Giovanni va ad Avigliana e predica sul S. Rosario - Visita la Sagra di S. Michele - Romantica passeggiata a Coazze - Festa a Bardella ed una sepolta viva - Riconoscenza di Giovanni verso la famiglia Moglia.
del 13 ottobre 2006
In queste vacanze il novello suddiacono Giovanni Bosco aveva preso l'impegno di tenere il discorso sul Santo Rosario ad Avigliana, patria dell'amico Giacomelli, il quale perciò ai primi di ottobre venne a Castelnuovo a pigliarlo, coll'intento pure di fargli fare una lunga passeggiata degna di memoria. In sul partire da Castelnuovo pertanto Giovanni si recò a salutare D. Cinzano, il quale congedollo con una frase, che ripeteva sovente al sentirlo predicare, nel vedere la sua attitudine al sacro ministero e la sua instancabile operosità: In omnem terram exivit sonus eorum et in fines orbis terrae verba eorum!.
Siccome Giovanni soffriva terribilmente il moto della carrozza, cosi quel viaggio si fece tutto a piedi. Recaronsi dapprima a Chivasso ed ivi pernottarono. Venuti a Torino e comprate poche castagne e pane per rifocillarsi, dopo aver eseguite varie commissioni, dello stesso giorno giunsero ad Avigliana.
In tutto il mattino della festa del Rosario Giovanni per nulla preoccupandosi di quello che avrebbe potuto dire sul pulpito, s'intratteneva cogli uni e cogli altri dei sacerdoti invitati. Giacomelli però tremava per l'amico, e di quando in quando avvicinandosi a lui, dicevagli sotto voce: - E la predica? - C'è tempo - rispondevagli Giovanni; il quale anche dopo pranzo continuò i suoi ragionari, specialmente col parroco D. Pautasso, che, incantato della sua erudizione, gli disse: - Mi pare che lei dovrà fare ancora mirabilia! Quando Giovanni salì in pulpito Giacomelli si ritirò trepidante in sagrestia, non volendo essere testimonio di un insuccesso oratorio dell'amico. Ma ben presto respirò, udendo la franchezza di esposizione e l'ordine e la forza degli argomenti dell'oratore. Quando Giovanni scese dal pulpito, D. Pautasso si avvicinò a lui e gli disse: - Mirabilia fecit.! Passata la festa del Rosario, i due amici si avviarono alla Sagra di S. Michele, che si eleva sul monte Pirchiriano, alto 877 metri, e dalla cui vetta si scopre in un sol colpo d'occhio l'intera vallea delle Alpi Cozie e quasi tutto il Piemonte. Quivi nel 1836, per invito di re Carlo, Alberto e coll'approvazione di Papa Gregorio XVI, in buon numero si erano stabiliti i Padri dell'Istituto della Carità, fondato nel 1831 a Domodossola dal celebre Antonio Rosmini e poi approvato dalla S. Sede nel 1839. Questi buoni religiosi, mentre uffiziavano l'antica chiesa, evangelizzavano con zelo apostolico le parrocchie della valle, di Susa e del confine di Torino. Il chierico Giacomelli pertanto condusse il suo amico a visitare gli avanzi colossali della magnifica Badia de' Benedettini, il maestoso tempio gotico e le tombe di alcuni antichi principi di Savoia. Accolti con ogni cortesia da quei buoni Padri, tra essi e Giovanni incominciò una relazione, che mai più doveva troncarsi. Il Padre Flecchia, allora giovane, che visse oltre i novant'anni, e gli altri suoi confratelli furono sempre caldi amici di D. Bosco e delle sue opere. Lassù avevalo condotto la divina Provvidenza, perchè, come vedremo, avesse agio di studiare una nuova forma di voto di povertà, colla quale nei tempi avvenire la Congregazione Salesiana, che avrebbe fondata, potesse andare esente dalle leggi di incameramento. Sembra che una simile idea gli fosse già brillata nella mente, come esso stesso più volte ci affermò. Ebbe forse la stessa intuizione di S. Paolo della Croce, che parve prevedere il saccheggio di tutti i beni ecclesiastici preparato dalla rivoluzione.
