Ancora le Letture Cattoliche - Semplicità di D. Bosco nello scrivere - Sua umiltà - Il Prof. Peyron e una radunanza di sacerdoti - Testimonianza dell'umiltà di D. Bosco.
del 27 novembre 2006
De Agostini, tipografo delle Letture Cattoliche, consegnava a D. Bosco divisa in due fascicoli l'operetta destinata per il fine di ottobre e per il principio di novembre. Aveva per titolo: L'artigiano secondo il Vangelo ossia la vita del buon Enrico Calzolaio, un volumetto anonimo, dedicato agli artigiani. Enrico Buche nato verso la fine del secolo XVI nella piccola città di Erlon nel ducato di Lussemburgo da poveri e oscuri operai, fin da fanciullo fu modello di tutte le virtù cristiane e, assiduo a tutte le istruzioni che si impartivano ai fedeli nella chiesa, si accostava con grande frequenza ai Sacramenti. Ben presto riuscì valente nel suo mestiere. Aveva per suoi protettori S. Crispino e S. Crispiniano e ne imitò gli esempi col dedicarsi alla salute eterna degli operai. Lasciata Erlon, fissò per molti anni la sua dimora a Lussemburgo e di qui venne poi a Parigi. Sua prima cura era sempre di cercarsi un capo bottega veramente cristiano e sempre lo trovò; e ovunque andò, con sante industrie, con eroici sacrifizii e colle elemosine, si fece l'apostolo degli artigiani, strappandone un grandissimo numero dai lacci del vizio, e assicurandone la perseveranza nel bene. Divenuto capo di un'officina fu più che padre per i suoi giovani calzolai, e con sette de' suoi lavoranti, scelti fra i migliori, incominciò a far vita comune e religiosa nella propria casa. Egli aveva allora cinquanta anni, e ottenuta l'approvazione dell'Arcivescovo di Parigi, compilò un regolamento e diede principio alla Pia Società dei fratelli calzolai, la quale cresciuta bentosto in Parigi, di là si sparse in tutta la Francia ed anche in Italia. Il buon Enrico ne fu eletto a Superiore. Si vide allora senza la tonaca, senza i voti e senza il ritiro del chiostro, levarsi in mezzo al mondo e consolidarvisi uno stabilimento religioso mercè  il solo spirito della carità e l'affetto al lavoro; e quei buoni operai, benchè liberi a grado loro di ritirarsi dalla società, non ostante le tentazioni e le persecuzioni, starvi attaccati con tanta tenacità, con quanta non si tiene per avventura un bambino al collo di sua madre. Il loro affetto alla regola e l'attenzione a non violarla era tale quanto appena uno potrebbe aspettare da ferventi religiosi. Tutti i giorni la preghiera in comune, l'assistenza alla santa Messa, il rosario, la lettura della vita del santo di quel giorno e canti di inni spirituali accompagnavano il lavoro non interrotto per ore determinate. Alla Domenica si confessavano, si comunicavano e dopo le sacre funzioni facevano visite agli ospedali, alle prigioni e ai poveri infermi nelle loro case e agli ospizii dei viaggiatori poveri, aiutando il buon Enrico nell'opera di conversione dei peccatori. Enrico fondò eziandio la Pia Società dei fratelli sarti, sul modello di quella dei calzolai, la quale riempì la Francia di santi operai.
In questi stabilimenti gli artigiani pi√π poveri trovavano lavoro ed abiti, gli orfani imparavano gratuitamente il mestiere, gli apprendisti erano assistiti, il vecchio inabile al lavoro veniva ricoverato, ed era provvisto l'operaio infermo e privo d'aiuto.
Ma uno dei meriti più segnalati di Enrico fu quello di aver cooperato efficacemente a disperdere l'empia società, detta la fratellanza degli operai, i cui membri si legavano col giuramento al segreto. Ogni domenica davano rappresentazioni di misteri e solennità cristiane per nascondere le loro iniquità, e quindi si radunavano a fraterni banchetti in certi loro antri, ove si abbandonavano ad ogni specie di gozzoviglie, empietà, scostumatezze e sacrileghi insulti all'ostia consacrata. Queste conventicole si erano sparse in tutta la Francia e in altri regni senza che nessuno sospettasse del loro perfido scopo. Ma finalmente avutone sentore le autorità ecclesiastiche e le civili, colle loro sentenze minacciarono e colpirono que' sciagurati. Enrico allora con pericolo della sua vita e sopportando ogni sorta d'insulti e di calunnie, tanto si adoperò e così grande moltitudine di operai strappò, convertendoli, a quella setta infame ed ipocrita, che in pochi anni scomparve dalla Francia, ed egli ne ebbe le benedizioni di tutto il clero di Parigi.
