Capitolo 56

Prove e difficoltà per dar principio alla Congregazione - D. Bosco ne scrive le prime regole secondo il bisogno e la natura dei tempi - Infestazioni misteriose - Consigli inopportuni -Suggerimenti di Urbano Rattazzi Approvazione dei vescovi e dei teologi - Timori del Vescovo di Biella - Mons. Fransoni consiglia a D. Bosco, -un viaggio a Roma - Gli Oblati espulsi dal convento della Consolata ed i Francescani - I giovani dell'Oratorio e le sacre funzioni in quel santuario - Parole prudenti di D. Bosco in difesa di certi religiosi.

Capitolo 56

da Memorie Biografiche

del 29 novembre 2006

 Don Bosco amava la povertà evangelica collo stesso amore col quale un figlio dei più affettuosi predilige sua madre, e questa povertà formava la sua ricchezza. Infatti in premio di tanta virtù il Signore lo aveva destinato a fondare una società di religiosi, secondo i bisogni de' suoi tempi, e che doveva ancora una volta verificare il detto dell'Apostolo: Nihil habentes et omnia possidentes. Tuttavia l'impresa non era facile. Si trattava, non già di convocare, ma di creare i primi membri di questa pia unione, esigendo Iddio tale fatica dalla costante fedeltà del suo umile servitore. Eccone le prove.

Abbiamo già detto più volte come D. Bosco facesse invito a un certo numero fra i suoi giovani e chierici di fermarsi nell'Oratorio per aiutarlo nella sua impresa, e come difficilmente riuscisse a ritenerli. Scrisse D. Savio Ascanio: “ Nel 1850 io dissi a D. Bosco: Fondi un ordine religioso. - Ed egli mi rispose: Da' tempo al tempo. - Perciò io argomentai che egli stesse, e infatti stava, studiando qualche progetto in proposito. E conobbi anni dopo che egli aveva incominciato a fare emettere or all'uno or all'altro, qualche voto, ad breve tempus, ma senza insistere poi che lo rinnovassero, come infatti non lo rinnovarono”. Anche D. Cafasso Giuseppe diceva a D. Bosco, il quale aveva conferito con lui sulle difficoltà che incontrava, nel rendere stabilmente sicura l'opera degli Oratorii: - Per le vostre opere è indispensabile una Congregazione religiosa.

     - Sarebbe questa la mia intenzione, ma come fare? Quando il superiore ecclesiastico, oppure gli affari dei membri della nuova società esigessero un trasloco o un cambiamento di occupazione, mi troverei nelle stesse difficoltà.

     - Certamente; ma conviene, replicò D. Cafasso che questa associazione abbia i vincoli dei voti, e sia approvata dall'autorità suprema della Chiesa. E allora potrà liberamente disporre de' suoi membri.

  D. Bosco chiedeva consiglio, per un progetto del quale sapeva sicura la riuscita; ma desiderava che fosse approvato dall'autorità del suo pio e dotto direttore. Nello stesso tempo non dimenticava le replicate esortazioni dell'Arcivescovo Fransoni. Tuttavia nella sua prudenza trovava prematura la proposta di voti formali, e prevedeva che avrebbe dovuto incominciare coll'ottenere l'approvazione delle Regole dall'Autorità diocesana.

   Il Teol. Borel e qualche altro, - i quali a buon diritto benchè stessero alle loro case, debbono essere riconosciuti come il primo fondamento della Pia società, avendo prestato costantemente aiuto e in tanti modi a D. Bosco, - ammiravano il bene sociale che operavano gli Oratorii. Desideravano perciò che si perpetuassero, e ne facevano parola al servo di Dio perchè desse principio a quella Congregazione della quale aveva loro confidato il disegno. Ma Don Bosco rispondeva: - Tiriamo innanzi, abbandonandoci nelle mani di Dio. Aspettiamo dal Signore qualche segno che ci indichi il tempo per incominciare.

   E infatti ove trovare membri che formassero congregazione?

