madre di Dio. Parlava volentieri di cose spirituali. Un giorno in tempo di ricreazione mi condusse in iscuola e mi spiegò l'inno del nome di Gesù, invitandomi a recitare i cinque salmi in onore di questo nome adorabile e facendomi notare come dalle diverse iniziali dei singoli salmi si poteva appunto raccorre la parola Jesus. Restai ammirato di questa sua divozione, che per me era nuova. Un'altra volta si parlava dell’Ave Maris stella, e spiegando le parole tulit esse tuus: Questo versicolo, disse, riguarda Gesù Cristo, che nacque da Maria Vergine: ma dicendo tuus di Gesù, ricordiamo a Maria noi esser suoi. Essendo Gesù venuto per salvare il mondo col prendere umana carne nel suo purissimo seno, tutto il popolo cristiano è tenuto come fratello di Gesù e figlio di Maria SS. Dal primo istante dell'Incarnazione noi abbiamo incominciato ad essere popolo di Maria Vergine. Perciò le diciamo: Monstra te esse Matrem: Mostra di essere nostra Madre, nostro aiuto, nostra protettrice.

- Non pare che egli avesse già formulato in mente tutto ciò che si vide poi operare per Maria Auxilium Christianorum?

” Fin d'allora Giovanni Bosco amava immensamente i giovani ed era sua delizia trovarsi in mezzo di loro. Tutti i giovedì, attirati da' suoi bei modi, moltissimi giovanetti di Chieri, varii dei quali erano stati due anni prima suoi condiscepoli nel ginnasio, venivano a visitarlo, e noi sentivamo sempre all'ora consueta la voce del portinaio che gridava: Bosco di Castelnuovo! - Egli scendeva, s'intratteneva allegramente con quei giovani, che lo attorniavano come figli il proprio padre, entrava in discorsi relativi alle scuole, allo studio, alle pratiche di pietà, non ometteva mai di dar loro qualche buon consiglio, li conduceva eziandio in cappella a fare una breve preghiera e loro dimostrava un affetto tutto speciale. Dopo di averli congedati, più di una volta mi disse: Bisogna sempre introdurre nelle nostre conversazioni qualche pensiero di cose sovrannaturali. E un seme che a suo tempo darà frutto.

- È l'avviso dello Spirito Santo: “Il pensiero di Dio sia fisso nell'animo tuo e tutti i tuoi ragionamenti siano de' comandamenti dell'Altissimo”.

 Giovanni era chiamato Bosco di Castelnuovo, continua D. Giacomelli, per distinguerlo da un altro chierico avente lo stesso cognome, che poi fu direttore delle Rosine in Torino. Accadde fra questi due un piccolo fatto, cui allora non si badò, ma che io ben ricordo. I due chierici dallo stesso cognome faceziavano e si dimandavano qual soprannome dovessero imporsi per distinguersi quando fossero chiamati. Uno disse: - Io sono Bosco Nespola (in dialetto piemontese pucciu). - E con ciò indicava essere un legno duro, nodoso, poco pieghevole.

- E il nostro D. Bosco rispondeva: - Ed io mi chiamo Bosco di Sales, cioè a dire di salice, legno dolce e flessibile.

- Pare che fin d'allora prevedesse la futura Congregazione avente per Patrono S. Francesco di Sales, e perciò di questo Santo voleva imitare la dolcezza. Di natura sensibilissimo anche per piccole cose, si capiva come senza virtù si sarebbe lasciato sopraffare dalla collera. Nessuno de' nostri compagni, ed erano molti, inclinava come lui a tale difetto. Tuttavia era evidente la grande e continua violenza che faceva per contenersi.

” In iscuola era un esemplare. Io ammirava in lui una gran diligenza ed amore allo studio ed alla pietà. Non lo vidi mai prendere parte a divertimenti anche leciti e permessi dai superiori; ma, eziandio in tempo della ricreazione, o leggeva, o studiava, o passeggiava conversando coi compagni, sempre raccontando cose edificanti, oppure andava in chiesa a fare una visita al SS. Sacramento. Non mancò mai, nei cinque anni che fui suo condiscepolo in seminario, alla risoluzione presa di raccontare ogni giorno un esempio tratto dalla storia ecclesiastica, dalla vita dei Santi, o dalle glorie di Maria, Madre nostra amorosissima.

