Capitolo 69

Terzo ampliamento della fabbrica dell'Ospizio - Parole di D. Bosco nella sera del 15 maggio - Tristi presentimenti - Tre Ave Maria recitate nel dormitorio di San Luigi - Caduta del fulmine - Rovine e protezione del cielo - Una celia singolare - Ringraziamenti - Complimento del Can. Anglesio Insulti e menzogne giornalistiche - La caduta di un voltone - Sogno grazioso: Importanza di un ospedale per l'Oratorio - Le iscrizioni sotto il nuovo Portico volto a levante.

Capitolo 69

da Memorie Biografiche

del 30 novembre 2006

Don Bosco aveva risoluto di ampliare il suo Ospizio e aveva designati i lavori da eseguirsi. La piazzetta di casa Filippi, fiancheggiata dalle due ali già descritte, doveva essere incorporata in quel edifizio con un grosso muro, il quale avrebbe sostenuti due piani alti come quelli conservati della casa vecchia: e un terzo piano, cioè un salone destinato per lo studio lungo 35 metri e largo 8; e qualche altra stanza. Il braccio dell'Oratorio a Levante, parallelo alla chiesa di S. Francesco di Sales, sarebbe stato raddoppiato in larghezza con portici a levante, camerata al secondo piano, una camera per Don Bosco al terzo, avente due finestre una al sud, e l'altra all'est, e attiguo un vasto stanzone per la biblioteca; e in ultimo soffitte abitabili. L'antica stanza del Servo di Dio diverrebbe saletta d'aspetto per i visitatori. Il nuovo portico doveva mettere ad un gran scalone, che avrebbe occupato lo spazio fra le due case (Pinardi e Filippi) pel quale scendere nei sotterranei o cantine e salire alla biblioteca, alle camere ed allo studio.

D. Bosco aveva stabilito questo suo progetto col capo mastro Carlo Buzzetti, e il 15 maggio fra le due parti venne stretto il contratto per queste costruzioni. Buzzetti doveva accingersi subito all'opera.

Ma era destino che sul principio di ogni ingrandimento della casa, dovessero accadere gravi disgrazie. Pareva che la buona condotta di tanti giovani e lo zelo dei Superiori pel loro benessere religioso e morale, fossero intollerabili all'inferno, il quale perciò, permettendolo Iddio, tentava di prenderne aspra vendetta. E così accadde anche questa volta come siamo per dire. La nostra narrazione è desunta con esattezza dagli scritti di D. Bonetti Giovanni, di Don Ruffino Domenico, di Reano Giuseppe, di Enria Pietro e di altri testimoni.

Era la sera del 15 maggio. “ D. Bosco, scrisse Enria Pietro, prima di mandarci a dormire ci disse: - Pregate e tenetevi sempre preparati alla morte, che può venire da un momento all'altro. Vedete: tutti i giorni succedono disgrazie; chi cade da grande altezza, chi è aggredito da assassini, chi muore annegato, chi per sincope e chi resta colpito dal fulmine.... e chi in altra maniera; ma se siamo preparati, non dobbiamo aver paura della morte comunque avvenga. - Sembrava che D. Bosco presagisse qualche male, e fece recitare in quella sera tre Ave Maria, affinchè non avvenissero disgrazie nella notte ”.

I giovani salirono alle loro camerate. Nel dormitorio intitolato da S. Luigi, all'ultimo piano del fabbricato volto a nord-est e a mezzogiorno e corrispondente in parte alla sottostante camera di D. Bosco, praticavasi, come negli altri, il mese di Maria. Era occupato da una sessantina di giovani artigiani ed il Ch. Bonetti Giovanni vi era assistente. Prima di coricarsi tutti si inginocchiarono dinanzi ad un altarino ornato di lumi e di fiori e dopo aver recitate secondo il solito 7 Ave Maria, in onore dei sette dolori della Santissima Vergine, il Ch. Bonetti, mosso, non sappiamo da quale sentimento, invitò i giovani ad aggiungerne tre altre, e disse: - Recitiamo ancora tre Ave Maria, affinchè la beata Vergine ci liberi da ogni disgrazia. - I giovani, come sorpresi da tale novità, le recitarono di gran cuore con lui; indi andarono a letto.

