È aperto il Collegio di Borgo S. Martino. - D. Francesco Cerruti Direttore ad Alassio - L'obbedienza premiata - Consigli di Don Bosco ai Salesiani sul modo di prestarsi nell'esercitare il sacro ministero per le persone estranee e senza danno di un collegio - Don Bosco ad un professore che ha male alla gola annunzia che, non potendo essere insegnante, sarà scrittore - Il Ministro dell'istruzione Pubblica limita l'insegnamento della religione nelle scuole comunali a que' soli alunni, i parenti dei quali lo richiederanno - Effetti dell'istruzione religiosa, insegnata da Don Bosco colla voce e coll'esempio - Artigiani che si fanno onore in società - Il Catechismo negli oratorii festivi - Letture Cattoliche: STORIA ECCLESIASTICA - Don Bosco dispone il personale insegnante e dirigente nelle varie case - Congeda un caro alunno che va in seminario - Confidenza degli ex - alunni Seminaristi in Don Bosco - Entrano nell'Oratorio due Gerosolimitani e altri Algerini - Morte di un buon coadiutore e di un chierico nell'Oratorio - Biografia di Giuseppe Villa, confondatore della conferenza annessa di S. Vincenzo de' Paoli - L'assedio di Parigi.
del 05 dicembre 2006
Don Bosco aveva fatto pubblicare i programmi dei singoli collegi, identici per gli interni. Da Mirabello era stata trasportata ogni masserizia a Borgo S. Martino, dove i giovanetti rimanevano incantati nel trovare, a brevissima distanza dalla ferrovia, un magnifico palazzo, vasti cortili, deliziosi boschetti e viali ombrosi. Anche Mons. Ferrè, Vescovo di Casale, che aveva accordata la sua protezione al Collegio e al quale i genitori potevano rivolgersi per l'accettazione dei figli, provò una grande soddisfazione la prima volta che andò a visitare l'istituto, continuandolo a riconoscere come suo piccolo seminario.
Don Francesco Cerruti era andato ad aprire la nuova casa di Alassio in qualità di Direttore. Era così debole che temeva di morire nel viaggio. - Va! - gli disse Don Bosco, come ebbe udite le sue giuste osservazioni. Don Cerruti partì: nelle prime ore gli sembrava di andare quasi in deliquio: ma dopo aver viaggiato in ferrovia fino a Savona e di qui in carrozza disagiata, per sette od otto ore, fino ad Alassio, giunse in collegio, sentendosi in piene forze. Un giorno Don Bosco gli disse:
 - Quando abbia da raccontare come vir obediens loquetur victoriam, non hai da andar a cercare gli esempi nei libri.
Gli aveva dato varii consigli che D. Cerruti espose in questo modo: “ Gli premeva soprattutto che i Salesiani si prestassero in aiuto del parroco del luogo ove esisteva la casa, desiderando che ivi si facesse ciò che facevasi nell'Oratorio di Torino. Mi ricordo a questo proposito di aver udite da lui le seguenti parole: - Prèstati volentieri e sempre, quanto potrai, senza però che ne possa soffrire l'ordine nel tuo collegio. - Una volta poi gli domandai, come dovessi regolarmi intorno alle dimande di messe che si chiedevano, soprattutto dai villeggianti e famiglie signorili. Mi rispose: - Accetta per prima cosa dove l'elemosina è minore: prima la parrocchia, poi le confraternite e le altre chiese più frequentate dalla popolazione; in ultimo, se potrai, per le case private dei signori e dei villeggianti. - Come pei catechismi, così voleva che si prestassero i suoi figli spirituali per la predicazione e per le confessioni, ma sempre subordinatamente ai doveri imposti loro dal Collegio ”. Il ch. Giovanni Garino doveva raggiungere D. Cerruti nel collegio di Alassio, destinato all'ufficio di Catechista. Egli si trovava all'Oratorio, indisposto per un mal di gola, che da tempo era tornato a tormentarlo. “Un giorno, egli raccontò, prima di partire per la mia nuova destinazione, passeggiando con Don Bosco e dicendogli che mi rincresceva di non poter più attendere a fare scuola, ei mi rispose: - Ebbene, quando non potrai più fare tanta scuola, scriverai! - Io non feci allora gran caso di questa ultima parola, ma essa si è avverata; e ripreso, quando fui alquanto guarito, un po' d'insegnamento, mi trovai condotto a scrivere e pubblicare alcune operette, secondochè pare accennasse Don Bosco colla parola scriverai ”.