” I compagni lo amavano e lo tenevano come carissimo condiscepolo, e se talora qualcheduno mostravasi emulo indiscreto o prepotente, ei si faceva rispettare per la sua abilità e tenevalo a segno col suo contegno. Se qualche volta avveniva tra i compagni qualche disordine, quantunque leggiero, o qualche diverbio per disparità di opinioni, egli s'intrometteva e metteva sempre la pace fra essi”. Fin qui D. Giacomelli.

Altro compagno di Giovanni nel seminario fu Mons. Teodoro Dalfi, nativo di S. Maurizio Canavese, che fu poi prete secolare e parroco zelantissimo dell'Archidiocesi di Torino, quindi aggregato alla Missione di S. Vincenzo de' Paoli e mori dopo D. Bosco. Era un giovane eccellente, ma vivace oltre ogni credere, quale doveva essere naturalmente chi la Provvidenza divina destinava a percorrere palmo a palmo per ben quattro volte la Palestina, l'Egitto e altre regioni dell'Asia Minore, innamorato degli studi biblici, e a dare alla luce su questo argomento quattro grossi volumi. Egli pure lasciò scritte di D. Bosco le seguenti memorie: “Era l'anno 1836, quando, dopo tre anni di corso farmaceutico, deposto l'abito secolaresco per indossare la sacra sottana, alla vigilia d'Ognissanti feci ingresso nel seminario di Chieri e la prima conoscenza fu col caro chierico Bosco. Conobbi anche l'indivisibile suo compagno il chierico Comollo. Anzi, dovendo allora, nell'entrata del corso, fare la scelta di un compagno e capitato ivi appunto il Comollo, mi avvicinai a lui; ma, dopo pochi giorni lo abbandonai, perchè, tutto quiete e pace, sarebbe stato meco in penitenza.

” Giovanni Bosco, amico di tutti, non fu famigliare mai con altri, fuorchè con una piccola cerchia di chierici del suo corso, o conoscenti dei paesi a lui vicini. Con questi aveva formato una società fin da principio, della quale il Bosco era il padre, il padrone e il maestro, perchè più attempatello. Fra di loro erano il chierico Comollo, cui feci io la veglia nella notte antecedente alla sua morte, il chierico Zucca di vicino paese, Picchiotino, Antonio Avataneo e Burzio Poirinesi e Ronco di Chieri, che con qualche altro, che ora non son più, passavano ordinariamente sempre l'intera ricreazione ad udire i suoi racconti e ciò principalmente dopo la cena.

” Io per rivendicarmi dei tre anni di laboratorio farmaceutico e di bottega, godeva fino all'ultimo dei minuti la ricreazione chiassosa, capo fanatico di bara rotta, specie di mosse di finta battaglia a corsa di due parti contendenti. Quante volte andava a strappare il povero Bosco per trascinarlo in ballo, tormentando quel poveretto, uso sempre a far due passi su di una pianella. Ma non ci fu mai verso... nè si adirava: solo diceva: Tu Dalfi!... tu Dalfi!... e bisognava lasciarlo. Nessuno lo vide correre mai, nè ricordo che mischiasse carte o tarocchi, o leggesse romanzi, o libri di poesie.

” Quanto poi alla ricreazione del pomeriggio, nei giorni feriali, dopo appena un quarto d'ora, era sempre chiamato alla porta, e con licenza de' superiori faceva un po' di ripetizione ad alcuni fanciulli esterni, accettando qualche esiguo compenso per le sue piccole spese necessarie, non avendo altri mezzi per sopperirvi. Suonavasi alla porta, poi davasi il segno della tal camerata, quindi il richiamo di Bosch 'd Castelneuv: e lì la musica de' compagni che facevano eco alla voce del portinaio:- Bosch 'd Castelneuv, Bosco di Castelnuovo, Bois de Chateau neuf!! - Ed egli a ridere, ma non accelerare mai d'un passo la sua andata. Perciò può dirsi che l'ora di libertà era per lui solo quella dopo cena, l'ora dei racconti.