Il buon Enrico, vegeto e robusto fino ai 90 anni, fece a questa età viaggi a piedi di 200 leghe per visitare alcuni suoi stabilimenti, e devotissimo della Madonna, indefesso nel suo mestiere, umile come può esserlo un santo, moriva nel 1696.
Fu questo un libro ben adattato ai tempi, e D. Bosco lo distribuì a' suoi giovanetti, i quali voleva leggessero le Letture Cattoliche per confermarsi nella fede. Intanto tali opere facevano conoscere sempre più la copiosa dottrina sacra ed ecclesiastica, le sante e rette intenzioni dell'autore e confermavano nelle popolazioni una grande opinione delle santità di D. Bosco.
Per la seconda metà di novembre aveva preparato il seguente volumetto: Vita infelice di un novello apostata. Sono tre conversazioni dell'apostata con un suo amico cattolico fervente, e portano i seguenti titoli: Perdita della tranquillità della mente - Perdita della pace del cuore - Perdita della buona riputazione. - È anonima questa operetta, ma noi ne abbiamo ancora le prime bozze di stampe che attestano, colle molte correzioni fattevi da Don Bosco, la sua pazienza e diligenza.
La Civiltà Cattolica, anno quarto, seconda serie, volume terzo, anno 1853, pagina 112, così giudicava queste pubblicazioni:
“Per contrapporsi alla propaganda eterodossa molti sono gli zelanti sacerdoti che non risparmiano fatiche nè  spese. Tra questi ha un merito segnalato un modesto ecclesiastico, di cui s'è già fatto qualche cenno nella Civiltà Cattolica e che si appella D. Bosco. Egli è il promotore dell'associazione per le Letture Cattoliche, che sono una serie di trattenimenti o dialoghi sopra i capitali punti di religione. Nel fascicolo V si discorre del maomettismo, dello scisma greco, e segnatamente della setta valdese, di cui si esamina la vera origine e si palesa la mala fede. Librettini di piccola mole, pieni di soda istruzione, adattati alla capacità del popolo minuto, e tutta cosa opportuna per questi tempi; ecco il pregio di queste Letture Cattoliche.
”Siane lode all'egregio D. Bosco; e i padri di famiglia, per quanto han cara la fede de' lor figliuoletti, se ne valgano per gittar loro nella mente i primi germi di una istruzione quale è richiesta dalla condizione dei tempi”.
Infatti D. Bosco nello scrivere non aveva altro fine che quello di far del bene. Non cercava la lode degli uomini. Il mio studio, diceva D. Bosco, nel predicare e nello scrivere fu sempre ed unicamente rivolto a farmi intendere da tutti, sia nella esposizione come nell'uso dei vocaboli più semplici e conosciuti. - Egli parlava come scriveva e scriveva come parlava, sempre famigliarmente. Per assicurarsi di essere ben compreso da tutti, continuò a dare a leggere i suoi manoscritti a semplici operai poco istruiti perchè poi gliene riferissero il contenuto. Un giorno leggendo egli a sua madre il panegirico di S. Pietro, indicava il santo Apostolo col titolo di gran clavigero. Sua madre lo interruppe e gli chiese: - Clavigero! Dove è questo paese? - D. Bosco avvertì subito che quella era parola troppo difficile per intendersi dalle persone del popolo e la cancellò.