Mentre Don Bosco si adoperava a fondare collegi cristiani, era tolto l'insegnamento della Religione alle scuole. Il Ministro Correnti ordinava nel 1870 ai Consigli scolastici e ai Comuni di provvedere che l'insegnamento religioso fosse dato a quei soli alunni, i genitori dei quali avessero dichiarato essere questa la loro volontà. Invero in quasi tutti i Comuni, i padri di famiglia domandarono che si proseguisse a dare l'insegnamento religioso; anzi molti protestarono al Ministero contro certi Municipii che avevanlo arbitrariamente abolito. È impossibile educare la gioventù senza i dieci comandamenti e il santo timor di Dio, unico freno alle umane passioni.
E Don Bosco cercava di opporsi ai mali preveduti, per quanto poteva, coi catechismi nelle scuole e in chiesa nelle domeniche. Coll'istruzione religiosa fioriva nell'Oratorio la pietà, utile ad ogni cosa. Questa non si imponeva, ma le si dava quotidiano alimento, nella comune preghiera, nella S. Messa, nella frequente confessione e comunione, negli acconci sermoncini d'ogni sera prima del riposo. Don Bosco aveva di questi il talento e la speciale eloquenza. “ Io l'udii, scrisse alcuni anni dopo Mons. Reggio, Vescovo di Ventimiglia, nella sua casa di Torino e ammirai la turba dei giovani, che avresti detto gli rapissero le parole di bocca. Ameno insieme e profondo, sapeva infondere la sapienza, cui egli definiva: L'arte di ben governare la Propria volontà. Arte siffatta era davvero in lui: e prima la voleva nell'educazione della gioventù, e poi nelle lettere, onde egli era eccellente maestro. Perchè, quanto era semplice e modesto, altrettanto si palesò esperto nella pedagogia e nella controversia messa a portata del popolo”. E conchiudeva: “ Don Bosco è un santo! ”
Di buoni libri Don Bosco faceva fare brevi ma frequenti letture nella giornata. Dopo la messa a mo' di meditazione, in tempo di pranzo e di cena per un breve tratto di dieci o di quindici minuti, di nuovo cinque o sei minuti prima di uscire dalla sala di studio, e di nuovo in camerata durante i cinque o dieci minuti in cui ciascuno si coricava, sempre si faceva lettura di libretti educativi scelti con molta cura. Gutta cavat lapidem... Quei buoni pensieri caduti sull'anima del giovinetto tre, quattro, cinque volte al giorno pel corso di quattro, cinque, sei anni di collegio, era impossibile non lasciassero traccia di sè e non dessero frutto di sano pensare e di virtuoso operare per tutta la vita.
Era l'istruzione religiosa che rendeva Don Bosco padrone dei cuori, poichè, sorridente e buono, insegnava rispetto, amore ed umiltà verso di tutti.
In lui gli alunni vedevano il modello delle virtù insegnate dal catechismo. Rendeva amabilissimo Don Bosco l'essere sempre pronto a render servizio ai grandi ed ai piccoli della sua casa, in ogni occasione d'importanza o meno, poichè come nostro Signore Gesù Cristo pensava: Non veni ministrari sed ministrare. Cento fatti lo attestano; qui ne aggiungiamo uno che ci viene alla memoria, narratoci da uno dei nostri confratelli sacerdoti:
“ Una mattina mi vestii per la messa nella sagrestia di Maria Ausiliatrice: aspetto il serviente, ma niuno si presenta, essendo l'ora alquanto tarda. Don Bosco che aveva celebrato e faceva lì presso il suo ringraziamento, si alza, si avvicina e mi dice:
” - Che cosa aspetti?