” Posso dire di non averlo mai veduto in collera, e talora ne avrebbe avuto ben donde di accendersi; ma egli rideva e prendeva tutto per bene, pensando essere quelle salire o facezie e baie, non già offese. Peccato che coloro, i quali avrebbero potuto dire infinite cose della sua vita intima, ed erano esatti ed immancabili alla sua scuola, già tutti l'abbiano preceduto o seguito nell'eternità”.

Mons. Dalfi nella surriferita testimonianza accenna ad una società di chierici, formata intorno al chierico Bosco. Era dessa come una santa lega per l'osservanza delle regole del seminario e per l’adempimento esatto de' proprii doveri di pietà e di studio. I principali soci erano Guglielmo Garigliano, Giovanni Giacomelli e Luigi Comollo. “Questi tre compagni furono per me un tesoro, lasciò scritto D. Bosco. Il circolo scolastico, incominciato l’anno antecedente, era sempre in fiore, accresciuto in quest'anno di alcuni nuovi soci. Si discutevano le difficoltà filosofiche non ben intese in iscuola, facendo sempre uso della lingua latina, come aveva proposto Comollo. Ciò tornava a tutti di grande vantaggio, perchè si giunse a maneggiare questa lingua nelle materie scolastiche con molta speditezza e con una famigliarità meravigliosa. Celebre a fare domande era Comollo. Egli, di più, sapeva animare le conversazioni con varie utili ricerche e racconti, ma osservava costantemente quel non mai abbastanza encomiato tratto di civiltà, di tacere quando altri parla. Pel che non di rado avvenivagli di troncare a mezzo la parola, per dar campo a che altri liberamente parlasse. Un certo Domenico Peretti, poi parroco di Buttigliera, era assai loquace e rispondeva sempre. Garigliano era eccellente uditore e faceva soltanto qualche riflesso”. Con queste dispute, che esigevano una preparazione attenta nell'imparare in iscuola le lezioni dettate dai professori, ne venne che Giovanni possedeva a perfezione la logica, la metafisica, l'etica, l'aritmetica e la fisica, come apparirà nel corso di questa storia. “Il ferro assottiglia il ferro e l'uomo assottiglia l'ingegno del suo amico”.

Ed ecco un'altra prova di quanto asseriamo. Nel secondo anno di filosofia corse pericolo di non conseguire per concorso il condono di due mesi di pensione. Avea un competitore di grandissimo ingegno. Ambedue riuscirono i migliori fra i varii concorrenti, avendo ottenuto egualmente pieni voti, tanto nel verbale, quanto nell'esperimento in iscritto. Fu loro proposto se volevano dividere il premio. Giovanni acconsentiva; ma il compagno, benchè fosse molto ricco, tentennava a decidersi. Allora il professore intimò un secondo esame: il lavoro fu assai difficile, ma Giovanni Bosco rimase vincitore. E questa fortuna l'ottenne pur negli anni seguenti.

Intorno agli studi, però Giovanni fu dominato da un errore che gli avrebbe prodotto funeste conseguenze, se un fatto provvidenziale non glielo avesse tolto. “Abituato alla lettura dei classici in tutto il corso secondario, così scrive egli, assuefatto alle figure enfatiche della mitologia e delle

favole dei pagani, non trovavo gusto nello stile semplice dei libri ascetici. Giunsi a persuadermi che la buona lingua e la eloquenza non si potesse imparare dai libri che trattano di religione. Le stesse opere dei SS. Padri mi sembravano parto di ingegni assai limitati, eccettuati i principii religiosi, che essi esponevano con forza e chiarezza. Ciò era conseguenza di discorsi uditi da persone eziandio ecclesiastiche, valenti nella classica letteratura, ma poco rispettosi verso questi grandi luminari della Chiesa, perchè non li conoscevano.