Bosco e Giacomelli, discesi da quell'altezza, presero la via che conduceva alla volta di Coazze in mezzo alle Alpi, dove era parroco D. Peretti, cugino di Giacomelli. I due chierici erano tanto contraffatti dal sudore, dalla polvere e dalla stanchezza, che i ragazzetti delle borgate, per le quali passavano, fuggivano spaventati. Giunsero a Coazze alle ore dieci di sera, che non ne potevano più. Nel paese regnava il più profondo silenzio, e le porte e le finestre della casa parrocchiale erano chiuse. Si tirò il campanello. Nessuno rispose. Si replicò il suono, e dopo un lungo indugio, si aperse una finestra che, in seguito a brevi parole pronunciate da una persona invisibile, si rinchiuse. L'aria dei monti, frattanto incominciava ad asciugare loro indosso, il sudore ed essi per i brividi battevano i denti. Un'ora intiera stettero fermi innanzi a quella porta, continuando di quando in quando a chiamare. Finalmente si aperse una seconda volta la finestra, e Giacomelli al comparire dì una testa, che si affacciava con precauzione:
- Io son Giacomelli, si affrettò a dire; il cugino del parroco!
 - È proprio lei? rispose la serva con voce di persona mezzo addormentata.
 - Ma sì; sono io! Non mi conoscete più?
 - E quell'altro?
 - Un mio amico!
 - E perchè sono arrivati a quest'ora? - Il cugino un po' impazientito: Perchè non abbiamo potuto venire più presto…. ma per carità veniteci ad aprire… siamo sudati.... corriam pericolo di una malattia.
 - Scendo…. ma perchè venire così tardi?…. continuava a brontolare la serva ritirandosi.
Stettero ancora qualche minuto in quella poco gradita posizione; e quindi s’udì il rumore delle pianelle del parroco, che solo allora era stato svegliato ed il quale, affacciatosi col bianco berretto da notte, dopo un: - Oh sei tu? disse alla serva non ancor persuasa: - Va ad aprire.
I due chierici salirono. Il parroco, acceso il lume, li fece sedere ed incominciò la conversazione, che non volea finir così presto. Giacomelli rispose a varie interrogazioni; ma, essendo fradicio dal sudore, chiese al cugino se non fosse possibile avere un po' di fuoco per asciugarsi? - Sì, volentieri…. rispose il parroco, e diede ordine alla serva di portare due fascine. La fantesca obbedì, fu accesa una bella fiammata e i due viaggiatori si avvicinarono al camino. Essi attendevano di essere invitati a cena, ma il parroco continuava a parlare sbadigliando, e la fantesca seduta in un angolo della sala altalenando il capo si era tranquillamente addormentata. Giovanni allora con un sorriso die' un'occhiata all'amico: era da mezzogiorno che non aveano più preso cibo. L'altro intese, ed interrompendo la conversazione: - Cugino, disse, avreste mica un po' di pane per isfamarci?
 - Come? Avete ancor da cenare a quest'ora?
 - Intendi bene che per istrada non abbiamo incontrato che pietre.
 - Potevate dirlo prima;…. io non ci aveva pensato…. scusate. Eih, Maddalena; preparate un po' di cena.
La serva si svegliò e lentamente andò al fornello. Come Dio volle, la mensa fu preparata, si cenò e quindi si andò a dormire. Vi erano due letti in una stessa stanza, ma con soli lenzuoli e copertina. I due compagni si coricarono; l'aria della montagna in quella stagione non era certamente tiepida. Presi dal freddo, non potevano dormire, sicchè dopo breve ora uno incominciò a dire all'altro: - Non dormi? E l'altro a rispondere: - Sei sveglio? - Hai caldo? - Hai freddo? - Dormi, se puoi! - Riposa, se ci riesci! E qui una risata. Il parroco udì, levossi, prese alcune coperte e le gettò sui loro letti. Solo all'avvicinarsi dell'alba poterono riscaldarsi e prendere sonno.