   Egli, cominciando un po' alla lunga, da più anni radunava alla Domenica sera, dopo che i giovani erano andati a riposo, nella sua anticamera, o meglio biblioteca, qualche studente ed alcuni chierici a speciale conferenza, i quali dimostravano di avere il suo spirito, col fine di formarli allo stato ecclesiastico. Per impedire che perdessero la vocazione, faceva risaltare i vantaggi della vita di comunità; e con pie esortazioni e sante industrie li persuadeva a passare tutte le vacanze, o almeno una gran parte di esse, nell'Oratorio. Non di rado andava loro esplicando a poco a poco i suoi vasti disegni e destava in loro un vivo entusiasmo. Ne parlava eziandio nelle conversazioni famigliari. A questo modo insensibilmente, senza che essi quasi se ne accorgessero, si andava formando un principio di Congregazione, perchè prendevano, a riguardare l'Oratorio come casa propria.

Questo principio però, benchè radicato in vari cuori, non emergeva ancora innanzi agli altri; e tale unione appariva cosa al tutto libera e come una pia adunanza nella quale i figliuoli maggiori convenivano intorno al loro padre per sentire ciò che egli credeva più opportuno pel buon andamento materiale e morale dell'Oratorio. Cosi fu giudicata dall'intera Comunità fino al 1860 e oltre.

  Gravissimi erano i motivi che aveva D. Bosco nel tener segreta agli alunni la realtà delle sue intenzioni. Egli appena osava parlarne ad tino o due dei più fidi, per non spaventar i volonterosi di aiutarlo. Invitando qualcuno a stabilire la sua dimora con lui, non faceva mai conoscere che si trattasse di Ordine o Congregazione religiosa, non pronunziava mai le parole novizio, noviziato, professione, voti, perchè guai! Sarebbero fuggiti tutti. Contro di lui stavano i pregiudizi, gli errori, le calunnie, gli scherni contro le fraterie, delle quali l'empietà andava assordando il mondo; e anche le anime più generose sarebbero state prese da sgomento non sapendo a quale avvenire sarebbero andate incontro, poichè il Governo sopprimeva gli ordini religiosi. Si aggiunga che quei buoni figliuoli erano giovanissimi ed inesperti.

  Infatti più tardi quasi tutti i primi preti dell'Oratorio e coadiutori laici più cospicui più volte si udirono ripetere: “ Se D. Bosco ci avesse detto: - Vuoi tu entrar nella Congregazione? - E se ci avesse spiegato apertamente che cosa voleva dire Congregazione, neppure uno di noi vi sarebbe entrato. Ma D. Bosco ci invitò colla sua carità, e noi, come pecorelle attirate da una verde fronda, siamo entrati nel suo ovile. E fortunati noi che ci siamo lasciati attirare. Allora per invitare uno a formare società con lui ci diceva semplicemente. - Vuoi tu bene a D, Bosco? Vuoi fare il tuo chiericato qui nell'Oratorio? Hai voglia col tempo di aiutare D. Bosco a lavorare? Oh quanto lavoro ci vediamo innanzi agli occhi! Ce ne fossero dei preti e dei chierici che si fermassero in casa chè del lavoro ce n'è per tutti. - E noi restammo adescati e presi. Mi ricordo, ci disse uno di questi, che gli domandai, come avessi da scrivere ai miei genitori che già stavano per cercarmi il posto nel Seminario. Mi rispose: - Scrivi così: riconoscente a D. Bosco che ti ha aiutato fin'ora, tu desidereresti di fermarti con lui, per vedere se potrai, come chierico, aiutarlo nei tanti lavori che sono da farsi in casa, sia d'assistenza, o di scuola, o di altro. - Ed io veramente allora non ne capiva, non ne sapeva, e non ne desiderava di più ”.

   Un'altra difficoltà sorgeva dall'essere i pochi membri di quell'unione primitiva sforniti ancora del vero spirito di sottomissione spontanea che deve formare i perfetti religiosi colla rinuncia intera della propria volontà. La necessaria loro cooperazione all'assistenza ed all'istruzione religiosa e scolastica, la tradizionale libertà della vita di famiglia che rendeva così cara la casa di Valdocco, certe indoli ardenti e difficili che pure assoggettavansi volentieri a gravi lavori e privazioni, costringevano D. Bosco ad una grande longanimità nel pretendere da loro una disciplina regolare ed esatta.