” - Il serviente.
” - Vieni, vieni che te la servo io. - Io esitava, non voleva che si incomodasse, ma non ci fu verso e prese il messale. Allora partii; si andò all'altare di S, Pietro e mi servì la messa fino all'offertorio, quando venne a sostituirlo un chierico ”.
Il suo esempio e il suo sistema educativo rendevano i giovani dell'Oratorio affezionatissimi ai loro Superiori. Qualunque di essi, anche semplice chierico, quando compariva nel cortile era subito attorniato da un gran numero di piccoli amici. Molti di costoro non temevano di palesare ai loro superiori le loro mancanze, e talora confidavano ad essi persino i segreti della loro coscienza, mentre in tempo di ricreazione si passeggiava sotto i portici.
Narra D. T... che una volta, essendo egli alunno della terza ginnasiale, passeggiando con molti altri a canto di Don Cagliero, gli disse: - Domani è domenica e stasera tra la scuola di musica e quella di cerimonie non ho ancor potuto confessarmi.
 - Ebbene, gli rispose D. Cagliero, confèssati qui.
E il giovane, continuando a passeggiare, mentre i compagni non smettevano fra loro i vivaci e scherzevoli discorsi manifestò a D. Cagliero ciò che potea fargli pena per averne consiglio. E i compagni non si stupirono perchè erano soliti a fargli essi stessi simili confidenze.
Nè la famigliarità era a danno della riverenza, perchè il catechismo insegna: Obedite praepositis vestris.
Anche gli artigiani, trattati ed educati a pari degli studenti, dimostravano colla loro condotta l'efficacia dei principii religiosi imparati. Lealtà ed onestà era il loro carattere, e molti furono i giovani che fecero grande onore all'Oratorio colla loro condotta, allorchè ne uscirono. Perciò l'essere stati educati da Don Bosco era per loro la miglior raccomandazione per essere accettati nelle fabbriche, nelle botteghe, o in altri uffizii. I padroni venivano essi stessi a chiedere a Don Bosco i giovani operai.
La direzione delle strade ferrate li ammetteva volentieri al suo servizio. Varii falegnami per la loro abilità, operosità e virtù, ebbero subito cinque lire al giorno, che furono poi aumentate di molto: e furono amatissimi dai Superiori. Un giovane ex - allievo, assunto in un ufficio di contabilità, trovò quivi un biglietto smarrito di 2, 50 lire. Si affrettò a consegnarlo al suo capo, il quale gli chiese:
 - Dove avete studiato?
 - Da Don Bosco!
Il giorno dopo la sua paga mensile era elevata da 60 lire a 120.
Dalla cassa forte di una caserma fu sottratta una somma cospicua. Varie disgraziate circostanze pareva indicassero come ladro un nostro fabbro - ferraio che era soldato. Egli si protestò innocente. Era tale la sua condotta virtuosa, che il colonnello e gli altri uffiziali non ebbero alcun dubbio sulla sua innocenza, ma non ne avevano le prove: e per un mese intero, per l'affetto che gli portavano, fecero le più attive ricerche, e finalmente il vero colpevole venne scoperto e condannato.
Ancora un fatto. Un giovane di forze erculee, arruolato nell'arma dell'artiglieria, mentre era in piazza d'armi per la rivista, si sente chiamare per nome dal generale, che gli dice: Tu sei stato educato da Don Bosco?
 - Sì, signor generale.
 - Vuoi essere mio attendente? Volentieri.
