Preparativi per l'invasione degli Stati Pontifici - Scopo finale della rivoluzione - Garibaldi alla testa de' volontarii; è fermato e condotto a Caprera - I Garibaldini passano la frontiera; combattimenti - I disegni delle sette svelati - Disastrosa e orribile sommossa preparata in Roma - Le mine - Avvisi di un amico perchè siano impediti spaventosi disastri - Roma tranquilla -Vigilanza della Polizia Pontificia - Garibaldi a Firenze - La Francia si muove in aiuto del Papa - L'insurrezione in Roma repressa.
del 14 dicembre 2006
La festa della Madonna del Rosario, che ricordava le splendide vittorie della Madre Celeste sopra i nemici della Cristianità, era una caparra che Ella si sarebbe mossa nuovamente in aiuto della Chiesa e del Vicario di Gesù Cristo, se i fedeli fossero ricorsi a Lei con fede. Era giunto il tempo delle spine predetto da D. Bosco. I preparativi di un'invasione negli stati Pontificii erano palesemente incalzati con tutta alacrità. La setta aveva forze poderose, perchè maneggiava quelle dello Stato, risoluta di procedere a qualunque costo, finchè non fosse condotta a termine l'impresa.
Il disegno era semplice. Una sommossa in Roma aiutata dalle bande esterne di Garibaldi; l'intervento dell'esercito regio per rimettere l'ordine; un plebiscito che proclamasse l'unione di Roma al regno d'Italia.
Nella Federazione Italiana, scritta da Giuseppe Ferrari, si leggeva:
“ La rivoluzione alle porte di Roma non è che la guerra contro Cristo e contro Cesare. Non equivoci, non incertezza e confuse dottrine semi-cattoliche, semi-cristiane, semi-pontificali. Adori pure chi vuole in casa propria i suoi idoli, i suoi penati; la religione della rivoluzione è quella che divinizza l'uomo, la sua ragione, i suoi diritti dalla chiesa disconosciuti e insultati ”.
Premesso questo esordio, il Ferrari tracciava il programma dei fatti d'arme, onde Roma era cinta, per opera aperta dei Garibaldini e per opera occulta dei ministri italiani residenti in Firenze.
“ 1° Guerra al Pontefice, avendo l'Europa intimato a Roma una guerra di religione: nè noi potremo avanzare di un passo, senza rovesciare la croce.
” 2° Guerra ai Re! Imperocchè il clero per sè non ha forza, è nullo, ma può tutto ed è tutto col favore de' principi e de' monarchi; chi lavora per i Re lavora per la ristaurazione della Chiesa. Cristo, Cesare, il Papa, l'Imperatore ecco le quattro pietre sepolcrali dell'Italiana libertà.
” 3° L'irreligione e la legge agraria, ecco l'ultimo termine del progresso. Per irreligione intendo la progressiva propagazione della scienza, che si sostituisca alle favole del culto, alle contraddizioni fatali della metafisica.... ”.
Garibaldi, tornando da Ginevra, passava per Firenze e ricevute le istruzioni dal Governo e dal Comitato rivoluzionario giungeva a Sinalunga per capitanare i volontarii. Violavasi così la Convenzione, e Napoleone fece sapere al Ministro Rattazzi che avrebbe rioccupato Roma colle sue truppe, se Garibaldi pervenisse ad impossessarsi del territorio rimasto al Papa. Rattazzi promise di reprimere colla forza quell'attentato: e il 23 settembre fe' arrestare, ma con ogni riguardo, il generale; che condotto prima nella cittadella d'Alessandria e poi a Genova, il 27 fu portato a Caprera.
Una flotta di otto o nove legni di guerra accerchia l'isoletta per impedirgli di tornare in terra ferma, e trenta mila uomini in pieno assetto di guerra sono disposti sui confini della Toscana e dell'Umbria per tenere indietro i volontarii. A questo fine due altre navi volteggiano lungo le costiere di Civitavecchia. Con queste misure si sperava di tenere a bada la Francia, e coi tumulti della plebaglia nelle principali città del regno, promossi e repressi, si volle persuaderla che tutta la nazione parteggiava per quell'impresa.