   Seguiva l'esempio del Divin Maestro, il quale rimproverato dai Farisei, perchè i suoi discepoli non digiunavano, rispondeva loro colle similitudini del pezzo di panno nuovo cucito sopra un abito vecchio, del vino nuovo messo in otri vecchie, e del bevitore abituato al vino vecchio, il quale non vuole indursi a un tratto a preferire il vino nuovo. Con ciò dimostrava impossibile un repentino cambiamento di vita; ed essere necessario condurre i suoi discepoli passo a passo, rinnovando il loro spirito co' suoi insegnamenti, co' suoi esempi e colla sua grazia. E quanto dovesse sopportare dalla loro condotta è narrato dalle pagine del Santo Vangelo. Basti accennare alle esclamazioni: Durus est hic sermo, e alla voltata dì spalle di molti fra essi.

  Diceva D. Bosco nel 1875: “ Chi di voi ricorda ancora i primi tempi dell'Oratorio? Ora invece quante cose si cambiarono poco per volta e sì andarono stabilendo e rassodando! Si vede proprio che noi siamo progressisti per eccellenza! Allora D. Bosco prima era solo, e poi ebbe D. Alasonatti. Ma a lui toccava sovente far scuola di giorno, scuola serale, scrivere libri predicare, assistere in certe ore gli alunni, andare in cerca di quattrini. E intanto avvenivano non pochi disordini esteriori, dissensioni fra i chierici pel modo di operare il bene, dispute letterarie o teologiche, ma fuori d'ora e talvolta troppo vive; disturbi nella sala di studio quando non vi erano i giovani: alcuni al mattino non si alzavano puntuali dal letto per motivo del freddo; altri per ragionevole causa non andavano a scuola, senza dir però nulla al Superiore. Non mancavano nel recarsi coi giovani, e in modo edificante, a tutti gli esercizi di pietà, stabiliti dal regolamento, ma non si faceva la lettura spirituale e non la meditazione, come esigono i maestri di perfezione cristiana. Io vedeva quei disordini, avvertiva chi ne aveva bisogno, ma lasciava che sì andasse avanti come si poteva, perchè non si trattava di offesa di Dio. Se avessi voluto togliere i vari inconvenienti in una volta, avrei dovuto mandar via tutti i giovani e chiudere l'Oratorio, perchè i chierici non si sarebbero adattati ad un nuovo regime. Spirava sempre una certa aria di indipendenza che metteva in uggia ogni pastoia, e troppi allettamenti di vita più agiata presentava lo stato di preti secolari. Anche le tentazioni dei parenti per tirarli a casa quando fossero preti, non mancavano di insistenza. Bisognava armarsi di prudenti riguardi. D'altra parte io vedeva che que' chierici, benchè divagati, lavoravano volentieri, erano di buon cuore, di moralità a tutta prova, e, passato quel fervore di gioventù, mi avrebbero poi aiutato molto e molto. E debbo dire che i vari preti della Congregazione, che allora erano in quel numero, adesso sono fra quelli che faticano di più, che hanno il migliore spirito ecclesiastico e di Congregazione; ma allora certamente sarebbonsi ritirati da me, piuttostochè assoggettarsi a certe regole restrittive. Se per fare andare tutto a perfezione, mi fossi tenuto in una piccola cerchia, sarei riuscito a far poco o nulla, e l'Oratorio ora consisterebbe in una specie di collegio con una cinquantina o al più un centinaio di giovanetti. E null'altro! ”

   Ma ciò che torna anche a lode esimia di que' primi collaboratori di D. Bosco si è la venerazione e l'affetto che dimostravano al loro Superiore. Sopratutto a lui concedevano quella libertà di parola che in una famiglia usa naturalmente un padre. Quindi D. Bosco anche dal pulpitino alla sera dava, benchè di raro, qualche rimprovero a chi l'aveva meritato, alla presenza di tutti i compagni. E nessuno se ne offendeva, perchè D. Bosco poteva dire e fare ciò che in altri sarebbe stato giudicato come imprudenza.