Dopo tre mesi il generale andava a riposo e il giovane fu nominato caporale. Sempre fedele alle pratiche religiose, per sedici anni fu sergente e finì con essere comandante in una fortezza di frontiera. Di là scriveva:
“ Benedetta la casa di Don Bosco dove io ho imparato ad obbedire. Quanti miei commilitoni, insofferenti della disciplina militare, e anche delle leggi morali, io vidi condannati alla carcere, alle compagnie di punizione, alle reclusioni, e taluni alla fucilazione. Io, memore degli insegnamenti della Dottrina cristiana, non ebbi mai alcuna punizione, seppi far sempre con esattezza il mio dovere, sopportare, tollerare, e soffrire anche in pace. Così giunsi ove sono, e benedico Don Bosco che mi ha insegnato ad obbedire ”.
Come questo bravo soldato, e per gli stessi motivi, fecero fortuna un numero incalcolabile di poveri giovanetti. Divenuti proprietarii e capi di fabbriche e botteghe, negozianti, impiegati in uffici lucrosi, vivono signorilmente colle loro famiglie. Il santo timor di Dio vale pur qualche cosa anche in ordine ai vantaggi temporali.
E che diremo dei catechismi che si facevano dai collaboratori di Don Bosco negli Oratorii festivi, per tanti anni, a migliaia di figli del popolo? Dal racconto di uno di questi si può dedurre la storia di un'infinità di altri che, in gran parte, di religione nulla ancora sapevano e divennero eccellenti cristiani, onore della società. È il racconto di un ritorno all'ovile.
La pecorella smarrita ero io.
Allevato in una famiglia dove, anche per le più elementari pratiche religiose si nutriva, se non una vera e propria ostilità, almeno una fredda indifferenza, io crescevo quasi nella ignoranza dei sublimi precetti del Vangelo di Cristo; e, se bene mai io mi sentissi compiutamente tetragono ai conforti spirituali della nostra Santa Religione, pur tuttavia la concepivo come una somma di pratiche fastidiose e seccanti, e la temevo come si temono le cose che si ignorano, e come gli studenti ginnasiali temono le lezioni di latino e di greco. Avevo un vago sentimento di ciò che fosse la Divinità, di ciò che fosse la Fede, di ciò che dovevano essere i doveri del cristiano, ma nella mia mente, ancor tenera ed ingenua, queste rudimentali e primitive speculazioni filosofiche rimanevano assai facilmente soverchiate dai piccoli e futili avvenimenti della vita quotidiana.
Un giorno - non ricordo come - qualche amico mi condusse in un Oratorio Salesiano. Mi dissero che ci si divertiva molto, che regalavano dei dolci, che c'erano bensì da sopportare le funzioni religiose, ma poi c'era lo spettacolo teatrale che era sempre molto bello. Io allettato dalla visione di questa piccola terra promessa vi corsi con grande giubilo e con grande aspettazione.
E tutte le domeniche io era là nell'Oratorio, dalla mattina alla sera. Mi trastullavo coi piccoli amici, giuocavamo ad ogni sorta di giuochi, fra cui erano però preferite le esercitazioni ginnastiche, nelle quali ci erano compagni gentili ed affettuosi i buoni chierici, che compromettevano per qualche momento l'austerità della loro nera veste per unirsi a noi nel far girare le giostre, o nel giuocare a barra rotta. E naturalmente, assistevo anche, forse con poca compunzione o con pochissimo raccoglimento, alle funzioni religiose. Dopo la Messa c'era la predica, fatta con savi criteri di semplicità, e questa riusciva ad interessarmi un poco. Nel pomeriggio poi aveva luogo l'insegnamento della dottrina cristiana. Io era stato ammesso ad una delle classi inferiori, dove si insegnava la parte più elementare del catechismo...