Il 29 settembre, per gli ordini lasciati da Garibaldi, le prime squadre dei suoi giannizzeri invasero la provincia di Viterbo senza ostacolo da parte delle regie truppe, che li vedevano passare tra le loro file. Queste avanguardie erano di 50, 100, 200 combattenti, ma ben presto furono seguite da bande di 800, 1000 uomini e pi√π. Le comandavano Deputati al parlamento, uffiziali dell'esercito regolare in congedo, e due figli di Garibaldi.
Povere borgate di frontiera! I Garibaldini ovunque entravano, vuotavano le casse comunali e governative, imponevano contribuzioni, comandavano provviste di vettovaglie, saccheggiavano i conventi e le chiese con orrendi sacrilegi e commettevano altri atti di violenza. Spezzati gli stemmi papali e i busti di Pio IX, proclamavano il Governo provvisorio sotto la dittatura di Garibaldi.
I Pontificii, che in tutto il territorio non erano più di 4000 tra le varie armi e sparsi in molti luoghi, si raggruppavano in piccole schiere, correvano ove era apparso il nemico, tre o quattro volte più numeroso di loro; lo respingevano, e tornavano alle loro stazioni per ripartire e correre a nuove difese. Dal 29 settembre al 26 ottobre quasi non passò giorno senza scaramucce e sempre nella zona dei confini, poichè gli invasori non osavano penetrare nell'interno; e quasi sempre sconfitti fuggivano a precipizio gettando via le armi e rifugiandosi dietro le regie truppe.
Nell'interno dello Stato Pontificio si viveva in perfetta quiete e nella provincia di Frosinone più di 1000 paesani in arme erano pronti ad unirsi ai soldati per respingere gli assalti degli invasori. Roma aveva appena forze bastevoli alla guardia in tempo di pace, ed alcune volte erano diminuite di un terzo per mandare rinforzi nelle provincie. Eppure non si vide un atto di ribellione, e circa 700 cittadini avendo chieste armi a custodia del Papa, le ebbero tosto. Tanta era la fiducia che il Governo aveva ne' 'sudditi! Lo stesso Pontefice Pio IX tutti i giorni recavasi per le vie della città in mezzo al suo popolo, riverito e benedetto dalla folla.
Con tutto ciò i giornali di Firenze annunziavano che gli Stati Pontifici erano in piena rivolta, chiamavano insorti i Garibaldini, inventavano per loro continue e strepitose vittorie, denigravano i zuavi colle calunnie più atroci, e descrivevano Roma colle vie irte di barricate difese disperatamente dagli insorti.
Sta il fatto però che fin dai primi di settembre s'era deciso di far insorgere Roma contro il Papa, per agevolare l'ingresso a Garibaldi. Capo della congiura era Francesco Cucchi, Bergamasco, deputato al Parlamento, cui era stata commessa una gran quantità di danaro che profondeva a piene mani. Astuto e prudente, aveva ai suoi cenni poco più di una decina di scherani di alto affare, parte fuorosciti, parte felloni domestici. Sotto la guida di costoro militavano i satelliti della giunta insurrezionale, ai quali si aggiunsero brigate, scelte tra la plebe viziosa, rifiuto delle prigioni.
Dei Romani se ne erano raggranellate poche centinaia, che giovavano a ricettare nelle loro case i congiurati forestieri i quali sommavano a più centinaia, quantunque accorsi alla spicciolata e forniti di legittimi passaporti. Questi con mille precauzioni si introducevano in città, e intanto distribuivano in varii punti fissati armi in gran copia, da fuoco, da taglio, da punta. Possedevano anche molte bombe orsiniane, nascoste nei sotterranei, e gran copia di ordigni per scassinare le porte dei palazzi.
