Accoglienze al Convitto - Vita comune - Il Teol. Guala e D. Cafasso - Esemplare ricopiato.
del 19 ottobre 2006
 
Porta la tradizione che il Convento di S. Francesco di Assisi in Torino, ove erasi eretto il Convitto Ecclesiastico, sia stato fondato nel 1210, con quello di Chieri, da S. Francesco d'Assisi stesso venuto in Piemonte. Nel 1834, per decreto Arcivescovile, erano stati dichiarati suoi Protettori S. Francesco di Sales e S. Carlo Borromeo, che simili Convitti avevano stabiliti e promossi, e proclamato Patrono il Beato Sebastiano Valfrè, vero modello di vita sacerdotale.
Appena D. Bosco fu quivi giunto, recossi subito alla stanza di D. Cafasso. Questi, come era solito a fare con tutti i convittori, si avanzò ad incontrarlo sulla soglia, con un dolce sorriso sulle labbra e con tutta l'espressione della bontà di un padre. S'informò come avesse passate le vacanze, s'interessò delle notizie di sua sanità, chiese novelle dei parenti, del parroco, di altri sacerdoti del paese e della propria famiglia, e in ultimo con poche e affettuose parole gli spiegò la sostanza del regolamento e lo spirito della Casa. Terminò col dirgli come fosse cosa intesa che egli non avrebbe pagato nulla di pensione, tale essendo la determinazione del Rettore Teol. Guala.
Il Convitto in quei tempi possedeva molte rendite: gran numero di alunni avevano ottenuto di pagare pensione ridotta, taluni erano stati accettati gratuitamente. Ad alcuni D. Guala e D. Cafasso avevano consegnata segretamente la somma necessaria per pagare l'intiera pensione all'Economo, perchè nessuno venisse a conoscere le strettezze delle loro onorate famiglie.
D. Bosco compreso da viva gratitudine, accommiatatosi da D. Cafasso, corse dal Rettore, uomo venerando, in sui sessantasei anni, per ringraziarlo della sua generosità! Lo trovò col capo alquanto curvo, seduto innanzi al tavolino, travagliato da male reumatico alle gambe. Dalle accoglienze liete e cordiali D. Bosco si accorse come D. Cafasso gli avesse parlato favorevolmente di lui. Gli fu assegnata una stanza. arredata con semplicità, ma di una nettezza inappuntabile, poichè la pulizia e il buon ordine regnavano dappertutto in quella Casa, segno esteriore dell'ordine spirituale e morale.
Venuta la sera, rientrati in casa tutti i nuovi e gli antichi convittori, raggruppati qua e là in piccoli crocchi, rinnovavano le relazioni incominciate in Seminario, ne contraevano fraternamente delle nuove e in conversazioni animate, ma non chiassose, attendevano il suono della campana. Entrati in Cappella, venne il Rettore, il quale con espressione di raccoglimento e di gioia intuonò il Veni Creator. E così si apriva l'anno scolastico.
Nei primi giorni si spiegavano le regole, che erano poche, coll’impronta di grande moderazione e redatte in modo che ne fosse possibile l'osservanza anche fuori di comunità, acciocchè i sacerdoti fossero allettati a continuarla in mezzo al mondo, quando sarebbero liberi di sè. Preghiera del mattino e della sera, assistenza alla Messa per quelli che non fossero ancor sacerdoti, col canto di qualche strofa di sacra laude prima della Comunione; visita al SS. Sacramento, recita della terza parte del Rosario, mezz'ora di meditazione ed un quarto d'ora di lettura spirituale; tutto in comune. Confessione ebdomadaria, mortificazione al venerdì, silenzio fuori delle ore di ricreazione, esercizio mensile di buona morte: due conferenze scolastiche al giorno e studio in comune: passeggio alla sera regolarmente in due, evitando i luoghi più frequentati della città; vietato l'assistere ai pubblici spettacoli o fermarsi nei caffè.
Notiamo di passaggio come D. Bosco mettesse in vigore, specialmente nelle Case ove sono studenti, le antiche prescrizioni governative per le pratiche di pietà; e più tardi per i suoi Salesiani aggiungesse quelle del Convitto Ecclesiastico. Era la sua vita un continuo aumento di scienza pratica, un appoggiarsi all'esperienza dei seniori, un radunare mezzi per riescire a quella meta, che gli additava la Provvidenza Divina.
Il Teol. Guala esigeva che il Regolamento fosse osservato in tutte le sue prescrizioni; e non essendo stabilito alcun castigo ai trasgressori, perchè gli alunni dovevano essere trattati da uomini e non da ragazzi, se qualcuno, avvertito più volte non avesse obbedito, era pregato a provvedersi di altro domicilio. Egli si mostrava piuttosto severo coi convittori, li teneva d'occhio in tutti i loro passi; se taluno mancava, chiamavalo tosto a render ragione del suo operato. Era però facile a perdonare, se il colpevole riconosceva il suo fallo. Egli esigeva che ognuno dei convittori avesse impegno a praticare in ogni azione il monito del Sacrosanto Concilio di Trento, Sess. XXIII capo I De Reform.... “Sic decet omnino clericos in sortem Domini vocatos vitam moresque suos ita componere, ut habitu, gestu, incessu, sermone aliisque omnibus nihil nisi grave, moderatum ac religione plenum praeseferant. Levia etiam delicta, quae in ipsis maxima essent, effugiant, ut eorum actiones cunctis afferant venerationem”.
D. Cafasso andava loro ripetendo: “Fatevi santi! Il Sacerdote! Grande parola, grande dignità, ma insieme grandi obbligazioni, le quali richiedono virtù proporzionate. Un prete può essere dagli uomini reputato santo e non esserlo innanzi. a Dio. Un terzo delle virtù proprie dell'ecclesiastico basta per farlo passare presso gli uomini in concetto di santo, mentre non può esserlo agli occhi di Dio che vede il segreto dei cuori. Un sacerdote veramente tale, alla morte va facilmente in paradiso; ma se egli non è sacerdote interamente, è assai più probabile che cada nell'inferno, che in purgatorio”.