D. Bosco spesse volte raccontò a' suoi giovanetti questa famosa passeggiata, infiorandone la narrazione, ma tacque una circostanza che ci fu svelata dal suo amico D. Giacomelli: che cioè i due parroci, presso i quali prese alloggio, uditolo a parlare con tanta precisione, assennatezza e vastità dì scienza, dissero: - Questo chierico deve riuscire qualche cosa di grande, di straordinario.
E qui non ci pare fuor di caso aggiungere come D. Bosco allora e poi sempre nelle tante case, ove ricevette ospitalità, non dimostrasse mai ripugnanze, pretensioni, disgusti. Tutto per lui andava bene. Scortesie, dimenticanze, imprevidenze, trascuratezze, incomodità, stanze soffocanti all'estate o prive di fuoco nei più crudi inverni, ritardi nell'apprestar la mensa, cibi non confacenti al suo stomaco, conversazioni fino ad ora tardissima, mentre era oppresso dal sonno, ogni cosa era a lui bene accetta, senza che mai palesasse noia od impazienza o lasciasse sfuggire parola di lamento. Sempre eguale a se stesso, non estinguevasi mai sopra il suo labbro il sorriso affettuoso, che dimostrava in tutto la sua piena soddisfazione, allo stesso modo come usava diportarsi quando con squisite gentilezze e lautezze veniva accolto da' suoi benefattori ed amici. Riconosceva ognora dalla carità cristiana quanto facevasi per lui, e il suo parlare sempre ameno e con fine spirituale, i suoi cordiali ringraziamenti e le promesse preghiere tenevano vivo negli ospiti suoi il desiderio di ospitarlo più altre volte.
Ritornato da questa escursione, Giovanni dovette andare a Bardella col suo parroco, pel servizio di quella chiesa me suddiacono nel giorno della festa. In quell'anno vi era per soprappiù un pranzo di nozze, cui intervenne il parroco ed il priore della festa; ma Giovanni, fedele al proponimento fatto, ritornò a sua casa. Al fine del pranzo, al solito incomposto e tumultuoso, il parroco, invitato dal priore, si recò alla casa di questo. Quand'ecco una sincope colpisce la sposa e muta in lutto la gioia universale. Le si prestano tutti i soccorsi possibili, ma finalmente si dice: - E morta! - Tale giudicandosi, dopo le quarant'otto ore è posta nella cassa e portata alla chiesa parrocchiale. Cantata messa, il convoglio funebre si avvia al cimitero. Vicini al cancello, uno dei portatori dice al parroco: - Sembra che la morta batta le pareti della cassa! - Quando voi sarete morto, non potrete prendervi simile divertimento - rispose il parroco. Tutti risero, perchè credettero essere un'illusione. La cassa fu messa in mezzo, alla cappella di S. Rocco e si intuonarono le ultime esequie. Sgombrato il cimitero dalla gente, portando il becchino la cassa sull'orlo della fossa, ode anch'egli nell'interno alcuni colpi distinti. Esterrefatto, prende un ferro per farne saltare il coperchio; ma ad un tratto si rimane per un'idea malaugurata, che gli viene in mente: essere cioè proibito aprir un feretro, senza licenza delle autorità. Quindi corre in paese, avvisa il sindaco il quale, chiamato il medico, si affretta al cimitero. Scoperchiata la cassa, il medico trovò che la donna era calda ancora. Le tastò il polso e lo trovò che batteva; le fece un'incisione nella vena e il sangue usci in copia. Allora la fece trasportare subito al paese; ma la poveretta più non rinvenne e mori dopo poche ore. Giovanni accorso era stato testimone del fatto, e narrandolo concludeva essere proprio vero che ognora in questo mondo “al riso è mescolato il dolore e il lutto occupa gli estremi dell'allegrezza” (1).