Ma l'evitare che egli faceva a bello studio le forme eleganti e poetiche era un'altra prova della sua umiltà. “Ricordo, dice Mons. Cagliero, che nelle famigliari conversazioni per animarci allo studio ci recitava a memoria dei bei passi di Orazio, di Virgilio, di Ovidio e di altri autori latini, e declamava belle poesie dei nostri poeti italiani. Eppure non avvenne mai che facesse pompa in pubblico di queste sue cognizioni, o le dimostrasse ne' suoi libri con qualche citazione. Chi non gli era più che famigliare, anche stando in casa, difficilmente poteva venir a conoscere la grande ricchezza letteraria che la sua mente possedeva, italiana, latina e greca”. I saggi nascondono il loro sapere; la bocca delle stolto si caparra rossori.
Malgrado le sue cognizioni storiche, geografiche, letterarie, allorquando doveva mandare alla stampa qualche opera, e anche qualche scritto di minor entità, davali sempre a rivedere a persone dotte in letteratura e scienza, come a Silvio Pellico, al Professore Amedeo Peyron, al Prof. Matteo Picco, dicendo loro che gliene dessero il giudizio e che li correggessero come credevano meglio. Riceveva quindi con grande riconoscenza le loro osservazioni, e anche molti anni dopo le ricordava ancora a' suoi allievi con viva gratitudine. “Alle volte, dice Mons. Cagliero, si abbassava fino a far esaminare da alcuni di noi i suoi opuscoli e le lettere da pubblicarsi e da mandarsi ai benefattori delle sue opere”.
Quando poi ebbe de' suoi figli laureati in belle lettere dava a loro l'incarico di correggere i suoi scritti, ed accettava con tutta umiltà e riconoscenza le loro correzioni, persino quando non fossero state troppo opportune, o non sempre ragionate e conformi alle opinioni dei migliori autori; e ancorchè talora non chieste. E se talvolta non si facevano correzioni se ne lagnava, reputando che, per rispetto verso di lui, si fossero ommesse. Persino quando certe critiche erano dirette dal mal animo de' suoi avversarii non se ne teneva per nulla offeso. Solo quando vi era pericolo che ne andasse di mezzo la retta cognizione di qualche dottrina cattolica o l'edificazione del prossimo, egli rispondeva con tutta calma e rispetto.
Di lui ben si può dire: - Colui che è saggio di cuore, accetta gli avvertimenti. Non è come lo stolto, pel quale ogni parola è flagello tanto mal volentieri ascolta le ammonizioni.
Nell'ottobre del 1853 eransi radunati circa quaranta sacerdoti torinesi nella casa del cappellano dell'Istituto delle Orfane, D. Masucco, e la maggior parte erano di coloro che mostravansi più zelanti per la cristiana educazione dei giovanetti. Volevano trattare della piega che prendevano le cose del giorno riguardo alla Chiesa ed alla salute delle anime. Avevano fissato questo ritrovo per non dare nell'occhio agli arghi settarii e protestatiti. Erano presenti D. Masucco e il Teol. Leonardo Murialdo. Presiedeva l'assemblea l'Abate Amedeo Peyron, uomo stimatissimo in città per la sua scienza e professore di lingue orientali nella Regia Università di Torino. A suo lato sedeva D. Bosco. Dopo che furono discusse varie questioni, da taluno venne proposto che si dovessero moltiplicare le pubblicazioni di scritti educativi popolari. L'Abate Peyron convenne su questa necessità, e D. Bosco chiesta la parola si raccomandò a que' sacerdoti perchè volessero aiutarlo nella propagazione delle Letture Cattoliche, dimostrando come queste fossero un mezzo dei più efficaci per opporsi alla corrente di false idee divulgate dai valdesi.