D. Bosco in quella sera non sapeva determinarsi ad andare a riposo. Salì le scale con evidente svogliatezza e quando fu in camera cominciò a scrivere. Ma non potendo reggere a quel lavoro per il male d'occhi, e ripugnandogli coricarsi, pensieroso passeggiò per la camera, finchè circa alle 11 si pose a letto. Si era appena addormentato e gli pareva sentirsi tirar per i capelli in modo da sembrar quasi che glieli strappassero. Sognava d'avere molte bestiaccie intorno alla testa che lo mordevano. Egli s'industriava colla mano per liberarsi da quelle strette, ma non gli era possibile.

Poco dopo la mezzanotte e quando tutta la Comunità era immersa nel primo sonno, si solleva un gran temporale, e prende a guizzare il lampo e a rumoreggiare il tuono spaventosamente. Rossi Giuseppe era compagno di camera con Giuseppe Reano in una delle stanze presso quella di D. Bosco, dalla quale li divideva una piccola biblioteca. Rossi, che alle 12 e mezzo non aveva ancora potuto chiudere occhio, svegliò Reano, dicendogli: - Senti?…- Reano gli rispose: - Hai troppa paura: dormi, dormi tranquillo.

- E si voltò sull'altro fianco, prendendo di bel nuovo, sonno.

Ma trascorso appena un quarto d'ora si fece udire vicinissimo un formidabile rimbombo, che scosse dalle fondamenta la casa, la quale nello stesso tempo apparve come in mezzo alle fiamme. Poi tutto ritornò nelle tenebre e ne successe un sepolcrale silenzio, che durò poco più di un minuto. Ad un tratto si udì suonare il campanello nella camera di D. Bosco. Reano e Rossi esclamarono: - Ohimé! qualche disgrazia. - E vestitisi in fretta e alla meglio, acceso un lume, corsero ansiosi e tremanti.

Il povero D. Bosco in quel mentre passava un brutto momento. Il fulmine penetrava nel camino che scendeva nella sua camera, rompeva il muro, smuoveva la colonna del franklin, gettava a terra lo scaffale dei libri, rovesciava il tavolo e con esso quanto eravi sopra; e l'elettricità si appigliava al suo letto di ferro fuso, lo sollevava dal suolo più di un metro e lo trasportava verso il lato opposto, circondandolo di abbagliantissima luce.

Dopo alcuni minuti secondi ogni luce si spense e il letto battendo sopra un inginocchiatoio, piombò con tale impeto, che di rimbalzo D. Bosco ne fu gettato sul pavimento. Egli per alcuni istanti stette come fuori di sensi. A bella prima gli sembrò di essere sprofondato col suo letto nella sottostante sala di studio. Sedutosi per terra stanco per la commozione provata, toccando attorno, brancicava pietre, mattoni e calcinaccio. Alzatosi in piedi andò tentoni tastando qua e là, per conoscere ove egli si trovasse, con animo trepidante di precipitare in una buca o di rovesciarsi addosso qualche muro cadente. Come Dio volle, dopo alcuni passi ei toccò un quadretto e la piletta dell'acqua santa, che pendevano dal muro in capo del letto; si accertò allora di essere ancora in sua camera, e posta mano alla cordicella che scendeva da un lato, diede quella forte scampanellata che fece accorrere Reano e Rossi. D. Bosco, avviluppatosi in alcune coltri per ripararsi dall'aria fredda, e sedutosi sul letto, stava aspettando. Intanto col pensiero era corso a' suoi amati giovani, che dormivano nel piano superiore e li raccomandò alla Beata Vergine.