Poco per volta avanzai di classe in classe, finchè giunsi alla prima, e poi a quella cosidetta degli adulti. Intanto veniva insensibilmente formandosi in me la coscienza religiosa. Continuavo a divertirmi, ma cominciavo a pensare, cominciavo a ragionare sugli insegnamenti che ricevevo alla scuola di catechismo; le funzioni religiose non mi tediavano più, anzi le desideravo ed attendevo con impazienza: durante il loro svolgimento la mia mente non vagava più, non si distraeva più, ma si concentrava nella meditazione e nella preghiera umile e commossa. Io nasceva alla vita dello spirito.
L'ambiente mi prendeva, mi assorbiva, mi conquistava. La squisita bontà di quegli eccellenti Salesiani mi commoveva, le loro cure, le loro attenzioni, le loro gentilezze, le loro parole generate dalla Fede e dalla Carità mi attraevano a loro, come l'insetto è attratto verso la luce. Quando ero con loro mi pareva di respirare un'aria più pura, mi pareva di sentirmi meglio, le preoccupazioni della vita quotidiana scomparivano come per incanto, io mi sentivo felice in mezzo a loro, come in una grande famiglia dalla quale mi venisse consiglio, affetto, protezione.
Giunto alla classe degli adulti, che è come il senato dell'Oratorio, gl'insegnamenti dei principi religiosi divennero più gravi, più profondi, più complessi. Io li ascoltavo con attenzione: mi sforzavo di comprenderli e di assimilarli: la fede nella suprema Verità rivelata da Cristo cominciava a impadronirsi del mio spirito. E più io meditava e più la mia fede si rafforzava ed ingigantiva: io cominciavo a sentirmi pervaso dalla sublime felicità che dà la coscienza della Fede.
Parecchi anni, frequentai quell'Oratorio: credo cinque o sei. Poi la vita mi afferrò e mi strappò dalle mie dolci consuetudini domenicali. Ma non dimenticai. E più che nella mente è nel cuore che mi rimane il ricordo di quei bei giorni della mia giovinezza in cui, con mirabile semplicità, e con la formidabile efficacia dell'esempio, mi fu insegnato ad esser buono ed onesto, mi fu insegnato ad amare Iddio ed il mio prossimo.
D. B.
 
 
Pei giovani e per il popolo altra cattedra, o fonte d'istruzione religiosa, erano i fascicoli delle Letture Cattoliche.
Il fascicolo di luglio era la Biografia del giovane Giuseppe Mazzarello, scritta dal sac. Giov. Battista Lemoyne, direttore del Collegio S. Filippo Neri in Lanzo Torinese. Il Venerabile, come si è detto, aveva letto ed esaminato attentamente il fascicolo e suggerito alcune variazioni. È la vita di un giovane, che dopo varie vicende difficoltà, veste l'abito chiericale e muore santamente.
Il fascicolo di agosto e settembre: Virginia Anselmi o il modello delle vedove Cristiane, del P. Alfonso M. Pagnone, Barnabita. Questa santa donna è presentata come esemplare da imitarsi, alle fanciulle, alle spose, alle madri di famiglia, eziandio nel contegno da lei tenuto nel visitare i figli in collegio.
Per ottobre: Storia ed atti del Concilio Ecumenico Vaticano fino alla Quarta sessione. In appendice si riportava una poesia in esametri e pentametri sul gran Concilio, scritta da Giuseppe Rossi, con versione in terza rima del Can. Bernardino Quattrini.
Per novembre e dicembre Don Bosco regalava a tutti gli abbonati copia della nuova edizione della sua Storia Ecclesiastica. Era un volume di 464 pagine. Nella prefazione, prima di tutto, si leggeva questa dichiarazione: “ Questa operetta venne già più volte stampata; ma le ultime edizioni, non essendosi fatte nè col consenso nè coll'assistenza dell'autore, incorsero in non piccole variazioni ed anche errori. Laonde io non posso riconoscere per mia, se non la presente ristampa, che si può chiamare novella compilazione ”. In fine, insieme con uno sguardo allo stato della Religione, e con alcuni ammaestramenti tratti dalla Storia Ecclesiastica,
Don Bosco aveva aggiunto un ragguaglio sul Concilio Vaticano, particolarmente della quarta sezione, riportando per disteso il canone dell'Infallibilità Pontificia.