Ma il pi√π ardente studio del Cucchi era posto all'opera delle mine. Con Luigi Castellano di Pavia si aggirava in ogni sotterraneo e a sangue freddo studiava i siti ove stipare le polveri. Pieno di odio satanico, cercava l'occasione per riempire di rovine e di sangue la metropoli del Cattolicismo. Era suo feroce intento di minare e far saltare in aria le residenze d'ambasciatori, i Dicasteri Pontifici, e tutte le caserme, anche quelle degli Svizzeri al Vaticano, sotto l'appartamento abitato dal S. Padre Pio IX; e qualche piazza, se ivi le truppe campeggiassero.
Infine, comprata una mezza dozzina d'artiglieri, gli unici traditori in tutta la guerra, addetti alla difesa di Castel S. Angelo, dava loro incarico di inchiodare i cannoni e d'incendiare la polveriera. Questa conteneva 16.000 chilogrammi di polvere, e, scoppiando, avrebbe avviluppato nelle rovine una compagnia di Zuavi e 300 Garibaldini prigionieri di guerra.
Contemporaneamente si sarebbero accesi trenta vulcani coinvolgendo nella strage un gran numero di povere famiglie, e la distruzione di chi sa quanti gloriosi monumenti i
In abituri fuor di mano il Cucchi faceva distribuire le paghe ai congiurati, minacciando di pugnale chiunque tradisse il segreto o si mostrasse timido nell'eseguire gli ordini. Ivi erano continue le conventicole dei caporioni, e i propositi sanguinarii. Si era deciso di aprir le carceri e liberare i malfattori, di dar l'assalto al palazzo della Pilotta e di uccidere il Ministro della guerra col suo stato maggiore e gli uffiziali radunati nel loro casino, e mettere a morte i Capi del Governo civile ovunque si trovassero. Si sarebbero anche consegnati ai sicarii il numero delle case di que' cittadini che dovevano essere uccisi. Erano risoluti di permettere il saccheggio universale con ogni violenza ed ignominia, di macellare sacerdoti e Cardinali, assalire il Vaticano e far prigioniero il Papa. Si sarebbero rinnovate le orribili scene del '93 in Francia.
Questo racconto risulta dai processi che vennero fatti, ma ci contentiamo della testimonianza del generale Alfonso La Marmora, il quale colla sua Lettera Politica agli elettori di Biella pubblicata nella Gazzetta di Firenze il 29 gennaio 1868, asseriva che le ore di questa sommossa, se fosse riuscita, avrebbero fatto inorridire il mondo civile. E a questo proposito dichiarava, come avesse deplorato e deplorasse vivamente i fatti che si erano compiti riguardo lo Stato Pontificio con grande detrimento del paese, cioè dell'Unità Nazionale; e nel caso di una rivoluzione in Roma soggiungeva: - “ Non è forse a temere di una lotta sanguinosa, che potrebbe terminare con qualche orrenda catastrofe e che è interesse di tutti e massime dell'Italia di evitare? ”
Queste preoccupazioni erano divise anche da taluni del partito liberale al Governo, i quali conoscevano i terribili segreti della congiura. Benchè si desiderasse un'insurrezione, non si voleva un eccidio. Fra gli stessi settarii ve n'erano alcuni inorriditi di ciò che doveva succedere, i quali sebbene nascostamente per l'audacia dei partiti estremi, volevano incolume Roma senza incorrere nelle loro vendette.
Dopo le feste del Centenario di S. Pietro, quando incominciarono ad apparire i primi segni dei moti rivoluzionarii, Don Bosco n'ebbe immensa pena e pel suo affetto verso il Pontefice e l'Eterna Città, sentiva vivissimo desiderio di potere in qualche modo da loro stornare i pericoli imminenti.
Ed ecco, mentre egli predicava a Trofarello il primo corso d'esercizi spirituali, fra le altre lettere a lui dirette un giorno il postino ne portò una non affrancata, che passava il peso ordinario. Bisognava pagar la tassa e la sovratassa e quindi pensavasi di rifiutarla, quando parve meglio di rimettere anche quella a D. Bosco. D. Bosco l'ebbe e l'aperse. Era un foglio di carta grossa da impannate, in cui era esposto minutamente il piano dei gravi disastri preparati a Roma dalla congiura. Non era sottoscritto, ma gli si diceva di servirsi pure di quelle manifestazioni come credesse bene, ed anche di mandarle al Papa.