Giunsero Rossi e Reano abbattuti dal timore che Don Bosco ne avesse avuto danno, ma quando furono vicini al letto egli li guardò sorridendo e disse loro con tutta tranquillità e placidezza: - Guardate che cosa vi è in mezzo alla camera. - Ivi egli aveva udito un gran rumore e ne voleva sapere la causa. E Roano vide cinque o sei mattoni neri per la fuliggine caduti con impeto strano giù dal camino. Allora fatto egli ai due giovani breve cenno di ciò che gli era accaduto, aggiunse colla solita giovialità: Malcreato di un fulmine! Senza chiamar permesso entra in mia camera, mette tutto sossopra, getta il letto da una parte e me dall'altra. Bisogna farlo stare a tavola di punizione. Neh Rossi? Oggi non gli darai la pietanza! -

Mentre queste cose succedevano nella stanza di D. Bosco nel sovrastante camerone degli artigiani vi era un maggiore e più doloroso disordine. Il fulmine, caduto sul frontone a mezzogiorno del dormitorio aveva gettati nel cortile due fumaioli. Fu in parte danneggiato il tetto; sicchè in alcuni punti si vedeva il cielo; e tegole, mattoni e calcinaccio caddero sopra i letti. Descrivere la comune costernazione è impossibile. Chi piange, chi geme, chi invoca la Madonna, chi chiama D. Bosco, chi fugge, chi cade; pareva il finimondo.

Al fragore ed allo schiamazzo il Ch. Bonetti Giovanni balza di letto atterrito, ed acceso il lume, che erasi spento, incominciò a passare da un letto all'altro per recare i primi soccorsi. Ma vedendo alcuni giovani coperti di macerie ed uno fra gli altri per nome Giulio Perroncini che pareva morto, inviò tosto il giovane artigiano Giacomo Ballario ad avvisare D. Bosco del caso sinistro ed ad invocarne l'assistenza e l'aiuto.

”E D. Bosco? Così dice di lui Reano Giuseppe nel suo manoscritto lasciato a D. Bonetti. “ D. Bosco non aveva ancor finito di parlare con me e con Rossi, quando si ode battere furiosamente alla porta. Apro e mi si presenta il giovane Ballario, che per l'affanno appena poteva parlare: - Reano, mi disse, per carità avvisi tosto D. Bosco e venga presto nella nostra camera; è caduto il fulmine il soffitto è precipitato sopra i giovani e una buona parte son morti.

” D. Bosco avendo udito in confuso le riferite parole, mi chiamò nuovamente, e mi interrogò che cosa fosse successo. Saputa la cosa: -Oh mio Dio! esclamò egli con un'espressione che schiantava il cuore; ma voi voleste così, o Signore, e io adoro i vostri decreti! - E poi ordinò: - Va subito a vedere, ritorna immediatamente, e rendimi informato. - Io corro di sopra e appena metto il piede nella camerata sento un odore di zolfo intollerabile; avanzandomi odo strida di voci, gemiti e pianti. La camerata era lunghissima con due file di letti. Or bene, più di due terzi del soffitto era crollato. Inoltrandomi verso il fondo del dormitorio trovai di peggio; alcuni giovani mandavano sangue dal volto; alcuni storditi dalla scossa elettrica sembravano imbecilli, il giovane Modesto Davico aveva la faccia come abbronzata. Un calzolaio, distinto suonatore di tromba, per nome Giovanni Vairolati, fuori dei sensi era sostenuto sul letto, e spruzzato di acqua da due compagni che tentavano inutilmente di farlo rinvenire; egli pareva moribondo. Altri non ostante il gran tafferuglio, non muovevansi e sembravano morti.

” Allora tornai da D. Bosco per renderlo consapevole di ciò che aveva veduto, ed egli che in quel frattempo aveva già potuto vestirsi, con una tranquillità che mi sorprese, si avviò immediatamente al luogo del disastro.

” Saliva le scale quando un giovane gli venne incontro e gli disse: -È caduto il fulmine e una trentina di giovani sono morti.

- Va ad osservare meglio, gli rispose D. Bosco.

” Dopo un'istante lo stesso giovane ritornò in fretta: - I morti sono solamente sette od otto.

- Ritorna a vedere replicò D. Bosco. - Ed entrò in dormitorio con volto imperturbato, sorridendo e facendo animo a tutti: - Non abbiate paura, disse; abbiamo in cielo un buon Padre ed una buona Madre che vegliano a nostra difesa ”.

