Capitolo 47

La battaglia di Novara - Abdicazione di Carlo Alberto - La rivoluzione a Genova - Parma, Modena, Toscana e Sicilia sottomesse agli antichi principi - Causa della tranquillità che regna nell'oratorio nel 1849 - Affittamento della casa di Valdocco rinnovato col Pinardi - La Divina Provvidenza aiuta a pagare i fitti - Anarchia negli Stati Papali; alcune Potenze si muovono per far cessare i disordini; i Francesi sotto le mura di Roma - Sentimenti del Papa nel ricevere l'offerta dei giovani di Valdocco - Lettera del Nunzio Apostolico - Offerta dei giovani dell'Oratorio di S. Luigi - Libri di Gioberti e di Rosmini messi all'Indice - D. Bosco tenta piegare Gioberti alle decisioni della Chiesa - Sottomissione di osmini e lettera di D. Bosco a D. Fradelizio.

Capitolo 47

da Memorie Biografiche

del 15 novembre 2006

 Il 26 marzo il domani del giorno nel quale i giovani dell'oratorio davano un sincero attestato della devozione loro all'augusto Esule di Gaeta, si pubblicava in Torino un ferale annunzio, che arrecava un cordoglio indicibile e a molti traeva le lagrime. Carlo Alberto era stato sconfitto. Dopo alcuni fatti d'arme sul Ticino, 75.000 Austriaci, per incuria, o per tradimento del generale Girolamo Ramorino, che doveva stare a difesa di un passo di questo fiume, riuscivano a tragittarlo. Tramezzato così l'esercito piemontese, capitanati dal maresciallo Radetzki, avevano marciato contro il suo maggior nerbo, posto tra Mortara e Vigevano. Il 21 marzo dopo uno scontro nel luogo detto Sforzesca, colla vittoria degli Austriaci e colla presa per assalto di Mortara, il 23 i due eserciti erano venuti a pugna campale presso le mura di Novara. Si fecero da ambedue le parti prodigi di valore, ma in sulla sera i Piemontesi erano stati costretti a ritirarsi.

Durante il fiero combattimento il valoroso Principe stava impavidamente esposto al pericolo per animare i suoi. Vedute poi fallite tutte le sue speranze e conosciuta la necessità di una sospensione d'armi, egli, per facilitare al suo popolo una più onorevole pace, volle consumare la sua carriera con un nuovo sacrificio. Pertanto in quella sera stessa, circondato da' suoi due figliuoli Vittorio Emanuele e Ferdinando, non che da' suoi aiutanti di campo, abdicava alla corona in favore del suo primogenito, che prendeva il nome di Vittorio Emanuele II. Dopo questo atto egli abbracciò e baciò ad uno ad uno gli astanti, li ringraziò dei servigi resi a lui ed allo Stato, e dopo la mezzanotte partì da Novara accompagnato da due soli domestici. In capo a pochi giorni si seppe che era giunto in Oporto, città marittima del Portogallo, da lui scelta pel luogo del suo volontario esilio. Bergamo e Como, che si erano armate e incominciavano a muoversi, alla nuova del disastro di Novara, si accordarono coi capitani tedeschi; ma Brescia, ingannata da false notizie di vittorie Piemontesi, insorse contro la guarnigione Austriaca; ma dopo otto giorni di eroica resistenza dovette arrendersi.

Intanto lo stesso giorno 26 marzo il nuovo re conchiudeva la tregua con Radetzki, e fra le altre condizioni si obbligava a stipulare la pace, ritirare le sue truppe che ancora occupavano il Modenese, il Piacentino e alcune terre della Toscana, e a richiamare la flotta dall'Adriatico. Gli articoli di fuoco

sui giornali che pretendevano si continuasse la guerra, le diatribe violente e dissennate nel Parlamento contro l'armistizio, le urla del popolaccio che percorreva le vie imprecando ai traditori, la paura ed il dolore che invadeva le case dei pacifici cittadini, non potevano essere più desolanti se i Tedeschi fossero stati alle porte della Capitale. Nella notte Vittorio Emanuele giungeva in Torino e nel 20 pubblicava il suo primo proclama al popolo, annunziando la sua assunzione al trono, senza però tenere l'antico costume, di incominciare il nuovo regno con l'invocare l'aiuto Divino. Il 29 giurò lo Statuto e quindi scioglieva il Parlamento e si veniva poi a nuove elezioni.