Anche in queste vacanze Giovanni passò alla Moglia. Vi andò in compagnia di Giacomelli ed ivi cenarono, dormirono e furono trattati con molta cordialità. D. Bosco si mantenne sempre in ottime relazioni con questa cara famiglia, al cui capo professava stima ed affezione confidente. Venendo poi questi talvolta a Torino a visitarlo, era da lui ricevuto con grande festa. La signora Dorotea era così persuasa che il cuore riconoscente di D. Bosco avrebbe pregato efficacemente per lei, che in ogni necessità anche gravissima si faceva raccomandare a lui.
Ci narrava Giorgio Moglia: “D. Bosco dimostrò sempre una grande riconoscenza alla mia famiglia per quel poco, che avevamo fatto per lui. Moltissime volte mi fece sedere a mensa nell'Oratorio accanto a sè, eziandio quando era attorniato da' suoi preti più rispettabili. Un giorno, rivolto a me, alla presenza di tutti i suoi religiosi e di altre persone estranee che sedevano con lui a pranzo, disse: - Questi è il mio antico padrone! - E nei primitivi tempi dell’Oratorio, quando soli venticinque erano i giovanetti ricoverati, ogni anno li conduceva a Moncucco a fare una scampagnata, e voleva che noi considerassimo il suo Oratorio come casa nostra, allorchè per affari ci conducevamo a Torino. E ogni volta che ci incontravamo, mi raccomandava sempre di amare la preghiera, di accostarmi ai Sacramenti, di professare molta divozione verso Maria SS., di amar Dio e il prossimo e di essere fedele nel praticare tutti i doveri del buon cristiano”. Il suo figlioccio, Giovanni Moglia, ebbe eziandio prove della sua gratitudine. Fatto grandicello, venne a studiare nell'Oratorio, ove stette tre anni e D. Bosco lo volle sempre alla sua mensa. Nella divisione dell'eredità paterna toccò poi a Giovanni quella vigna, ove stava la vite legata dal venerando suo padrino, quando era fanciullo, la quale dopo 61 anno era pur sempre vegeta e fruttifera, mentre tutte le altre viti erano già state sostituite; e benchè un anno il servo avesse trascurato di bagnare questa sola colla soluzione di rame, essa continuò a rendere più frutto delle altre. Nel 1886, avendo D. Bosco dimostrato desiderio di quell'uva, Giovanni gliene portò in un canestrino alcuni grappoli. Così ci assicurava lo stesso Giovanni Moglia.
In questo autunno Giovanni fece pur conoscenza collo studente Gioachino Rho di Pecetto, che fu poi distinto professore di belle lettere e provveditore agli studii nella Provincia di Torino. Questi nel 1889 così scriveva a D. Piccollo, che dalla Sicilia avevagli mandato una sua orazione funebre su D. Bosco: “Avrei desiderato leggere nel suo lavoro un cenno di un nostro egregio compaesano il Teol. D. Antonio Cinzano, vicario di Castelnuovo d'Asti. Io mi ricordo che il buon prevosto si gloriava di aver avuto a suo discepolo D. Bosco e qualche altro suo parrocchiano, a cui prodigava le sue cure nelle vacanze autunnali, anche quando erano chierici. E fu appunto nella casa parrocchiale di Castelnuovo che io conobbi D. Bosco verso il 1840, insieme con D. Febraro, poi parroco a d Orbassano, D. Allora ed altri, coi quali mantenni poi sempre relazioni di sincera amicizia”. Sia benedetta la memoria, di questo buon parroco, che passa i suoi giorni felici in mezzo alla cara famigliuola di chierici da lui formati.
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