Al vederlo i giovani respirarono come se fosse entrato un angelo consolatore. Quelli che erano già alzati corsero dintorno a lui. Egli si fece al letto di coloro che parevano più malconci e tosto si accorse che il male non era come dapprima gli avevano annunziato. Si trattava solo di scalfiture e stordimenti. Quindi mandò subito a pigliare acqua ed aceto e di propria mano lavò le ferite e lividure dei colpiti. Accostatosi poscia al giovane Vairolati, tuttora immobile lo chiamò due o tre volte ad alta voce e il poveretto, che fino allora non aveva ancora aperto gli occhi, nè formulata una sillaba, li schiuse, diede un lungo respiro, e con voce stentata sì, ma abbastanza intelligibile, disse: Oh! D. Bosco! - Poco dopo egli rinveniva affatto e si univa ai compagni.

D. Bosco passò infine al giovane Perroncini, che rimaneva tuttavia immobile nel suo letto. Era timore di tutti che egli fosse fulminato, e niuno perciò aveva sino allora osato di scuoterlo, forse temendo di dover constatare che ci fosse cadavere. Fatto accostare più dappresso il lume, D. Bosco esaminò e vide che il povero giovane era ferito alla faccia, e che una piccola scheggia di canna, mescolata colle macerie del caduto soffitto, eragli penetrata nella guancia, e spuntavagli fuori presso la palpebra inferiore dell'occhio destro. Provò di estrarnela colla punta delle dita, ma non riuscì a pigliarla; domandò allora un paio di forbici, e con queste, usate a guisa di pinzette, ne la cavò. A quest'atto il creduto morto si scosse, e immaginando di essere molestato da un compagno, diede un pugno a D. Bosco, gridando in dialetto piemontese: - Cattivaccio! Lasciami dormire! - La gioia di cui gli astanti andarono ricolmi all'udire questa voce e questa espressione, è più facile a pensare che a descrivere; tutti e D. Bosco con loro diedero in uno scroscio di risa, pel piacere che provavano nell'essere assicurati appieno, che in tanto disastro non vi era vittima alcuna.

Il lavoro per medicare i giovani durò circa un'ora e quando Don Bosco fu accertato che la vita di tutti erane salva, sfogò un affettuoso Deo gratias e disse: - Ringraziamo di cuore il Signore e la sua SS. Madre! Siamo stati preservati da un gran pericolo! Guai se prendeva fuoco la casa! Chi avrebbe potuto salvarsi? - E innanzi all'altarino della camera si recitarono le litanie di Maria SS.

Ciò fatto quantunque fossero appena suonate le due, i giovani di quel dormitorio non vollero più rimettersi a letto e scesero con D. Bosco in chiesa. Rimase il solo Don Alasonatti per finir di curare, chi ne aveva ancor di bisogno e disporre poi i necessari provvedimenti. Intanto tutti quei artigiani si confessarono, assistettero alla S. Messa celebrata da D. Rua e fecero la Santa Comunione. Alle cinque del mattino, al segno della levata comune i compagni delle altre camerate si meravigliarono di vedere tanti giovani in cortile; e si affrettarono a discendere. - Avete sentito nulla stanotte? - dicevan gli artigiani agli studenti, - Che cosa è avvenuto ? - risposero questi. Nei loro dormitorii e nelle celle avevano tutti tranquillamente dormito. E gli artigiani raccontavano le vicende e le emozioni provate in quella notte; e andavano ripetendo: - È proprio la Madonna da noi pregata ieri sera che ci ha salvati.

D. Bosco finiva intanto di confessare gli ultimi artigiani ed ecco sopravenire gli studenti, sicchè puossi dire che vi fu una comunione generale, celebrando verso le sette la messa lo stesso D. Bosco. - Fu uno spettacolo commovente, - ci disse il Can. Anfossi.