Come D. Bosco ebbe finito, l'Abate Peyron: - Sta bene, gli disse: io ho voluto leggere attentamente que' fascicoli; ma se volete che producano un buon effetto, procurate che siano scritti con maggior proprietà di lingua, con meno sgrammaticature, minori inesattezze nei termini, più diligenza nelle correzioni! - Questo rimprovero, fatto da un personaggio di tanta importanza ed autorità, sembrò aspro e caustico a tutti i radunati, benchè fosse dettato dallo zelo; e il Teologo Murialdo, tutto confuso per la brutta figura che faceva l'amico D. Bosco, lo guardò osservando come si sarebbe contenuto e che cosa avrebbe risposto. Tanto più pungenti ed amare riuscivano quelle parole, perchè non tutti quei sacerdoti erano allora a lui benevoli. D. Bosco però senza mostrarsi menomamente offeso, con tutta calma e in atto umile rispose: - Ed è apposta per questo che vengo a pregare le Signorie Vostre, perchè vogliano aiutarmi e consigliarmi in questa impresa. Mi raccomando a loro. Mi dicano tutto quello che trovano da correggere, ed io volentieri correggerò. Anzi sarei ben fortunato se taluno, che fosse più perito di me nella lingua italiana, volesse rivedere gli scritti delle Letture Cattoliche prima che vengano pubblicate. - Il Teol. Murialdo ci raccontava poi nel 1890, come nell'udire quella risposta dì Don Bosco, conchiudesse fin d'allora: - D. Bosco è un santo! - e come avesse sempre presente innanzi quella scena. Difatti chi osservi quanto si è suscettibili alle critiche che vengono fatte, in argomenti d'ingegno, sovrattutto quando si è autore, non potrà non riconoscere eroico l'atto di D. Bosco nell'accettare quella rimostranza!
E in parte era esagerata e in parte vera, perchè alcuni fascicoli o anonimi o tradotti dal francese de' suoi collaboratori non potevano avere tutti la correttezza richiesta da un gusto classico; e per quanto D. Bosco vi avesse lavorato attorno, non poteva purgarli dalle mende quanto avrebbe desiderato. Ma egli non si difese, non addusse ragioni e continuò le sue stampe senza disanimarsi.
D. Bosco era ben degno dell'elogio che di lui fece il sullodato Teol. Murialdo: “Dal punto che entrai in confidenza con D. Bosco non ho mai notato in lui cosa alcuna che potesse oscurare menomamente l'eroicità delle sue virtù. Aveva un contegno, un tratto, un linguaggio che rivelava in lui uno spirito umile. Se faceva conoscere le grandiose sue opere, per giustificare i ricorsi frequenti alla pubblica carità, ciò era in conformità della massima del vangelo: Videant opera vestra bona et glorificent patrem vestrum qui in coelis est”.
Il Teol. Reviglio attestò: “Se qualche volta D. Bosco esponeva fatti suoi personali che potevano ridondare a qualche sua gloria, era evidentemente allo scopo d'istruire noi e stimolarci al bene. D'altronde fra le straordinarie prove di stima che riceveva, e, per dir così, in mezzo a' suoi trionfi non si invaniva menomamente; e posso dire che permetteva certe nostre solenni dimostrazioni di stima e di affetto, sia perchè noi soddisfacessimo ai doveri di gratitudine e ci esercitassimo in opere di pietà che ci allontanavano dal peccato, sia per avere un'occasione di insinuarci qualche massima salutare più sentita in que' momenti.... L'umiltà risplendeva nel suo diportamento, nelle sue parole, nel sottrarsi a qualunque comparsa onorifica e non necessaria, nell'abituale persuasione del suo nulla”. Aggiunge Mons. Cagliero: “D. Bosco possedette la virtù dell'umiltà e la praticò eminentemente in tutti i suoi gradi, sentendo e parlando bassamente di se medesimo e abbracciando volentieri le umiliazioni. Soleva raccontarci dell'umile condizione de' suoi parenti, come egli avesse dovuto guadagnarsi il pane col sudore della fronte, come fra mille peripezie, coi soccorsi di benefiche persone e specialmente di D. Cafasso, fosse riuscito 4 compiere i suoi studi. Di ciò ne parlava con gusto e diletto, come se fosse una gloria ed ambizione di famiglia, tantochè radicava nei nostri cuori un amore grande a questa virtù, predicata e praticata da Gesù Cristo medesimo.
”Nelle prediche e conferenze ci ricordava che il regno di Dio è premio ai poveri di spirito, e che era sua missione prediletta occuparsi dei giovani da Gesù tanto amati, e specialmente se nella miseria e derelitti. Le sue parole avevano un'efficacia tutta propria perchè le vedevamo accompagnate dai fatti. Andava poi dicendo esser desso il capo dei biricchini di Torino, e non già per vanagloria, ma per accaparrarsi il cuore dei giovani e attirarli al bene. Si compiaceva di intrattenersi con noi, e alcune volte quando veniva da visitare nobili persone e di alta posizione ci diceva: - Qui con voi mi trovo bene: è proprio la mia vita stare con voi”.