Chi era lo scrivente? Nol sappiamo! Il Venerabile lesse quel foglio e inorridì rilevandone subito la gravità e i pericoli che sovrastavano a tanti suoi amici. Dopo averlo fatto copiare da persona fidata, lo distrusse; e preavvisato un suo amico di Roma gli mandò quella copia. Questi ne fece una seconda copia, e, stracciata la prima, la fece pervenire al Cardinale Antonelli e al Pontefice. Altre lettere anonime, con notizie precise, esattissime, giunsero al Servo di Dio, il quale le trasmise con prudenti precauzioni.
 Mons. Berardi, per cagione del suo ufficio, avuto sentore di tale carteggio, desiderò che a lui direttamente venissero consegnati que' dispacci. Fu contentato, ed egli in gran segreto comunicavali al Governo Papale: servizio importantissimo, che gli affrettò la porpora. Il Ministro della Guerra e il Direttore della Polizia aspettavano da Monsignore giorno per giorno, con vive ansietà, nuove notificazioni; ed egli il1°' ottobre faceva scrivere a Torino:
“ Roma e noi siamo tranquilli, benchè in guerra viva, giacchè mentre scrivo si combatte coi Garibaldini. Abbiamo notizie di vittorie nostre con morti e feriti e furti e altro accompagnamento solito di bande armate. Ma si sta tranquilli e fidenti come se nulla fosse, come se in Roma fosse ogni assicurazione. Il fatto è questo. La ragione del fatto a vero dire non la so, giacchè tutto è possibile. Ma si vive, come se fosse impossibile affatto ogni danno a Roma. Justus ex fide vivit; vogliamo sperare che sia questo il testo a proposito.
” Le lettere anonime che arrivano in doppia copia, cioè in copia, sono ottime e preziose e desidero che continuino a venire ”.
Oltre il suddetto anonimo vi era qualcun altro del partito liberale, alto locato, il quale, per incarico avuto, compieva un simile ufficio.
D. Michele Rua lasciò scritto: “ Io stesso per parte di D. Bosco ho avvisato parecchie volte il Santo Padre per mezzo de' suoi alti funzionarii delle congiure che si ordivano ora in una parte ed ora in un'altra, della stessa città di Roma, e fuori di essa. Senz'essere perfettamente sicuro della sorgente a cui D. Bosco attingeva tali notizie, parmi poter dire che un personaggio del Governo molto addentro nelle segrete cose della rivoluzione, veniva a quando a quando a colloquio confidenziale con D. Bosco e gli manifestava quanto si andava disponendo, espressamente perchè si prevenissero le disgrazie spaventose che minacciavano Roma. E D. Bosco con tutta premura, ora per sè, ora per mezzo mio o di altri, compieva la parte sua. ”
La cosa più urgente era impedire i lavori alle mine, una delle quali si preparava sotto il Collegio Romano posto nel centro della città. A Torino si seppe e si avvertì con dispacci in cifra; ma a Roma non si volle credere. Allora si fece pervenire al Card. Antonelli una lettera anonima che descriveva nettamente la cosa; e finalmente si ordinò una diligente visita e si trovò che i settarii avevano scavato un cunicolo che traversando il Corso doveva mettere nei sotterranei del Collegio Romano in mezzo al cortile.
La Polizia intanto e i magistrati e il Comando di piazza vigilavano, e dall'II al 21 ottobre, avute sicure indicazioni, sorprendevano e sequestravano in Roma e nelle vicinanze grossi depositi di armi, buon numero di bombe orsiniane, copioso fornimento di munizioni e di vettovaglie. E quasi tutti i giorni cadevano nelle loro mani masnadieri plebei e con essi taluno dei capi, con scritture e con carte topografiche nelle quali in colore eran segnate le mine, e con somme cospicue di danaro. In via Crescenzi la gendarmeria fu a un pelo di avviluppare in una sola retata tutta la congrega principale de' caporioni, sicchè i congiurati furono costretti a tramutarsi di giorno in giorno in nuovi ricoveri.