   Ricordiamo un fatto accaduto nel 1857. Erasi da tempo ordinato che le candele avute da quelli che erano mandati in città per una sepoltura, dovessero adoperarsi nelle funzioni dell'Oratorio. Era un risparmio di spesa considerevole, perchè D. Bosco riceveva non di rado simili inviti. Ora avvenne che quattro chierici erano stati mandati sulla collina di Soperga per un accompagnamento funebre, ove ciascuno ebbe un fascio di dodici candele. Ritornati a casa, due consegnarono quella cera a Don Alasonatti, come era prescritto in simili occasioni, e due andarono a venderla al candelaio e si ritennero il prezzo. Non era la prima volta che taluno si prendeva un simile arbitrio. D. Bosco solo allora ne era stato testimonio, aveva crollato alquanto il capo, con un certo sorriso che indicava aver scoperto ciò che nascondevano sotto il mantello, ma non aveva detto parola trovandosi con degli estranei. Fors'anco pensò che avessero bisogno di comprarsi qualche libro, o altro.

   Ma se allora tacque, ora credette bene di parlare, tanto più che tutti in casa avevano saputa la cosa e bisognava perciò mettere impedimento ad un abuso, che, tollerato, si sarebbe fatto generale.

   Alla sera adunque dopo le orazioni, sempre calmo e amorevole, rivolse la parola a D. Alasonatti: - Dunque stamattina alcuni giovani andarono ad un funerale.

     - Sissignore.

     - E chi furono quelli che andarono? I tali e i tali.

     - Bene! E le candele le consegnarono tutti al Prefetto?

    E D. Alasonatti dicendone i nomi rispose:

     - Due sì e due no.

     - Non mi piace. Il giovane F... potrebbe, benchè a torto, credere di dar qualche vantaggio alla casa, prendendo parte col canto a varie funzioni in città, ma tu, o G...., no; tu prendi dalla casa tutto ciò di che abbisogni, sei accettato a pensione intieramente gratuita. L'altro giorno ancora sei venuto da me perchè ti condonassi tutte le spese accessorie, dicendo che non potevano i tuoi parenti pagarle; ed io te le condonai, quindi... non hai scusa a trattarmi così... Buona notte.

  Siccome quasi tutti i giovani erano nelle stesse condizioni del Ch. G., ebbero una lezione che approvarono come equa e necessaria. Lo stesso chierico non si riputò offeso, nè pensò che in qualche modo D. Bosco avesse mancato alla carità, poichè fu sempre a lui affezionato come, figliuolo; e a noi diceva nel 1894: -Non ho mai scorto in D. Bosco cosa che potesse menomamente smentire la santità della sua vita.

  Per lungo spazio di tempo adunque D. Bosco aveva contemplato molto lontano quell'ideale che tanto lo riempiva di sè, ma finalmente nel 1857, dopo dieci anni di costanza incrollabile, di continue fatiche, di spese e di premure; dopo aver messo allo studio alcuni artigiani, che fecero una splendida riuscita, ebbe la consolazione di vedersi circondato di un'eletta schiera di circa otto tra chierici e giovani sopra i quali parevagli di poter fare assegnamento, manifestando essi la propensione di prendere parte alle sue fatiche per tutta la vita.

  Bisognava pertanto loro presentare una regola, e questa era pronta. D. Bosco, guidato dalla solita sua prudenza, dopo un lungo meditare, ma senza affrettarsi, aveva già scritte le Costituzioni della Pia Società, mentre, come afferma il Can. Anfossi, faceva recitare speciali preghiere dai chierici col fine di ottenere nell'importante lavoro l'assistenza divina. La base di queste avevala in certo modo già posta, poichè nei regolamenti dell'Oratorio festivo e dell'Ospizio, i superiori, investiti dei vari uffizi, rappresentavano i membri del futuro Capitolo Superiore. Con molti stenti aveva cercato di procurarsi i volumi delle Costituzioni dai principali Ordini e Congregazioni religiose, perchè difficilmente questi sogliono permettere che se ne dia copia, anche per breve tempo, a persone estranee. Gli stessi Oblati di Maria Vergine in Torino, che pure erano suoi amici, gliele rifiutarono recisamente. Egli tuttavia trovò, qualche anno dopo, il mezzo di procurarsele. Ma sul principio del suo lavoro, incominciato nel 1855, dovette contentarsi delle sole cognizioni acquistate collo studio della storia ecclesiastica; e ispirandosi a certe idee, che evidentemente gli si erano presentate in certi sogni, o visioni. E intanto quante veglie, quante letture e colloqui e corrispondenze epistolari con eminenti persone, le quali colla loro dottrina ed esperienza fossero in grado di comunicargli dei lumi. Tanto più che egli argomentava dover la sua congregazione assumere forme esterne che la distinguessero dalle altre, spogliandola di certe pratiche e costumanze troppo da asceta, non usate dal clero secolare, e mal viste o messe in ridicolo dai mondani. Di religioso si conservi la sostanza, ei diceva; le apparenze non sono necessarie. Anzi una simile Congregazione, a mio parere, ispirerà maggior fiducia e simpatia, e col tempo attirerà molti soggetti a farvisi iscrivere, allettati dalla stessa, direi così, modernità della cosa. - Per lo stesso fine non volle che dal suo nome si appellassero i nuovi suoi religiosi.