Nuova cagione di sgomento recava in Torino il 1° aprile la rivolta di Genova, mossa dal partito repubblicano colla menzogna che il Piemonte l'avesse ceduta all'Austria; ma in breve veniva domata da Alfonso Lamarmora accorso dalla Lunigiana con otto mila uomini. Non meno dolorose per i liberali erano le notizie che giungevano da altre parti d'Italia. Le milizie Austriache sempre più baldanzose, per i 140.000 russi alleati che invadevano l'Ungheria, rendendole inutile ogni difesa, entravano nei ducati di Parma e di Modena e rimettevano a loro posto i Duchi. Avanzatisi quindi in Toscana, ove il popolo stanco di prepotenze aveva scacciati i repubblicani e richiamato sul trono da Mola di Gaeta Leopoldo II, ai primi di maggio assalivano Livorno, disperdendo i ribelli che vi si erano trincerati come in ultimo riparo. Contemporaneamente le schiere del re di Napoli il 20 aprile colla presa di Palermo avevano sottomessa l'intera Sicilia. Per questi fatti erano in continuo fremito gli emigranti politici, che continuavano ad affluire in Piemonte.

Gli oratori però di S. Francesco di Sales e di S. Luigi non ebbero più a soffrire in quest'anno per causa delle continue dimostrazioni della piazza; e l'8 aprile tutti i loro giovani celebravano la Pasqua dopo aver assistito al catechismi della quaresima in mezzo ad una pace inalterata. Di essa erano causa non solo le prudenti e moltiplicate industrie di D. Bosco, ma eziandio certi fatti meravigliosi che di quando in quando si dicevano avvenuti, e che facevano riguardare D. Bosco come un uomo singolare.

Giuseppe Buzzetti infatti ci narrava che una domenica del 1849, o sul principio del 1850, mentre ascoltava la predica di D. Bosco, a un tratto un suo compagno, che gli sedeva vicino, di nome Bosio Vincenzo, giovanetto semplice ed innocente, restò come incantato, ed esprimendo coi gesti una grande meraviglia, si volgeva poi a lui: - Guarda, guarda D. Bosco! - esclamava,

 - Che cosa c'è di nuovo? Vedo che racconta dalla cattedra un tratto di storia ecclesiastica.

 - Ma non vedi? Guardalo! Ecco, la sua faccia tutta splendente manda raggi da ogni parte!

Buzzetti nulla vide, ma attestava come il piccolo Bosio fosse fuori di sè, e che si durò fatica a farlo star quieto fino alla fine della predica; e dopo le funzioni egli narrava tutto commosso al compagni quello che aveva veduto.

Tuttavia della benedizione del Signore era la prova più sicura il continuo ampliarsi, benchè lento, dell'Oratorio di Valdocco. Spirato il contratto coi Pancrazio Soave, D. Bosco contraeva direttamente una nuova locazione col proprietario Signor Francesco Pinardi. L'atto notarile fa la descrizione di quella casa, e noi la ricopiamo perchè si vegga qualche leggiera trasformazione subita dal 1846 in poi. “ 1° Casa composta di quattordici membri, dei quali nove al piano terreno in cui è compreso un oblungo, serviente di cappella, e n.° cinque al piano superiore in uno con tutti i sottotetti dall'alto in

basso. 2° Tettoia ossia rimessa che unisce detta casa colla cinta a notte. 3° Cortili tanto a levante che a ponente e notte, come anche il cortile e pezza prato a giorno, nei quali siti trovansi una fontana coperta per lavanderia e parecchie piante ”. Il contratto era per tre anni, dal 1° di aprile 1849 fino al 31 marzo 1852, mediante l’annua somma di 1150 lire. Erano firmatarii il Teol. G. Borelli e Francesco Pinardi, il quale dichiarava per mano di notaio fare quell'affitto per sole lire 1150, sul riflesso che intendeva favorire l'opera pia intrapresa dal locatario e in detto locale stabilita. La scrittura o capitolazione legale porta la data del 22 giugno 1849. D. Bosco s'affrettò allora a riattare il miserabile edifizio, appoggiato al fianco orientale della casa formando della legnaia, stalla e rimessa una sala abbastanza vasta che poteva servire per le accademie e per le recite teatrali, specialmente nella brutta stagione. E in queste non trascurava di esercitare i suoi giovani, poichè nelle note che il tipografo Speirani presentava a D. Bosco per il pagamento di varie ordinazioni, noi leggiamo che in data del maggio 1840, per un saggio che diedero i giovani sopra la Storia Ecclesiastica, egli aveva stampati 500 inviti; e un numero eguale di simili inviti nel dicembre di questo stesso anno in occasione di un secondo saggio intorno al suaccennato argomento. D. Bosco allestendo questa sala, come abbiamo in altro luogo accennato, abbatteva un muro di tramezzo e ampliava eziandio quasi della metà lo spazio della cappella tettoia.