D. Turchi osservava: “Nella sua umiltà riceveva e trattava negli stessi modi, tanto il povero come il ricco. Nemmeno co' suoi giovani usava dare ordini, ma soleva dire ad esempio: - Mi faresti il piacere di fare la tale o la tal altra cosa? Con queste sì belle maniere guadagnava il nostro animo ed otteneva più che con dare comandi. Era poi riconoscentissimo al più piccolo servizio che gli venisse prestato, come se non gli fosse dovuto. Un giorno lo vidi uscire di camera come chi ha bisogno di qualche cosa. Mi accosto a lui e gli chiedo che cosa gli occorresse. - Sì, mi rispose: sento una grande arsura che soffoca; avrei necessità di bere, ma non trovo alcuno.
- Se basta acqua e zucchero che ho io in cella, gliene posso dare io, soggiunsi.
- Ah! mi farai un gran piacere E gliene portai; bevette e mi ringraziò più volte come di un benefizio ricevuto.”
D, Rua Michele a sua volta affermava: “Egli avrebbe potuto conseguire una posizione sociale onorifica, anche nell'ordine ecclesiastico, e ne ebbe eziandio varie occasioni ed inviti; ma non accettò. In quei tempi, se avesse detto una sola parola, avrebbe facilmente ottenuto una patente o un diploma per l'insegnamento; ma non volle dirla, e quando venivano a trovarlo giovani educati nell'Oratorio che avevano conseguita la laurea in Belle Lettere, egli rallegrandosi coi medesimi, si compiaceva poi di rilevare che egli al contrario, non aveva neppure le patente di maestro elementare. Allorchè qualcuno domandavagli se non era Monsignore o Cavaliere, egli rispondeva: - Sono D. Bosco, sempre D. Bosco. - Del resto egli tanto negli onori come nei disprezzi era sempre indifferente.
“Pel basso concetto che aveva di se medesimo si considerava come semplice strumento nelle mani di Dio e come una terza persona nella direzione e maneggio delle opere sue, e non diceva mai in persona prima: Io ho fatto, io ho detto, io voglio; ma in persona terza: D. Bosco ha detto; D. Bosco desidera; D. Bosco si raccomanda. Sovente affermava la sua incapacità a fare qualche cosa e ripeteva che, se non fosse stato della vocazione avuta da Dio, egli non avrebbe potuto essere altro che un povero cappellano di montagna. A Dio attribuiva quanto faceva, dicendo: - Colla grazia di Dio abbiamo fatto questo. - Se a Dio piace, faremo quello. - Dio ci ha mandato questo aiuto. - Che Dio sia ringraziato di tutto. - E sempre a lui solo dava tutta la gloria delle sue imprese. E anche, considerandosi come inetto strumento del Signore, attribuiva a' suoi preti ed antichi allievi, benchè usciti dall'Oratorio, il bene che faceva e che aveva fatto. Se gli accadeva qualche avversità, la quale colpisse tutto il suo Istituto, soleva dire: - Forse ne abbiamo fatta qualcheduna al Signore ed Egli ci castiga. Facciamoci buoni e ci benedirà. - Per questo riceveva con tutta rassegnazione ogni sorta di tribolazioni e raccomandava ai giovani quest'atto di umiltà.
“Rammento che una volta venne all'Oratorio il venerando Priore dell'Ordine di S. Domenico. D. Bosco che non lasciava sfuggire occasione di sorta tanto per esercitare sè  nella virtù, quanto per istruire i suoi figli, chiesegli che si degnasse di suggerire qualche massima fondamentale a noi tutti. Ed egli rispose col testo dì S. Agostino: - Prima virtus est humilitas; secunda, humilitas; tertia, humilitas. - Noi allora più che mai intendemmo, perchè D. Bosco ci raccomandasse tale virtù. Egli sovente domandava a noi di dargli due dita di testa, alludendo alla rinuncia della nostra volontà; e diceva che ci avrebbe fatti santi. E quasi ogni giorno ci ripeteva i detti di S. Agostino: Magnus esse vis? a minimo incipe. Cogitas magnam fabricam construere celsitudinis? de fundamento prius cogita humilitatis; e altre somiglianti sentenze”.
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