E i convittori, di santità sacerdotale avevano continuamente due modelli sotto gli occhi. Il Teol. Guala da ben 31 anno reggeva il Convitto. Uomo di grande penitenza, di digiuni e cilizii, tutti lo vedevano fedelissimo al Regolamento comune. Fino alle 10 stava al suo confessionale presso l'altare dell'Immacolata, pregando o confessando. Quindi saliva in cattedra per la conferenza del mattino. Nel rimanente del giorno, predicava, visitava infermi e carcerati, distribuiva grosse elemosine alle famiglie dei poverelli. Soleva andare in cittadella per confessare e confortare i soldati condannati alla fucilazione. Il tempo di ricreazione lo passava in parte coi suoi allievi insieme con D. Cafasso. Ed era cosa rara in que' tempi che i Superiori nei convitti famigliarizzassero cogli alunni.
D. Cafasso, entrato nel Convitto come semplice allievo il 28 gennaio 1834, il 29 giugno 1836 prese le patenti di confessione, e in questo stesso anno venne fatto ripetitore di morale, dividendo col Teol. Guala le fatiche dell'insegnamento fino al 1844. Egli era, direi, una copia perfezionata di tutte le virtù del Teol. Guala, e benchè piccolo, esile e alquanto difettoso della persona, pure non diede mai tregua al suo continuo lavoro sul pulpito, nel confessionale, nella scuola, nelle carceri e nell'assistere i condannati a morte dai tribunali criminali. Di aspetto piuttosto serio, era più accondiscendente alle domande degli allievi che non il Teol. Guala, il quale però in molti casi diceva loro: Ite ad Joseph, cioè a Cafasso. Questi aveva gran cura della sanità corporale dei convittori, ed era facile a permettere ai più debolucci la passeggiata al mattino e nel dispensarli dall'astinenza delle carni, ordinando loro che in ciò non avessero inquietudini di sorta, ma obbedissero. Desiderava che si conservassero robusti per lavorare molto. Egli però era mortificassimo e di un estremo rigore per sè nei giorni di digiuno.
“Ma niuna cosa è tanto maravigliosa nella vita privata di D. Cafasso, quanto l'esattezza nell'osservanza delle regole del Convitto: così scrisse D. Bosco medesimo di lui. Come superiore, da più cose avrebbe potuto dispensarsi, sia a motivo della sua cagionevole sanità, sia per la gravità e moltitudine delle occupazioni che in certo modo l'opprimevano. Ma egli aveva fisso nella mente che il più efficace comando di un superiore è il buon esempio, ed il precedere i sudditi nell'adempimento dei rispettivi doveri. Perciò nelle più piccole cose, nelle pratiche di pietà, nel trovarsi per le conferenze, alle ore della meditazione, della mensa, egli era come una macchina, che il suono del campanello portava quasi istantaneamente all'adempimento di quel determinato dovere. Mi ricordo che un giorno per bisogno gli fu portato un bicchiere d'acqua. Già l'aveva in mano, quando udì suonare il campanello pel Rosario. Non bevette più, lo depose, e si recò immediatamente a quella pratica di pietà. - Beva, gli dissi, e poi andrà ancora a tempo per questa preghiera. - Volete, mi rispose, volete preferire un bicchiere d'acqua ad una preghiera così preziosa quale si è il Rosario che diciamo in onore di Maria SS.?”
D. Cafasso teneva la conferenza della sera. Dallo studio lungo, profondo, non interrotto sugli autori più celebri in fatto di morale, dai confronti tra le opinioni dell'Alasia e di S. Alfonso e dalla attenzione agli appunti del suo venerato maestro aveva ricavato una singolare facilità a cogliere al volo lo stato di una questione ed a sciogliere lì su due piedi anche i casi più difficili ed intricati. Nelle note senza numero da lui fatte sul margine dei suoi volumi egli presenta le questioni di maggiore importanza con tale ordine, chiarezza, brevità e precisione, che riesce facilissimo il comprenderle e più il ritenerle. Da queste note riordinate e completate estrasse poi un compendio sostanzioso di tutta la morale, conosciuto sotto il nome di trattatelli, che egli stesso lasciò in mano a parecchi convittori e del quale tutti a gara traevano copie. Riesce un grosso volume di circa 400 pagine.
Questo santo sacerdote, questo esperto maestro nell’arte di ben dirigere le anime fu, fin dal bel principio del corso, scelto da D. Bosco per direttore spirituale, dal quale d'allora in poi si confessò sempre regolarmente ogni settimana. A lui professava una grande venerazione, con affetto e riverenza di figlio, non tanto come a suo compaesano, quanto a sua guida sicura nella via della perfezione e della santità, a lui chiedendo sempre consiglio in ogni sua azione od impresa. Anzi D. Bosco volle prendere a suo modello D. Cafasso, e talmente seppe ricopiare in sè questo esemplare, che un gran numero di detti, fatti, metodi ed espedienti di lui, diretti allo scopo di promuovere la gloria di Dio e la salute delle anime, furono riprodotti tantissime volte nella sua lunga vita. Per lui la condotta di D. Cafasso pareva ripetesse dei continuo l'esortazione dell'Apostolo Paolo: Imitatores mei estote, sicut et ego Christi: Siate miei imitatori, come io lo sono di Cristo.
 
 
 
 
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