Rientrato in sua camera il servo di Dio, i chierici andarono a visitarlo per assicurarsi che non avesse sofferto e li ricevette paternamente col solito sorriso sulle labbra: - È la terza volta, disse loro, che il fulmine si dà la briga di molestarmi. Le prime due volte ho sofferto alquanto, perchè durante un dato tempo non poteva leggere o scrivere a lungo, senza sentirmi assalito da un importuno assopimento, del quale però guarii, facendo gite a quanto forzate. Ma la scossa di questa notte temo che sarà molto più perniciosa alla mia sanità. Eppure glielo detto al fulmine quando scoppiò: - Almeno un po' più di garbo! -E poi soggiunse: - Questa è una grazia delle più grandi, che la SS. Vergine Maria ci abbia ottenute dal Signore.

Di ciò ne ebbe prova evidente poco dopo, salendo ad esaminare i guasti della notte. La volta del dormitorio era di assi coperta con uno strato di canne legate con fili di ferro, inchiodate, e intonacate di calcina. Ora il fulmine serpeggiando lungo i suddetti fili li aveva consumati, e la maggior parte delle stoie incalcinate erano cadute in varii luoghi e in larghi lastroni senza far grave male a nessuno. Gli stessi benefattori e gli amici che vennero lungo il giorno a visitare quel guasto, dicevano che secondo ogni probabilità il fulmine avrebbe dovuto fare un macello dei giovani; ed andavano via magnificando la bontà di Dio e della Vergine.

Dopo il pranzo D. Bosco era nel cortile sotto il portico circondato dai chierici e dagli studenti e narrando il fatto e attribuendolo al demonio, ripeteva, celiando: - Quel grossiere non conosce le regole di buona educazione ed è molto villano: dà dei crolloni da slogar le ossa. In fatto poi di musica è uno stupido; non sa fare la battuta e ignora l'armonia: batte fuor di tempo e fa un fracasso della malora, da rompere le orecchie persino a quei che dormono.

Dello stesso parere fu il Can. Anglesio il quale si rallegrò con D. Bosco per la caduta del fulmine, dicendogli: - Patente avuta dal diavolo di essergli nemico. Essere quel fatto a lui, più gradito, che se D. Bosco avesse ricevuto qualche segnalato favore o fortuna dagli uomini.

E in quei dì alcuni giornali malevoli, annunziando la caduta del fulmine sopra la Casa di D. Bosco, si compiacevano di spandere ai quattro venti che vi erano stati dei morti. La Gazzetta del Popolo, gli scrittori della quale il l'8 maggio avevano con una lettera avvertito D. Boscochè si guardasse bene dal continuare a dar tanto scandalo colle sue opinioni retrograde, e che procurasse di essere più Italiano, mal celando l'astio che nutriva verso l'Oratorio, per non averlo potuto far chiudere l'anno innanzi, col solito suo gergo sconvenevole ed empio, nel N. 139, lunedì 20 Maggio 1861, pubblicava queste maligne e menzognere parole:

“ Nella notte da lunedì a martedì scorso il fulmine cadeva, indovinate un po' dove? Proprio su quel vivaio d'infelici, che il teologo Bosco (il moderno Loriquet famoso per la sua storia d'Italia tutta viscere per l'Austria) raccoglie dalle campagne ed istruisce secondo i suoi principii per popolare il paese di baciapile.

”Uno di quelli infelici allievi periva, altri rimanevano feriti. Se si fosse trattato di un collegio liberale, i preti avrebbero esclamato: “Ecco il dito di Dio ”.

 ”Avendo un po' più di rispetto per quel dito, noi non gli daremo mai il torto di un omicidio ”.