Per tutti questi lavori, per l'affitto e per provvedere l'occorrente alla chiesa, alle scuole, ai divertimenti, si trovava in angustie, perchè la guerra aveva cagionate grandi miserie. Egli però, senza menomamente diffidare della Divina Provvidenza, dalla medesima attendeva sempre i mezzi necessari, ed Ella non gli venne mai meno.

Una volta, incalzato dal signor Pinardi a pagare le trecento lire che gli doveva pel fitto arretrato del locale, Don Bosco, senza sapere a chi rivolgersi per ottenere tale somma, si prese tempo quindici giorni per l'intero pagamento. Nello spazio di questi il Cavaliere Renato d'Agliano si presentò al Teol. Borel domandandogli se conoscesse un certo Don Bosco, il quale attendeva all'educazione dei poveri giovani, perchè egli bramava fargli un'offerta, ma non si era mai imbattuto in lui. Avendogli risposto il Teol. Borel che realmente D. Bosco era tutto consacrato ad infondere lo spirito del Signore nel cuore dei poveri giovani, il Cavaliere gli consegnò un rotolo contenente trecento lire in tanti scudi d'argento, che era precisamente la somma di cui D. Bosco abbisognava, con preghiera di consegnarlo al buon servo di Dio.

Da quel giorno il detto benefattore si accese di grande affetto verso D. Bosco e poi prese a mandargli per più anni in ogni settimana una cesta di pane in assai quantità per i suoi giovani. Questi fatti ce li raccontò lo stesso Teol. Borel; e Reviglio che mangiò di questo pane.

Un'altra ragione, quella dell'esempio, rendeva i giovani docili a D. Bosco. Chi vuol essere amato sinceramente ed obbedito da' suoi inferiori, egli pel primo obbedisca a quelli che gli sovrastanno. D. Bosco era tutto per il Papa; sovente parlava di lui e per lui faceva pregare, che a Gaeta sentiva gravissimo dolore per gli eccessi della rivoluzione nei suoi Stati. Roma era in piena anarchia. Qui la fazione più esaltata dell'Italia intiera, e i peggiori settari stranieri, eretici, apostati, socialisti animati dal più inferocito odio contro il cattolicesimo, erano accorsi da ogni parte aggredendo preti e cittadini onesti e rubando a conto proprio e del loro Governo. Così si assassinava nelle altre province pontificie, e non pochi Vescovi erano gettati in prigione. Pio IX il 20 aprile 1849 aveva rinnovato l'appello alle Potenze d'Europa, del 4 dicembre 1848. La Spagna si era già volta alla Francia, all'Austria, al Portogallo, alla Baviera, agli Stati Italiani per accordarsi nei modi di rimettere il Papa sopra il suo trono. Il Piemonte con l'Inghilterra respinsero l'invito; lo accettarono gli altri. Luigi Napoleone Buonaparte, Presidente della Repubblica Francese, non avrebbe voluto, ma lo spingevano quanti gli erano attorno, e non riuscendo egli con tutte le sue arti ad impedire che l'Austria si movesse in aiuto del Papa, cercò di furarle le mosse. Quindi fece partire un corpo di truppe, non per rovesciare la Repubblica Romana, ma per accordarsi col governo repubblicano, per interrogare le popolazioni con un plebiscito, per mettersi a capo del movimento italiano, per imporre condizioni e leggi al Pontefice, salvando almeno in parte la causa settaria e piantare saldamente in Roma un governo costituzionale liberale, cioè la rivoluzione moderata. Ma per loro danno i mazziniani non intesero le intenzioni di Napoleone, benchè spiegate con chiarezza, e i generali francesi erano troppo leali per secondare ciecamente quelle insidie. Il 25 aprile quindici mila francesi sbarcavano a Civitavecchia, e il generale Oudinot il 30 giungeva sotto Roma con seimila soldati e dato un primo assalto veniva respinto. Il 28 la flotta spagnola, rialzava la bandiera pontificia sul forte di Torre Gregoriana, e messe a terra alcune schiere, queste colle truppe napoletane occupavano Terracina. Re Ferdinando allora alla testa di ottomila uomini si spingeva sino a Palestrina, dove ebbe uno scontro coi garibaldini. Ma, non compreso per ordine di Napoleone in un armistizio, fu costretto a ritirarsi, respingendo per due volte le schiere repubblicane. Sul fin di maggio novemila spagnoli sbarcavano in Gaeta, occupavano Piperno, Frosinone e Velletri, e si stendevano in una linea che da Palestrina per Rieti e Terni spingevasi fino a Spoleto. Prima di loro erasi mosso l'esercito Austriaco da Castelfranco, e assalita Bologna con sedici mila uomini l'aveva costretta alla resa il 16 maggio. Continuando poi la sua via direttamente fino a Rimini, e rialzando, ovunque passava, lo stemma pontificio, il 24 maggio assediava Ancona, la quale veniva a patti e si arrendeva il 19 giugno. Altri cinque mila imperiali venuti dalla Toscana, per Perugia e Foligno erano giunti fino a Macerata per aiutare a stringere Ancona.