   Si era intrattenuto anche col P. Giovanni Battista Pagani, immediato successore dell'Abate Antonio Rosmini, per aver norme che rendessero possibile ciò che la condizione dei tempi pareva non permettesse. Sembra però, che in quel tempo abbia anche dovuto sostenere fastidi dal nemico del genere umano, al quale poco garbava quel lavoro. “ Infatti, asserisce il Can. Anfossi, noi notammo come generalmente D. Bosco soffrisse gravi suggestioni diaboliche ogni volta che stava per intraprendere qualche opera importante a maggior gloria di Dio. Un mattino avendo io domandato a D. Bosco se nella notte avesse riposato bene, mi rispose: - Non molto, perchè fui molestato da un brutto animalaccio, sotto forma di orso, il quale mi si pose sul letto e tentò, opprimendomi, di soffocarmi. - Questo fatto non avvenne una sol volta; e D. Bosco diceva chiaramente come fossero molestie infernali ”. Altri dell'Oratorio esposero nei medesimi termini il fatto su esposto, persuasi da vari altri indizi, che realmente qui si avesse del preternaturale.

   La notte poi nella quale D. Bosco finì di scrivere le prime regole della Pia Società Salesiana, frutto di tante preghiere, meditazioni e lavoro, mentre scriveva la frase di conclusione: Ad maiorem Dei gloriam, ecco apparirgli l'inimicus homo, muoversi il suo tavolino, rovesciarsi il calamaio, macchiarsi d'inchiostro il suo manoscritto; e questo sollevarsi turbinosamente in aria, ricadere, sfogliarsi, con grida così strane da incutere profondo terrore; e in fine restar tutto così imbrattato da non essere più leggibile e dover poi D. Bosco ricominciare il suo lavoro. Ciò confidava D. Bosco stesso ad alcuni e fra questi al Missionario D. Rabagliati Evasio.

   Condotto infine a buon termine il suo scritto, pregò lungamente il Signore, come egli stesso ci narrava, acciocchè lo ispirasse se fosse giunta l'ora di dar principio alla vagheggiata Congregazione.

Intanto egli aveva fatto un invito particolare a quelli fra i suoi alunni, i quali mostravano evidentemente essere chiamati dal Signore in suo aiuto; e loro esponeva confidenzialmente il piano della società da lui ideata, dalla quale egli sentivasi certo di ottenere frutti incalcolabili a beneficio della gioventù: di quando in quando leggeva loro le costituzioni, che aveva preparate. Non erano ancora le regole definitive, perchè tali non potevano essere, senza l'approvazione dell'autorità ecclesiastica, ma si svolgevano con tale chiarezza ed ordine che i congregati apprendevano lo scopo di D. Bosco e gli obblighi che si sarebbero assunti, qualora liberamente li accettassero. Queste prime Costituzioni le esponiamo in fine del volume come documento storico, che svela in qual maniera avesse D. Bosco concepita la Pia Società di S. Francesco di Sales.

   La notizia però di tale Regolamento trapelò fuori dell'Oratorio.