“ A questo proposito, scrive D. Bonetti, notiamo solo di passaggio che la liberale Gazzetta pubblicava queste linee e in Torino e sei giorni dopo il fatto accaduto, cioè, dove e quando aveva avuto cento occasioni di conoscere appieno la verità. Ma per certi giornali la bugia è loro vita, e la bestemmia e calunnia è loro mestiere e guadagno. In quanto poi agli insulti, onde allora coperse l'Oratorio, ora colle prove lampanti dinanzi agli occhi del mondo, siamo in grado di risponderle che quelli baciapile e infelici di D. Bosco, istruiti in un arte o mestiere od avviati allo studio, menano oggidì vita onorata in mezzo alla società, e lieti tutti dell'avuta educazione, quali distinti industriali, quali avvocati, quali professori, quali graduati nell'esercito, quali sacerdoti esemplari, sono utili a se stessi ed ai loro fratelli; anzi non pochi di loro generosi e prodighi dei proprii agi e persin della vita, penetrarono già nella Patagonia, portando la luce della religione e i benefizi della civiltà a tribù barbare e selvagge, facendosi così veraci benefattori della povera umanità. Noteremo ancora che un certo numero ottenne le più alte dignità nella Chiesa, nella magistratura, e nel Governo dello Stato. Abbiamo quindi molte ragioni di credere che il dito di Dio in quella notte e in appresso sia stato con noi, ed invitiamo la Gazzetta ad avergli davvero un po' più di rispetto ammirandone gli alti portenti ”.

La domenica di Pentecoste 19 maggio, dopo il vespro e la predica, si cantava un solenne Te Deum al quale prendevano parte i giovani interni ed esterni dell'Oratorio e molti benefattori. Ma ciò non bastava per i protetti da Maria SS. La caduta del fulmine aveva eccitato in alcuni dei Superiori dell'Oratorio il desiderio che D. Bosco facesse mettere sulla casa un parafulmine e gliene fecero parola: - Sì, rispose egli, e vi collocheremo una statua della Madonna. Maria ci parò così bene dal fulmine, che noi commetterremmo una ingratitudine, se confidassimo e ricorressimo ad altri che a Lei.

Ma la sua protezione mostrossi visibilissima in quest'anno un'altra volta. Carlo Buzzetti dava mano alle nuove costruzioni a lui affidate e spingeva i lavori con tanta alacrità, che nel mese di novembre l'opera era compiuta. Si doveva ancora ordinare il sotterraneo destinato a cantina, quando rovinò in gran parte una larga volta di questa presso lo scalone. Era di pieno giorno e vi lavoravano quattro muratori a togliere l'armatura. Uno rimase sospeso in aria su di un travicello, sul quale avanzandosi a cavalcione, potè giungere al vano dì una finestra. Un altro si trovava in un angolo sul quale un pezzo di volta non si staccò. Il terzo fu salvato da una trave che gli cadde quasi sopra, ma che restando appoggiata al muro gli servì di riparo. Il quarto fu preso sotto le rovine e rimase sepolto. Al rombo prodotto da quel conquasso si accorse da ogni parte. Temevasi che il quarto muratore fosse schiacciato e morto sotto il peso dei rottami. Con gran trepidazione si incominciò a rimuoverli. Grazia singolare di Maria! fu estratto senza alcuna ferita grave. Le poche contusioni in breve guarirono e la sua sanità non ebbe nocumento.

D. Bosco pure, saputa la cosa, si era affrettato ad accorrere, ci significò Anfossi, ma incontrandosi con Buzzetti, che già veniva a riferirgli non esservi accaduta nessuna disgrazia, sorridendo, al suo solito, disse: - Il demonio ha voluto ancora mettere la sua coda; ma avanti e niente paura.

Qualche notte dopo questa rovina D. Bosco fece un sogno che gliene ricordò un altro fatto nel 1856, quando erano cadute le volte del secondo corpo di fabbrica. Gli era sembrato di essere in camera sua pensoso per quella catastrofe, e vide entrare il Can. Gastaldi, il quale gli disse: - Non si affligga se le è caduta una casa.

D. Bosco lo fissò in volto, meravigliato di quella parola, e il Canonico per un istante guardò lui; e poscia replicò: -Non s'affligga per una casa che è caduta; ne sorgeranno due: una per i sarti e una per gli ammalati.

D. Bosco si ricordò sempre di questo sogno e di questa promessa, persuaso che col tempo sorgerà, attigua all'attuale Oratorio una casa ospedale, grande o piccola non importa, ma provvista di tutto il necessario che dovrà servire per i salesiani e per i giovanetti infermi.