Il Santo Padre, fra tante preoccupazioni per sostenere i diritti della Chiesa e liberare i suoi popoli oppressi, aveva in questo mentre ricevuta la povera, ma affettuosa e giovanile offerta dell'Oratorio di Valdocco, che non solo gli era tornata di sommo gradimento, ma ne conservò memoria finchè visse. Persone che raccolsero le sue espressioni riferirono la cosa con queste parole: - “ L'offerta di trentatre lire fatta da giovanetti e le espressioni semplici e sincere che l'accompagnavano commossero il tenero cuore di Pio IX. Prese egli la somma e lo scritto che le andava unito, ne fece egli stesso un pacco, vi scrisse sopra la provenienza e disse che voleva farne un uso particolare. Quindi dava ordine a S. E. il Cardinale Antonelli di scrivere una lettera al Nunzio in Torino, onde venisse partecipata agli offerenti la pontificia soddisfazione ”. Difatto poco dopo Mons. Antonucci indirizzava a D. Bosco una lettera di questo tenore:

 

Molto Reverendo Signore,

 

Rassegnando a Sua Santità per mezzo dell'Eminentissimo Cardinale Antonelli, pro - segretario di Stato, un'altra somma del Danaro di S. Pietro, rimessami dagli ill.mi signori D'Invrea e Cavour in nome del Comitato, stabilitosi a tale oggetto in questa città di Torino, mi permisi di far rilevare tra le altre, l'oblazione dei suoi giovinetti in lire trentatre, non che il sentimento che espressero nel consegnarli al Comitato anzidetto.

La prelodata Eminenza Sua, riscontrandomi in proposito in data del 18 del mese scorso, si compiace apprendermi che una dolce emozione si è destata nell'animo del Santo Padre all'affettuosa e candida offerta di poveri artigianelli ed alle parole di tenera divozione onde vollero accompagnarla.

La prego perciò di far loro conoscere quanto mai sia stata accetta al Santo Padre tale oblazione, ritenendola preziosissima perchè offerta dal povero, e quanto sia lieto di vederli così per tempo nutrire sentimenti di ossequio sincero verso il Vicario di Gesù Cristo, presagio non dubbio delle massime di religione impresse nella loro mente.

A pegno pertanto di paterna benevolenza Sua Santità comparte di tutto cuore a Lei e a ciascuno dei giovanetti suoi alunni l'apostolica benedizione, nel mentre che io coi sensi di distinta stima e sincero attaccamento ho il bene di rassegnarmi.

 

Torino, il 2 Maggio 1849.

 

A. B., Arcivescovo di Tarso

Nunzio Apostolico.