” Sul principio del secondo anno di filosofia, andato un giorno a far la visita al SS. Sacramento e non avendo meco il libro di preghiera, mi feci a leggere De imitatione Christi: ne lessi alcuni capi intorno al SS. Sacramento. Considerando attentamente la sublimità de' pensieri e il modo chiaro e nel tempo stesso ordinato ed eloquente, con cui si esponevano quelle grandi verità, cominciai a dire tra me stesso: L’autore di questo libro era un uomo dotto - Continuando altre e poi altre volte a leggere quell'aurea operetta, non tardai ad accorgermi che un solo versicolo di essa conteneva tanta dottrina e moralità, quanta non avrei trovata nei grossi volumi dei classici antichi. È a questo libro che son debitore di aver cessato dalla lettura profana. Mi diedi pertanto alla lettura di Giuseppe Flavio delle antichità giudaiche, della guerra giudaica; di poi presi i ragionamenti sulla religione di Mons. Marchetti; quindi Frassinous, Balmes, Zucconi, e molti altri scrittori religiosi e gustai pure la lettura della storia ecclesiastica del Fleury, che ignorava essere libro da evitarsi. Con maggior frutto ancora ho letto le opere del Cavalca, del Passavanti, del Segneri e tutta la storia universale della Chiesa dell'Henrion, che mi restò impressa nella memoria.”

Voi direte: Occupandomi in tante letture, non poteva attendere ai trattati. Non fu così. La mia memoria continuava a favorirmi, e la lettura e spiegazione dei trattati fatta nella scuola mi bastavano per soddisfare ai miei doveri. Quindi tutte le ore stabilite per lo studio io le potevo occupare in letture diverse. I superiori sapevano tutto e mi lasciavano libertà di farlo”.

Noi aggiungiamo che con molto amore egli studiava eziandio i SS. Padri ed i Dottori della Chiesa, S. Agostino, S. Girolamo e specialmente S. Tommaso, tanto che giunse perfino a sapere a memoria alcuni volumi di quest'aquila della filosofia e della teologia. Nei quattro anni che rimase ancora nel seminario lesse e studiò tutta la Bibbia, i Commentarii sulla Santa Scrittura dì Cornelio Alapide e del Tirino e prese estesa cognizione anche dei Bollandisti. Questi libri e quanti altri desiderava ei li prendeva in imprestito dalla biblioteca del seminario, e quando era in vacanza ricorreva ai parroci. Del resto, pare disposizione della Provvidenza che D. Bosco per qualche tempo ignorasse in parte la bellezza dei libri che trattano di religione, studio che richiede maggior maturità d'ingegno di quella che aver possa uno studente di rettorica o del primo anno di filosofia. L'amore ai classici era necessario per quella scienza indispensabile a chi doveva essere fondatore di tante case d'istruzione. Ed il Teologo Prof. Mons. Pecchenino, che fu stretto per tanti anni a lui in intima amicizia, affermava essere cosa mirabile il vedere come D. Bosco fosse istrutto in ogni ramo della letteratura italiana e latina. Però ogni cosa ha il suo tempo. Lo stesso Ecclesiastico ci dice: “Il saggio indagherà la sapienza di tutti gli antichi e farà studio nei profeti”.

Il chierico Bosco intanto finiva il secondo anno di filosofia ricco di nuova scienza, dell'amore de' suoi compagni ed anche di molti amici che numerava in città. Una lettera di un certe Brosio a D. Bonetti così narra: “Mi ricordo, essendo io, ancor giovinetto in Chieri, che D. Bosco, allora chierico, non solo dai ragazzi, ma altresì dagli adulti e dagli uomini di matura età era stimato come fornito di grande virtù. Era caro a tutti, perchè amantissimo della gioventù. Di continuo si tratteneva con noi e con una affabilità ed amorevolezza unica al mondo. Si poteva dire che esso viveva per i fanciulli. Allorquando i chierici uscivano dal seminario diretti al duomo per le sacre funzioni, tutti si fermavano per vederlo e a vicenda segnavansi col dito il chierico dai capelli ricciuti, chè con questo appellativo tra noi ragazzi era chiamato il chierico Bosco. I suoi modi famigliari mi spinsero a desiderare di aver con lui più intima conoscenza, e la cosa mi riuscì facilissima. Nel detto seminario trovavasi pure quel chierico Luigi Comollo, amico inseparabile di D. Bosco, e coi parenti del quale io era in istretta relazione. Approfittai della circostanza e col visitare il Luigi Comollo, che trovavasi sovente in compagnia di D. Bosco, raggiunsi lo scopo prefissomi, poichè dopo non molto tempo ancor io era divenuto suo amico, e la nostra amicizia intima durò fino alla sua morte”.