Mentre dava ordini per le Letture Cattoliche e per i volumetti della Biblioteca della Gioventù Italiana, stabiliva il personale per l'Oratorio, per i quattro Collegi e gli Oratori festivi, vestiva dell'abito clericale i nuovi ascritti alla Pia Società, aspiranti al sacerdozio, e congedava pel Seminario quelli che avevano risoluto di ascriversi al clero secolare, dando loro salutari consigli. Uno di questi, il chierico Luigi Spandre, di Caselle, oggi Vescovo e Principe di Asti, pose in iscritto le parole del Venerabile.
L'ho sempre impresso il ricordo datomi il mattino di quel giorno in cui, lasciato l'Oratorio, stavo per entrare in Seminario diocesano. Dopo essermi confessato: “ Mi potresti servir la Messa, mi disse, potrebbe forse essere l'ultima ”. Troppo onore, gli risposi, ma l'ultima spero di no. E nol fu davvero, perchè tante altre ancora gliene servii da seminarista e da sacerdote.
Celebrata la Messa e spogliate le sacre vesti: “ Inginocchiati, mi disse, chè voglio ancora darti la mia benedizione ”. E, dopo avermi benedetto, tenendo e premendo la sua santa mano sul mio capo: “ Ricordati, Luigi, se coll'aiuto di Dio diventerai Sacerdote, quaere lucrum animarum et non quaestum pecuniarum ”. Quelle parole, accompagnate dal suo sguardo penetrante, mi scesero così al cuore da non dimenticarle mai più. Esse furono per me tutto un programma, furono come la rivelazione d'un sublime e salutare ideale; programma e ideale di quell'uomo di Dio, per cui fu mai niente tutto il resto, standogli a cuore la salvezza delle anime: Da mihi animas, caetera tolle.
Quanta venerazione, quanta riconoscenza e quanto amore sono sempre in cuor mio pel Ven. Don Bosco!
Eguali erano i sentimenti della maggior parte de' suoi alunni che entravano in Seminario. Molti, avvicinandosi il tempo delle sacre ordinazioni, venivano all'Oratorio per manifestare la loro coscienza all'antico padre dell'anima loro e a chiedergli consigli. Ci disse Mons. Muriana, ex - allievo e Curato a S. Teresa in Torino, che per questo motivo nel 1867 si recò con dieci seminaristi a confessarsi da Don Bosco.
L'Oratorio rigurgitava di alunni e ad essi se ne aggiunse qualche altro venuto dall'Asia e dall'Africa. Il 5 ottobre entravano nell'Oratorio, raccomandati dal Patriarcato di Gerusalemme Smain Siam Jioseph di Mustafà e di Esce, artigiano, di anni 30, e Smain Giovanni Maria di Giuseppe e di Rufisce, studente, di anni 12. Ambedue Gerosolimitani. Non si fermarono però lungo tempo, ma fecero testimonianza del diffondersi della fama di Don Bosco, anche dalle loro parti.
Il 31 ottobre quattro nuovi algerini, anche essi appartenenti alla tribù dei Kabìli, e rimasti orfani nel tempo della gran carestia, entravano nell'Oratorio. Erano mandati da Mons. Lavigerie, Arcivescovo d'Algeri e da lui raccomandati a Genova a D. Vincenzo Persoglio, Rettore di S. Torpete. Avevano già ricevuto il santo Battesimo, tre anche il sacramento della Cresima. Si chiamavano Allel Antonio, Seid Augusto, Adel Kader Cierre di Pierre, e Siamma Agapito.
Accolti festosamente da quelli che li avevano preceduti, due furon messi a studiare, perchè desiderosi di tornare alla loro patria ad annunziare il Vangelo ai loro fratelli.
Ma due perdite in que' giorni faceva l'Ospizio di Valdocco. Don Rua scriveva nel necrologio.