 

 

Ognuno può di leggieri immaginarsi la contentezza, da cui fu compreso il cuore di D. Bosco e dei giovanetti suoi alla lettura di questo scritto, che loro dava a vedere come il Papa tra le immense sollecitudini pel governo di tutta la Chiesa e in mezzo alle pene e ai travagli del suo esilio aveva avuta l'alta degnazione di volgere un pensiero alla loro pochezza. Quindi un raggio della più viva gioia brillò in quel momento sulla loro fronte, e un grido fragoroso di Viva il Papa, Viva Pio IX echeggiò ripetutamente in tutto l'Oratorio.

Somma uguale e accompagnata quasi dalle stesse circostanze veniva pur raccolta nell'Oratorio di S. Luigi Gonzaga, dai cooperatori di D. Bosco. A questo proposito a noi piace riprodurre parte di un articolo, che in quell'anno stesso vedeva la luce nel N. 53 del citato periodico “L'Armonia”.

“ Un dotto e pio collaboratore nel N. 40 di questo giornale ha già richiamata l'attenzione del pubblico sull'Oratorio di S. Francesco di Sales, fondato in Torino dall'egregio sacerdote D. Bosco, che, animato dalla più perfetta carità, dedicò tutto se stesso all'istruzione ed educazione dei poverelli. L'utilità di quest'ottimo istituto non tardò a farsi conoscere, ed umili, savi, santi sacerdoti non mancarono di unirsi al fondatore per propagarne l'idea: fondarono nuove Case, raccolsero intorno a sè i poveri fanciulli e adulti, e prepararono così alla società migliori uomini, sollevandola di molti altri che, incamminati per una via sinistra, danno poca speranza dei loro avvenire.

 ”Santa missione! nell'esercizio della quale il sacerdote è coronato di tutto lo splendore del suo carattere ed imita più dappresso il nostro Redentore, il quale gli dava questo esempio, compiacendosi di stare in mezzo ai fanciulli, e si lagnava se alcuno avesse cercato di allontanarli da Lui.

 ”Sono cari a tutti i buoni per questo motivo i nomi del T. Vola, T. Borel, T. Carpano e di D. Ponte, i quali, circondati nei giorni festivi da più centinaia di questi ragazzi, li educano religiosamente e civilmente in una piccola casa dell'Istituto presso la villa reale, il Valentino.

 ”Invitati a raccogliere dalle mani di quei buoni giovanetti le offerte, che vollero spontanei tributare all'esule Pontefice, abbiamo provata la più soave delle commozioni ed ammirato l'ordine e la docilità che osservano quei ragazzi nelle loro ricreazioni coi superiori. Gradita una tale offerta sarà per certo al Beatissimo Padre, e la benedizione di Lui scendendo su di essi farà si che crescano in virtù e sapienza.

 ”Visitino i democratici questi luoghi, dove la pietà cristiana opera incessantemente la  riforma della società; veggano questi Sacerdoti che rinunziarono ad ogni lusinghiera speranza della vita, che tutto sacrificano per dare alla società migliori cittadini, ed imparino che non le ciance ma le opere giovano, e vedendo quanto paziente e difficile sia la missione dell'Educatore del popolo sappiano profittarne ”. Fin qui l'armonia di quei giorni.

Ma se D. Bosco, colla venerazione dei suoi Oratorii verso la Santa Sede, aveva cagionata una viva consolazione a Pio IX, un'altra anche più grande desiderò di procurargliene un mese dopo. Il Santo Padre aveva conosciuta la necessità di vietare ai fedeli la lettura di certi libri, scritti da sacerdoti allora in grande fama, i quali avrebbero potuto trarre in inganno gli incauti lettori. Perciò la Sacra Congregazione dell'Indice nel giorno 30 di maggio 1849 aveva proibito il “Gesuita moderno” di Vincenzo Gioberti, il libro delle “Cinque piaghe della Chiesa” e l'altro della “Costituzione secondo la giustizia sociale”, di Antonio Rosmini. Il decreto fu pubblicato a Gaeta il di 6 di luglio. A questo annunzio Vincenzo Gioberti insolenti e scrisse impudentemente: “ La censura di Gaeta fece stomaco e riso; io mi farei coscienza di occuparmene. L'interdetto di Gaeta mi fa ingrassare ”.