Garibaldi, non impedito dalla simulata vigilanza delle navi italiane, il 15 ottobre lasciava Caprera, e il 20 appariva in Firenze ove era accolto con feste. Alla notizia di questo ritorno si capì da tutti esser pronta una nuova spedizione negli Stati Pontifici e che le assicurazioni in contrario non erano veraci. Per questo la Francia si commosse talmente, che Napoleone, troncati gli indugi, comandò l'imbarco di due divisioni destinate alla difesa di Roma. Rattazzi, benchè avesse dato le dimissioni di Ministro, volendo prevenire l'arrivo dei Francesi e imbarazzare l'Imperatore con un fatto compiuto, mandò ordine al deputato Cucchi di insorgere ad ogni costo e subito; e promise a Garibaldi che dove riuscisse a trarre sessanta fucilate sopra Roma, l'esercito regio avrebbe francata la frontiera in suo aiuto.
Il Cucchi affrettava, come meglio potè, gli ultimi preparativi e fra le varie disposizioni ordinava di apprestare le mine sotto le caserme Serristori e Cimarra, di avvisare i traditori in Castel S. Angelo di dar fuoco alla polveriera ad un segno convenuto; di voltar le chiavi dei condotti maestri del gaz affinchè la città rimanesse al buio, e, ad accrescere la confusione, di vestire da Zuavi un certo numero di Garibaldini.
Per una possibile ritirata e per prolungare la resistenza, aveva fatto assegno di convertire in ridotti di rivoltosi diverse regioni della città dalle vie tortuose, con intrigo di vicoli e di chiassuoli, fra dieci o dodici isolati che si prestavano ad essere ostruiti con barricate.
Il 19 ottobre il Ministro della guerra era avvisato che i moti rivoluzionarii stavano per scoppiare. Il 21 si venne a sapere di un carico d'armi depositato a Villa Matteini, e fu sequestrato poche ore prima che le carabine fossero distribuite ai congiurati; sull'alba del 22 si ebbe certissima conoscenza della sommossa che doveva aver luogo alla sera.
Il Gen. Kanzler aveva dato ordini per la difesa: non aveva che tremila uomini, ma faceva assegnamento sulla fedeltà del popolo romano e sulla rapidità delle sue mosse per impedire le barricate. Aveva ripartito gli alloggiamenti in tutta la superficie di Roma, in guisa che ai posti strategici stazionassero i manipoli più forti. In quel giorno tutte le truppe furono ritenute in quartiere pronte a marciare. Eziandio il Cucchi era pronto, ma per fortuna la mina sotto la Cimarra non potè essere preparata e un operaio arrestato palesò l'imminente rottura dei condotti del Gazometro.
Alle 7 di sera i congiurati collocavano due barili di polvere sotto la caserma Serristori. Dato il fuoco, con orribile fragore saltò in aria un angolo dell'edifizio rimanendo schiacciati sotto le rovine ventisette Zuavi; era questo il segnale della sommossa. Tosto sbucarono a centinaia i congiurati, ma ovunque si avanzassero incontrarono grosse pattuglie di difensori. Vi furono scontri in quasi tutte le regioni della città, con morti da ambe le parti. Un'orda di prezzolati assaliva il corpo di guardia in Campidoglio e un'altra s'impadroniva dì porta S. Paolo; ma due riparti di truppa, volati al soccorso, le ponevano in fuga. Il Cucchi con ansia febbrile aspettava che scoppiasse la polveriera di Castel Sant'Angelo, ma invano perchè i traditori erano stati in tempo assicurati alla giustizia. In meno dì un'ora l'insurrezione fu repressa. Vennero arrestati più di cento sediziosi, mentre tutta la città, indignata e atterrita, applaudiva alle truppe. Così Roma era rimasta incolume.
“ E Pio IX, depose D. Rua, era pieno di ammirazione per D. Bosco, che fu la sua salvezza in que' giorni”.
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