 
Delloro Carlo da Intra moriva il 23 ottobre in età di 61 anno. Uomo serio e solitario. Sue prerogative erano un grande amore alla preghiera, , ai SS. Sacramenti, ad ogni esercizio di pietà, e l'esatta occupazione del tempo. Gli avveniva talvolta di non poter dormire durante la notte: egli balzava da letto e tosto occupavasi nella preghiera o nella lettura di qualche libro di pietà. La sua rassegnazione nella lunga malattia recava edificazione a tutti. Ricevette più volte in essa i SS. Sacramenti, di cui era bramosissimo.
Bertola Giovanni da Castellamonte moriva il 27 novembre, in età di 19 anni. Ottimo chierico. La sua diligenza nello studio gli fece percorrere in pochi anni il corso ginnasiale, e la sua esemplarità gli apri l'entrata alle varie pie associazioni che sonvi nell'Oratorio. Anzi, distinguendosi fra i compagni, fu accolto eziandio come aspirante alla Società di S. Francesco di Sales. Nella sua malattia, desideroso di consacrarsi tutto a Dio, fece privatamente i voti religiosi al sig. Don Bosco. Morendo presentò al suo Creatore tanto più bella l'anima, quanto più deforme lasciava il corpo.
Moriva pure in Torino, nel fiore dell'età, Giuseppe Villa, uno de' più antichi allievi che frequentava costantemente l'Oratorio festivo, e D. Rua ce ne lasciò una cara memoria.
Villa Giuseppe nacque in Ponderano di Biella il 10 dicembre 1836. Fin da bambino dimostrò un'indole severa e disciplinata. Fece gli studi elementari nel paese, ove fu sempre attento ed assiduo tanto, da essere sovente proposto dal maestro a modello agli altri scolari.
Sventurate circostanze privarono la famiglia de' mezzi necessari per far continuare gli studi al piccolo Giuseppe; e affinchè avesse di che campare onoratamente la vita, si dovè pensare a dargli un mestiere. Compì pertanto il suo tirocinio da calzolaio nella città di Biella, e vi lavorò, con edificazione di quanti lo conoscevano, sino all'aprile del 1855.
Conosceva per fama sin d'allora la casa dell'Oratorio di San Francesco di Sales in Torino, ove molti giovanetti, pure artigiani come lui, erano educati santamente nella religione e nel lavoro. Desideroso di far parte di questi fortunati, almeno quale esterno, chiese licenza di recarsi a Torino al padre, il quale all'insistente domanda acconsentì a malincuore, temendo che i cattivi compagni dissipassero in breve la soda educazione, che aveagli procurata in lunghi anni. Prima di lasciarlo partire gli rivolse calde ed affettuose parole, tracciandogli il tenore di vita che dovrebbe tenere in faccia al mondo, quando fosse lontano da' suoi occhi; e dopo di avergli raccomandato la santificazione delle feste, la fuga dei perversi compagni, conchiuse dicendogli: “ Bada bene, figlio mio, di questi giorni partono migliaia di soldati per la Crimea, questi vanno a porre a repentaglio la loro vita; tu, andando a Torino, così giovane, vai nella tua Crimea: se farai tesoro delle mie parole, sarai savio e prudente e buono di cuore, trionferai del mondo e ti formerai un tenore di vita che ti renderà felice nella presente vita e nell'eternità: se al contrario dimenticando i miei avvisi seguirai la corrente guasta che domina nelle grandi città, comincerà per te una serie di sventure che non avranno fine ”. Queste parole restarono così impressse nel cuore del buon Giuseppe, che le tenne sempre per sua guida, e vi furon mai nè minaccie, nè lusinghe che lo potessero far deviare dal sentiero tracciatogli dal padre.