Ma se Gioberti non si faceva coscienza di sottomettersi alle decisioni della Santa Sede, vi era un sacerdote in Torino che pregava per lui. Riteniamo che D. Bosco nel cercare di avvicinarsi a molti di coloro che militavano nel campo avverso alla Religione, aveva di mira principalmente al bene delle loro anime e della Chiesa. Fino all'eroismo egli ricordò sempre il precetto del Signore, scritto nell’Ecclesiastico: “ E comandò a ciascuno di essi di aver pensiero del suo prossimo ”. Egli sperò dunque per un istante di poter indurre Gioberti all'obbedienza, poichè qualunque fossero i suoi fini politici, era stato visto prendere in questi ultimi tempi le parti del Papa e cercare la restaurazione del suo regno. D'altra parte vedendolo ripudiato da' suoi, escluso per sempre da ogni ingerenza dalle cose di Stato e da quegli onori al quali anelava la sua ambizione, credette che una buona parola nella sua presente amara solitudine avrebbe forse prodotto nel suo cuore di sacerdote un effetto salutare. Ci voleva una grande fortezza d'animo ad affrontare la tenacia dell'orgoglio con un uomo che aveva fatto tanto per la causa della rivoluzione; ma D. Bosco non esitò. Recitata come era solito in simili circostanze un'Ave Maria e accompagnato dal Teol. Borel, si recava a visitare Gioberti. Dopo aver discorso delle speranze che i buoni avevano riposte in lui per la difesa che aveva voluto assumersi del Papato, lo pregò e lo scongiurò a consolare il Pontefice e ad acquistarsi merito e gloria presso Dio e presso i Cattolici con l'accettare il decreto della Sacra Congregazione dell'Indice e col ritrattarsi. Gioberti, che era di modi squisitamente gentili, non si offese, ma con tono di voce che non ammetteva replica, dichiarò: - La mia ritrattazione consiste nel non rispondere! Basta il mio silenzio! - E così terminò quel colloquio. Di questo tentativo caritatevole di D. Bosco e delle parole di Gioberti rende testimonianza D. Michele Rua.

Mentre D. Bosco lamentava l'ostinazione di quell'infelice, ebbe la sgradevole sorpresa di scoprire come tutte le sue opere fossero entrate nella casa di Valdocco. L'ex chierico C…, da lui ricevuto nell'Oratorio e abbastanza provvisto di beni di fortuna, essendo ammiratore di Gioberti ne aveva comperati tutti i libri per 120 lire. Fedele osservatore delle leggi della Chiesa, D. Bosco non volle che il giovane ritenesse presso di sè quel libri proibiti, ed avendo egli per motivi gravissimi citato nella Storia Ecclesiastica il nome e qualche periodo di tale scrittore, lo tolse dalle susseguenti edizioni. Così pure, anni dopo, facendosi nell'Oratorio la prolusione ad un'accademia in onore di S. Tomaso, l'oratore prese per testo alcune sentenze di Gioberti. D. Bosco che presiedeva, finita l'accademia, disse in privato all'oratore. - Non sono mai da nominare certi personaggi nè fare appello alla loro autorità; altrimenti si accende negli uditori il desiderio di leggere i loro libri, e certamente non ne riceveranno vantaggio.

Ma in Gioberti avrà lasciata nessuna buona impressione l'ammonizione di D. Bosco? Dopo qualche tempo stabili nuovamente la sua dimora in Parigi, e non ebbe più un istante di pace. Ne' suoi ultimi giorni passò notti agitate da sogni angosciosi, nei quali vedeva strani e paurosi personaggi; ora udiva un suono indistinto quasi fremito di tigri, ed ora gli pareva di stringere la mano di uno scheletro. Nelle sue lettere si sente ad ogni tratto la paura dell'Indice che gli straziava l'anima. Terminava la sua vita per un colpo apoplettico nella notte del 25 - 26 ottobre 1852. Si trovò aperto sopra il suo letto il libro “L'Imitazione di Cristo”.

Quanto sarebbe stata felice la sua vita e la sua morte se avesse imitato l'Abate Antonio Rosmini, il quale, da buon prete e da buon religioso ossequente verso l'autorità della Chiesa, accettava rispettosamente il decreto che proibiva i suoi due libri. Ed è per ciò che D. Bosco continuava le sue amichevoli corrispondenze coi Rosminiani, e spediva a Stresa la seguente lettera:

 

 

 

Carissimo Sig. D. Fradelizio,

 

Questa mattina con mio piacere pranzai coi due inviati (non plenipotenziari) che vanno alla Sacra.