   Alcuni dignitari ecclesiastici, a lui benevoli, lo sconsigliarono dall'attuare quel progetto e per la tristezza dei tempi, per la penuria dei soggetti, per la persecuzione sistematica del Governo contro gli Ordini religiosi. Questi, dicevano, avrebbe fatta violenza alla sua Istituzione, soffocandola fin dal suo nascere. Ma D. Bosco rispondeva che a Dio nulla era impossibile, e che se l'opera che egli voleva stabilire era del Signore, sarebbe, malgrado ogni difficoltà, andata avanti. Conveniva però con essi sulla necessità di armarsi della prudenza del serpente, perchè si trattava di fondare un Ordine nuovo, mentre gli altri cadevano; ma dichiarava nello stesso tempo essere necessario salvare la gioventù e il suo bene morale a qualunque costo.

   D. Bosco però non poteva essere senza timore che il Governo non gli impedisse di condurre in porto una Congregazione, che doveva supplire a tante altre, divelte per mano della rivoluzione. Quand'ecco un avvenimento inaspettato aprirgli la strada. La divina Sapienza, la quale scherza ognora nel mondo, ludens coram eo omni tempore, ludens in orbe terrarum, volle servirsi di Urbano Rattazzi per trarre da ogni titubanza D. Bosco.

   Un giorno adunque del 1857 il Ministro Rattazzi, che incominciava a paventare i progressi delle idee sovversive della plebe, ebbe a sè D. Bosco, al quale aveva scritto poco prima una lettera; e dopo essersi con lui intrattenuto per alcun tempo sull'esito della Lotteria, sull'opera degli Oratorii e sul vantaggio che il Governo se ne poteva attendere, gli disse presso a poco queste parole:

   - Io fo voti che Lei, signor D. Bosco, viva molti anni alla coltura di tanti poveri giovanetti; ma Lei è mortale come ogni altro, e se venisse a mancare, che cosa ne sarebbe dell'opera sua? Ha Lei già pensato a questo caso?

E se vi ha pensato, quale misura intenderebbe di adottare per assicurare l'esistenza del suo Istituto?

   A questa uscita inaspettata, D. Bosco tra il serio ed il faceto rispose:

     - Per dirle il vero, Eccellenza, io non fo conto di morire sì presto, e perciò pensai bensì a procacciarmi qualche aiutante pel momento, ma non ho per anco il modo di continuare l'opera degli Oratorii dopo la mia morte. Ora, giacchè Ella me ne fa parola, sarei a domandarle alla mia volta, a quale mezzo, giusta il suo consiglio, io potrei appigliarmi, per assicurare la vita a questa istituzione?

     - A mio avviso, rispose Rattazzi, giacchè non è di parere di far riconoscere l'Oratorio come Opera Pia, Lei dovrebbe scegliere alcuni tra laici ed ecclesiastici di sua confidenza, formarne come una Società sotto certe norme imbeverli del suo spirito, ammaestrarli nel suo sistema, affinchè fossero non solo aiutanti, ma continuatori dell'opera sua dopo la sua dipartita.

   A questo suggerimento, un leggier sorriso sfiorò le labbra di D. Bosco. Il Ministro aveva fatto sancire la prima legge di soppressione delle Congregazioni religiose, esistenti da secoli negli Stati Sardi; e quindi a D. Bosco pareva una stranezza udire quell'uomo istesso a consigliarne l'istituzione di un'altra. Laonde soggiunse:

     - E crede la E. V. che sia possibile fondare una cotale Società in questi tempi? e che possa durare senza che i membri di essa siano stretti insieme da vincolo religioso?

     - Un vincolo è necessario: ne convengo; ma di tal natura, che le sostanze non appartengano alla comunità come ad ente morale.

     - Ma il Governo, due anni sono, soppresse parecchie Comunità religiose, e forse si sta preparando alla estinzione delle rimanenti, e permetterà egli che se ne fondi un'altra non dissimile da quelle?

     - La legge di soppressione, riprese Rattazzi, io la conosco e ne conosco anche lo scopo. Essa non Le reca veruno incaglio, purchè la S. V. instituisca una Società secondo le esigenze dei tempi e conforme alla vigente legislazione.

     - E come sarebbe?