Quando fu a Torino, sua prima cura fu di mettersi in conoscenza colla casa dell'Oratorio di S. Francesco di Sales, e specialmente coll'egregio Direttore di essa. E ben tosto pose tanta affezione a codesta casa che ne fece il luogo di sua delizia, e per ben sedici anni di seguito venne a passare tutte le feste, non che quel tempo che gli rimaneva libero dalle sue occupazioni ne' giorni feriali. Fu membro fondatore della Conferenza annessa di S. Vincenzo de' Paoli nel 1856, e dall'ora in poi pose in questa tutte le sue cure.
Molti incidenti edificantissimi si trovano nella sua vita privata; ma debbonsi passare sotto silenzio, perchè toccano persone ancor viventi che non amano di essere segnalate.
Dirò qualche cosa della sua ultima malattia. Maturo pel cielo egli non sapea parlar d'altro che di distacco dal mondo, di amore di Dio, delle bellezze del Paradiso, della caducità della vita e di simili cose, che palesavano il suo cuore già pieno di Dio. Si ammalò il 26 ottobre 1870 con leggera febbre accompagnata da grande stanchezza. Tenne il letto, ma sempre ilare in volto, sereno nello spirito. Andava dicendo agli astanti: - Oh! la mia malattia sarà di pochi giorni; o io guarisco, o il Signore mi prende con sè.
Fedele sempre alle ordinazioni del medico, si accorse che nondimeno le medicine avevano poco effetto, e che però poco aveva a sperare salute.
Pertanto rivolse tosto tutti i suoi pensieri all'anima. Chiamò al letto persona di sua confidenza, e la pregò di dirigersi all'Oratorio di S. Francesco di Sales, per raccomandarlo alle orazioni di tutti i giovanetti ivi raccolti e segnalatamente del caro Direttore, e per pregare questo in pari tempo a volersi recare da lui ad ascoltare la sua ultima confessione. Questo avvenne il 29 ottobre, e di quel giorno stesso fu appagato il suo desiderio. Da quel giorno egli attese sempre ad aggiustare ogni suo affare, come chi debba partire per lontano paese.
Il male si aggravò sempre più, ma egli, sempre rassegnato ai divini voleri, non si lasciò mai sfuggire parola di lamento o d'impazienza. Morì della morte dei giusti.
Intanto si avveravano le predizioni fatte da Don Bosco nel gennaio. Appena recata a Parigi la notizia del disastro di Sedan, i Capi del partito repubblicano, eccitato il popolo a tumulto contro il Governo Napoleonico, acclamarono la repubblica, e il 4 settembre avevano formato il Governo della difesa nazionale. L'Imperatrice Eugenia, reggente, ai primi moti repubblicani, era partita da Parigi, e si ritirava in Inghilterra col suo unico figlio, prendendo stanza nella modesta residenza di Chislehurst. Quivi la raggiungeva Napoleone, lasciato libero dall'Imperatore Guglielmo, dopo sette mesi di prigionia. Il nuovo Governo sì accinse con grande ardore a proseguire la guerra e fece venire nella Capitale della Francia 300.000 soldati, erigere nuove fortificazioni, e, per togliere ripari al nemico e ostacoli al tiro dei proprii cannoni, abbattere un gran numero di villeggiature, alberghi in gran parte di vizii e di corrutele che erano fuori delle mura. Gli incendii dei Comunardi altrove avvamparono in città. Ed ecco le parole di Don Bosco: “ Parigi, Parigi... Invece di armarti del nome del Signore, ti circondi di case d'immoralità. Esse saranno da te stessa distrutte ”.
I Prussiani, riposatisi per due giorni dalle fatiche di Sedan corsero con 250.000 soldati e 904 cannoni ad assediare Parigi. Incominciato l'assedio, cadevano in mano di altri eserciti prussiani, forti di oltre 200.000 uomini, il 20 settembre la città di Strasburgo dopo lunga e sanguinosa resistenza, e il 29 ottobre la fortezza di Metz con 170.000 soldati, 800 bocche da fuoco di posizione, 607 cannoni di campagna e 300.000 fucili.
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