Ecco le 20 copie del libretto “Il Sistema Metrico” che sono al prezzo di centesimi 40 cadauno. Mi prendo pure la libertà di racchiudere nel pacco una dozzina di “Pensieri Ecclesiastici” opera di un ottimo “Ecclesiastico della Capitale”, libri che desidero siano propagati...

Ho due giovani (uno è un po' vecchio) che da qualche tempo insistono perchè li raccomandi all'Istituto della Carità, se mai potessero essere ricevuti. Uno è di professione sarto; dice che sa bene la sua professione, ma trovasi ai quarant'anni. L'altro è nei diciassette, ha compiuto il corso di umanità, è parente dei Beato Sebastiano Valfrè, e ne porta il nome, con parecchie altre buone qualità. L'indole di costui io la scorgo ottima.

La ringrazio dei parecchi libri recenti che m'inviò, che leggo assai volentieri; mi comandi, e se valgo qualche cosa, me le offro di tutto cuore.

Di V. S. Car.

 

Torino, 5 giugno 1849.

 

Aff.mo amico

D. Bosco.

 

 

Le risposte che ricevette, facevano eziandio cenno della prova alla quale era stato posto l'Istituto della Carità dalla mano del Signore e mentre rescriveva, raccomandando la diffusione dei suo libro: “Il Cristiano guidato alla virtù” ecc., aggiungeva una parola d'incoraggiamento:

 

 

 

Carissimo Sig. D. Fradelizio,

 

Ho ricevute pi√π lettere da V. S. Car.ma e da alcuni miei figliuoli, i quali tutti cordialmente ringrazio.

Sul finire dell'anno stimo anche bene darle conto di alcune spese ed esazioni fatte, decorrente quest'anno, come può vedere nella nota ivi racchiusa. Siccome però sovente noto le cose alla sfuggita, così trovando Ella qualche sbaglio io mi rimetto interamente.

Mando i cinque primi volumetti dell'associazione per Don Paoli, il quale può far chiedere quelli che seguono, al segretario di Mons. Vescovo di Novara, che ne ha incombenza per tutta la Diocesi.

Veniamo a noi. Che si dice dei preti della Carità? Che si dice della proibizione e della sommissione del Sig. Antonio Rosmini? Tanto in pubblico che in privato si parla assai bene dell'Istituto della Carità. Si loda l'impegno per le scuole e si ammira specialmente perchè i Rosminiani (sono espressioni originali) si uniformano all'insegnamento senza fare il ficcanaso a voler proporre ed usare libri da loro composti. Non così è di altri, che sforzandosi di usare ed introdurre nelle classi i propri, eccitano presso molti invidia e gelosia e forse anche rivalità.

In quanto poi all'ottimo Sig. Rosmini pareva che la proibizione dovesse deteriorare la grande sua fama, e nol fu. L'Abate Rosmini si fece conoscere per un dotto filosofo nello scrivere le sue opere; ma si mostrò filosofo profondamente cattolico colla sommissione: mostrò essere coerente a sè stesso e che il rispetto tuttora professato alla cattedra di Pietro, sono fatti e non parole, quali cose non possiamo dire di altri distinti personaggi che un tempo altresì primeggiavano. Come ben vede, queste sono amichevoli espressioni riguardanti al suffragio del pubblico. Per me ho sempre nutrito e nutro tuttora la più schietta e leale venerazione per l'Istituto della Carità e pel veneratissimo suo fondatore.

Intanto la prego di salutare li miei amici e figliuoli che costì si trovano; e se l'Abate Rosmini già trovasi a Stresa, anche di offrirgli i miei umili ossequi, provenienti da persona a lui non conosciuta, ma che l'ha nella più profonda venerazione.

Mi ami nel Signore, e se valgo qualche cosa, mi comandi e mi troverà mai sempre.

Di V. S. Ill.ma e Car.ma

 

Torino, 5 dicembre 1849.

 

Aff.mo amico

Sac. Bosco GiovanniI.

 

 

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