D. Bosco negli anni passati e nel corso degli anni seguenti si lamentava che la necessità o gravi convenienze lo costringessero a mandare una parte de' suoi ammalati ai pubblici ospedali. Sorvegliavano gli Amministratori, i Direttori, i medici, le suore ed anche il cappellano; ma purtroppo l'immoralità, l'irreligione di certi infermi è causa di scandalo.

Basti un fatto. Il giovanetto Enria moriva nel 1886 nell'ospedale di S, Giovanni. Gli infermi che erano nei letti intorno al suo, con frizzi, con discorsi disonesti avevano incominciato a tentarlo, ma egli che temeva il Signore, non diede loro retta e solo rispose: - So nulla di ciò che dite! - Qui fu uno scoppio di risa di quei malvagi. Avendo egli chiesti i Sacramenti incominciarono nuovi scherni; ma egli: - Io non disturbo voi e voi non dovete disturbar me: ciascuno pensi a se stesso.

Ricevuti i conforti della religione con molta pietà, incominciava ad entrare nell'agonia; e allora i suoi vicini, bestemmiando il Signore, andavano ripetendogli: - Hai invocato il Signore, sei stato buono ed ecco come egli ti esaudisce! Muori, muori! anche tu come tutti gli altri, sotto terra a marcire! A che cosa ti ha giovato aver mandato a chiamare il prete?

Il giovanetto non rispose. Ma sentendosi mancare, disse all'infermiere: - Chiamatemi qualcheduno, che mi reciti le preghiere: avvisate mio fratello; (che era al servizio di quell'Ospedale) io muoio! -E siccome nessuno gli suggeriva qualche preghiera e il fratello tardava a venire, strinse il crocifisso e prese a recitare il De profundis. Prima che finisse il salmo era spirato.

D. Bosco adunque giudicava doversi costrurre un edifizio apposito per gl'infermi dell'Oratorio e della Pia Società, ma il suo desiderio non potè essere soddisfatto e affidava l'effettuazione del suo intero progetto alla divina Provvidenza. Ultimata la nuova fabbrica, sotto il nuovo portico volto a levante, D. Bosco fece stampare sul muro le seguenti iscrizioni:

 

I. Tu es petrus, et super hanc petram aedificabo Ecclesiam meam, et portae inferi non praevalebunt adversus eam. Matt. Cap. XVI, 18. ”

Tu sei Pietro, e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte dell'inferno non avran forza contro di lei.

 

II. Viam aquilae in coelo, viam colubri super petram, viam navis in medio maris, et viam viri in adolescentia. Prov. Cap. XXX, 19.

La traccia dell'aquila nell'aria, la traccia di un serpente sulla pietra, la traccia di una nave in mezzo al mare, così la traccia dell'uomo nell'adolescenza.

 

III. Nemo adolescentiam tuam contemnat: sed exemplum esto fidelium, in verbo, in conversatione, in charitate, in fide, in castitate. I. ad Tim. Cap. IV, 12.

Nessuno disprezzi la tua giovinezza; ma sii tu il modello dei fedeli nel parlare, nel conversare, nella carità, nella fede, nella castità.

 

IV. Ossa ejus implebuntur vitiis adolescentiae ejus et cum eo in pulvere dormient. Job. Cap. XX. II.

Le ossa di lui saranno imbevute de' vizii di sua giovinezza, i quali giaceranno con lui nella polvere.

 

V. Bonum est viro, cum portaverit jugum ab adolescentia sua. Jer. Thren. Cap. 111, 27.

Buona cosa è per l'uomo l'aver portato il giogo fin dalla sua adolescenza.

 

VI. Confiteberis vivens, vivus et sanus confiteberis et laudabis Deum et gloriaberis in miserationibus illius. Eccl. Cap. XVII, 27.

Vivo darai a Lui laude, vivo e sano darai laude e onore a Dio e ti glorierai di sue misericordie.

 

VII. -Et baptizabantur ab eo in Jordane, confitentes peccata sua. Matt. Cap. 111, 6.

Ed erano battezzati da lui nel Giordano, confessando i loro peccati.

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