In quest'anno avvenivano due consolanti fatti pel nostro Giovanni. Mons. Fransoni nell'aprile percorreva e visitava i distretti vicariali di Chieri e di Castelnuovo. È supponibile che D. Cinzano, esponendogli lo stato del suo clero, gli abbia pur parlato del chierico Giovanni Bosco. Di qui l'Arcivescovo passava alle vicarie di Gassino e di Casalborgone; ma rientrato in Torino per le sacre ordinazioni, cadeva gravemente infermo. Riavutosi presto, si ritirava in Chieri per ricuperare nella quiete di quelle vaghe colline la pristina sanità, ospitato da un ragguardevole ecclesiastico Chierese. E tanto più aveva bisogno di riposo, in quanto che continue erano state in questi anni le sue occupazioni, molteplici i dispiaceri provati nella necessaria opposizione che dovette sostenere contro le esorbitanze dei cesaristi di corte. Gli uomini posti a capo delle varie amministrazioni del governo sembrava che mettessero ogni studio nel far sorgere dissidiì tra lo Stato e la Chiesa, affine di restringere sempre più la giurisdizione di questa. Nel 1836 un decreto reale aveva ordinato alle Opere pie di presentare i conti ad una Commissione nominata dal Re ed investita di molti diritti, negando essere queste opere ecclesiastiche, sibbene laicali, dipendenti in tutto dal potere civile: un'ordinanza aveva proibito alle monache della Visitazione di stabilirsi in Thonon, sebbene avessero il consenso della S. Sede: il ministro Barbaroux comandava l’annullamento di due fogli di stampa delle Costituzioni sinodali della Diocesi d'Aosta: il senato pretendeva spettargli diritti sui cimiteri, mentre, essendo questi luoghi sacri, erano naturalmente soggetti alla giurisdizione vescovile; nello stesso tempo si negava la forza obbligatoria di certe sentenze de' tribunali ecclesiastici. Tuttavia Re Carlo Alberto ascoltava le ragioni dell'Arcivescovo, temperava certe decisioni de' suoi ministri, ricorreva a Roma per ottenere le desiderate concessioni. Infatti il Consiglio di Stato aveva proposto di togliere dalle mani del clero gli atti dello stato civile; il Re vi ripugnava e aperse trattative colla santa Chiesa. Il Concilio di Trento era stato il primo a porre rimedio al disordine delle famiglie, prescrivendo che in ogni parrocchia si tenessero i registri degli atti di nascita, battesimo, matrimonio e morte di ogni parrocchiano: erano adunque cosa tutta sua. Il Sommo Pontefice, ritenendo incolume il suo diritto, compose le cose di maniera che il Re ne fu pienamente soddisfatto, e in questo anno 1837 faceva inserire fra le leggi dello Stato le decisioni papali.

Mentre Mons. Fransoni, stanco di queste lotte, riprendeva forza nella pace di Chieri, non vi ha dubbio che Giovanni andasse a visitarlo e gli porgesse i suoi primi ossequii figliali, e destasse in lui un vivo sentimento di affezione da non più dimenticarlo. Senza una previa conoscenza, non si può spiegare la facilità, colla quale poi Mons. Fransoni gli accordava, prima del tempo stabilito, l'ordinazione al presbiterato, favore che in allora di raro concedevasi e con grande difficoltà.

Un'altra consolazione ebbe il chierico Bosco in quel tempo. Mons. Fransoni, con lettera pastorale del 5 agosto, annunziava ai fedeli essersi degnato il Sovrano di approvare che ne' suoi Stati si raccogliessero elemosine per la grande Opera della Propagazione della Fede, e ne esponeva lo scopo, i vantaggi e i favori spirituali concessi dal Sommo Pontefice a coloro che vi dessero il nome e ne adempissero le imposte obbligazioni. Ricordiamo come fra i desiderii del chierico Bosco vi fosse quello di dedicarsi alle Missioni e intenderemo come nuovi orizzonti di apostolato si aprissero innanzi alla sua mente, più vivi affetti per la salvezza eterna di milioni di anime accendessero il suo cuore, e così efficaci, che un giorno li vedremo aggiungere nuove pagine alle storie gloriose delle Cattoliche Missioni.

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