     - Sarebbe una Società, che non abbia l'indole di mano morta, ma di mano viva; una Società, in cui ogni membro conservi i diritti civili, si assoggetti alle leggi dello Stato, paghi le imposte e via dicendo. In una parola, la nuova Società in faccia al Governo non sarebbe altro che un'Associazione di liberi cittadini, i quali si uniscono e vivono insieme ad uno scopo di beneficenza.

     - E Vostra Eccellenza può Ella assicurarmi che il Governo permetta l'istituzione di una tale Società e la lasci sussistere?

     - Nessun Governo Costituzionale e regolare impedirà l'impianto e lo sviluppo di una tale Società, come non impedisce, anzi promuove le Società di commercio, d'industria, di cambio, di mutuo soccorso e simili. Qualsiasi Associazione di liberi cittadini è permessa, purchè lo scopo e gli atti suoi non siano contrari alle leggi e alle istituzioni dello Stato. Stia tranquillo: risolva; avrà tutto l'appoggio del Governo e del Re, poichè si tratta di un'opera eminentemente umanitaria.

     - Ebbene, conchiuse D. Bosco, vi rifletterò sopra e poichè la E. V. si mostra così benevola verso di me e de' miei giovanetti, occorrendo mi farò premura di rivolgermi alla sua saggezza ed autorità.

  Le parole di Rattazzi furono per D. Bosco uno sprazzo di luce, che palesandogli le intenzioni del Governo lo rassicurò pienamente. La Società suggeritagli era una Società civile prettamente umana, ma egli non entrò in argomenti d'ordine spirituale, quindi caldamente lo ringraziò di quel suggerimento, senza fargli parola di aver già svolte quelle idee nello scritto delle sue Costituzioni, specialmente per ciò che riguardava la pratica del voto di povertà. Importava che Rattazzi tenesse come suo esclusivamente quel suggerimento per averlo alleato. E così fu; e qualche volta Rattazzi, ricevendo D. Bosco al Ministero, caldeggiava l'esecuzione del suo progetto. D. Bosco diceva in nostra presenza il i gennaio 1876: - Rattazzi volle con me combinare vari articoli delle nostre regole riguardanti il modo col quale la nostra Società doveva regolarsi rispetto al codice civile ed allo Stato. Si può dir proprio che certe previdenze, perchè non potessimo essere molestati dalla potestà civile, furono cose tutte sue.

  D. Bosco contando su tale appoggio, prima di rivolgersi alla Santa Sede, avendo conferito a lungo con Don Cafasso, volle consultare parecchi Vescovi ed altre pie e dotte persone. Si trattava di fondare una Congregazione d'aspetto diverso da tante altre che esistevano, o erano esistite in Piemonte. Quindi esponeva loro alcuni quesiti: “ Una Società desiderosa di lavorare alla gloria di Dio, pur rimanendo civile in faccia al Governo, non potrebbe assumere eziandio la natura di un Istituto religioso in faccia a Dio ed alla Chiesa? - Non potrebbero i suoi membri essere e liberi cittadini e religiosi ad un tempo? - Mi pare di sì, a quel modo che in uno Stato qualsiasi un Cattolico può essere e suddito del Re o della Republica e suddito della Chiesa, fedele ad entrambi, osservando di entrambi le leggi”. Vescovi e Teologi risposero favorevolmente a tali quesiti.

   Sorgeva poi un'altra questione, la quale, benchè d'ordine secondario, poteva creare serie difficoltà.

   Eziandio il Vescovo di Biella era stato richiesto del suo consiglio. Mons. Losana aveva fatto osservare a Don Bosco, che le Diocesi abbisognavano di un immediato soccorso di Sacerdoti, e che colla sua Società avrebbe forse ritardati questi aiuti, ritenendo per sè i soggetti migliori. Infatti era chiaro che l'avvenire del clero stava in mano a D. Bosco. Ma D. Bosco gli rispose che il ritardo non sarebbe stato di danno, perchè egli prevedeva di poter con i primi suoi coadiutori, legati alla sua Congregazione, arrecare un aiuto molto maggiore alle diocesi del Piemonte, in pochi anni. E confortò la sua risposta col detto: Funiculus triplex difficile rumpitur: cioè che il promuovere le vocazioni sarebbe da qui avanti un lavoro collettivo e non individuale, quindi permanente, continuo, progressivo, e che non si sarebbe potuto impedire, per il vincolo di obbedienza che avrebbe stretti saldamente fra loro i lavoratori della vigna evangelica. Mons. Losana, che narrò questo dialogo al Can. Anfossi, approvò le parole di Don Bosco, le quali ben presto si dovevano avverare in modo sorprendente. Ci scrisse il sullodato Canonico: “ Incaricato io pure di una classe ginnasiale nell'Oratorio, in un anno (1862) sopra un centinaio di alunni ben settantaquattro si decisero per la carriera ecclesiastica e passarono agli studi nei Seminari delle varie diocesi”.

   Avuta così l'approvazione anche del Vescovo di Biella, D. Bosco desiderava pure di far sapere al suo veneratissimo Arcivescovo la presa risoluzione; e non potendo recarsi personalmente a Lione, dove quell'invitto eroe della Chiesa viveva sempre in esiglio, gliene scrisse, domandando il suo parere. Mons. Fransoni gradì sommamente il disegno di D. Bosco, che da anni era pure il suo, lo animò a mandarlo ad effetto, e per metterlo sopra una via sicura gli raccomandò di recarsi a Roma, a fine di chiedere, all'immortale Pontefice Pio IX e consiglio e norme opportune. D. Bosco accolse di buon grado la raccomandazione del suo Arcivescovo, e si risolvette ad un viaggio, al quale da tempo andava pensando.

   Intanto non cessavano le cause di gravi dolori.

  Mentre D. Bosco era sul punto di dare consistenza alla sua Pia Società, il Governo continuava a prendere possesso di case religiose, sbandeggiandone i pacifici laboriosi abitatori e concentrando in un solo convento i membri di vari Istituti. D. Bosco ne soffriva, specialmente perchè la legge della soppressione era stata eseguita in tutto il suo rigore contro gli Oblati della Consolata, pei quali ei nutriva grande stima ed affetto. Nel novembre del 1855 la Cassa Ecclesiastica aveva dato in affitto ad un albergatore una parte del loro chiostro e quindi nel 1857 ne li faceva sloggiare per mettervi i Minori Osservanti che erano assai ben veduti dal Governo. Questi, essendovisi introdotti senza punto farne parola alla Curia Metropolitana, il Vicario Generale non aveva voluto dar loro la facoltà di amministrare il Santuario, e vi aveva nominato Rettore uno degli Oblati e poi un prete secolare. Tali vicende non favorivano certamente il maggior culto della benedetta effigie di Maria SS. Consolatrice, e perciò D. Bosco per quegli anni mandava al Santuario i suoi cantori per le solenni novene e i chierici per il servizio dell'altare nelle feste principali e quando ne era richiesto. Intanto i frati vedendo che la Curia teneva fermo, dopo aver temporeggiato alquanto le presentarono un rescritto pontificio da essi procacciato. Ma poichè per ottenerlo eransi addotte ragioni insussistenti, Mons. Fransoni fece a Roma i suoi richiami, e venne di là l'ordine ai Minori di chiederne venia all'Arcivescovo: il che fatto si lasciò loro ufficiare la chiesa.

   Mentre componevasi tale questione, sopra un giornale,cattolico compariva un articolo col quale si biasimavano,eccessivamente i Minori Osservanti. D. Bosco, nonostante la sua affezione agli Oblati, fu dolente di quell'articolo, perchè non vedeva ragione, la quale costringesse a portare al giudizio della pubblica opinione ciò che spettava al solo giudizio della Chiesa. - Se dalla parte dei Francescani, ei diceva, vi fu colpa, perchè non coprirla col manto della,carità, mentre si era certi che gli Oblati non avrebbero potuto rivendicare i loro diritti? E poi in una comunità molto numerosa l'errore potendo essere di un solo o di pochi, rimanendo gli altri in buona fede, perchè involgerli tutti nella stessa accusa? - E concludeva: - Preti e frati finchè lavorano e fanno bene nel Sacro Ministero, non devonsi screditare e mettersi in cattiva fama! Queste parole le udiva e riferiva D. Turchi Giovanni.

 

 

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