Capitolo IV

Questo è il quarto quaderno vuoto che ho trovato in casa, l'ultimo; non proprio vuoto, a dire il vero, perché in fondo ci sono alcune pagine con vecchi esercizi di matematica di J. Ho deciso che questo sarà il limite delle mie annotazioni.

Capitolo IV

da L'autore

del 01 gennaio 2002

Questo è il quarto quaderno vuoto che ho trovato in casa, l’ultimo; non proprio vuoto, a dire il vero, perché in fondo ci sono alcune pagine con vecchi esercizi di matematica di J. Ho deciso che questo sarà il limite delle mie annotazioni. Non intendo cominciare a comprare quaderni apposta. Come argine al crollo totale, come valvola di sicurezza, questa cronaca è stata di qualche aiuto. Quanto all’altro fine che avevo in mente, ho scoperto che poggiava su un equivoco. Avevo pensato di poter descrivere uno stato, di fare una mappa dell’afflizione. Invece ho scoperto che l’afflizione non è uno stato, bensì un processo. Non le serve una mappa ma una storia, e se non smetto di scrivere questa storia in un punto del tutto arbitrario, non vedo per quale motivo dovrei mai smettere. Ogni giorno c’è qualche novità da registrare. Il dolore di un lutto è come una lunga valle, una valle tortuosa dove qualsiasi curva può rivelare un paesaggio affatto nuovo. Come ho già notato, ciò non accade con tutte le curve. A volte la sorpresa è di segno opposto: ti trovi di fronte lo stesso paesaggio che pensavi di esserti lasciato alle spalle chilometri prima. E allora che ti chiedi se per caso la valle non sia una trincea circolare. Ma no. Ci sono, è vero, ritorni parziali, ma la sequenza non si ripete.

Ecco, per esempio, una nuova fase, una nuova perdita. Cammino più che posso, perché sarei un idiota ad andare a letto non stanco. Oggi sono tornato a vedere vecchi luoghi familiari, in uno di quei lunghi giri in campagna che tanto amavo quando ero scapolo. E questa volta il viso della natura non era svuotato della sua bellezza e il mondo non sembrava (come lamentavo giorni fa) un vicolo grigio. Anzi, ogni orizzonte, ogni steccato, ogni macchia d’alberi, mi richiamava a una felicità antica, la mia felicità pre-H. Ma l’invito mi è sembrato orribile. La felicità alla quale mi chiamavano era insipida. Mi accorgo che non voglio tornare a essere felice a quel modo. Mi spaventa pensare anche solo alla possibilità di un semplice ritorno indietro. Perché questo destino mi parrebbe il peggiore in assoluto: raggiungere uno stato in cui i miei anni di amore e di matrimonio apparissero retrospettivamente come un gradevole episodio, una sorta di vacanza, che avesse per breve tempo interrotto la mia vita interminabile, per poi restituirmi immutato alla normalità. A poco a poco arriverei a sentirlo come irreale: come qualcosa di tanto estraneo alla trama consueta della mia storia da poter quasi credere che sia successo a un altro. E così H. mi morirebbe una seconda volta: un lutto peggiore del primo. Tutto, fuorché questo

Hai mai saputo, cara, quanto ti sei portata via andandotene? Mi hai spogliato anche del mio passato, anche delle cose che non abbiamo mai conosciuto insieme. Sbagliavo a dire che il monco ne si stava riprendendo dal dolore dell’amputazione. Mi ingannavo, perché i suoi modi di far soffrire sono così numerosi che io li vado scoprendo soltanto a uno a uno.

Però ci sono le due grandi conquiste mi conosco troppo bene ormai per chiamarle «durevoli». Rivolta a Dio, la mia mente non trova più quella porta sbarrata; rivolta a H., non trova più quel vuoto, e neppure tutte quelle ansie sull’immagine che la mia mente ha di lei. I miei appunti rivelano parte di questo processo, ma non tanto quanto avevo sperato. Forse nessuno dei due cambiamenti era veramente osservabile. Non c’è stata una transizione improvvisa, evidente, emotiva. Come il riscaldarsi di una stanza fredda o il sorgere del giorno: te ne accorgi quando tutto è cominciato già da un pezzo.

Queste note parlano di me, di H. e di Dio. In quest’ordine. L’ordine e le proporzioni sono l’esatto contrario di quelli che avrebbero dovuto essere. E vedo che in nessun punto mi è accaduto di rivolgermi all’uno o all’altra con quel modo del pensiero che chiamiamo lode. Eppure sarebbe stata, per me, la cosa migliore. La lode è il modo dell’amore che ha sempre in sé un elemento di gioia. Lode nel giusto ordine: di Lui come donatore, di lei come dono. Non godiamo forse un poco, nella lode, ciò che lodiamo, anche se ne siamo lontani? Devo farlo più spesso. Ho perduto la fruizione che un tempo avevo di H. E sono lontano, lontanissimo, nella valle della mia dissomiglianza, dalla fruizione che potrò forse un giorno avere di Dio, se la Sua misericordia è infinita. Ma con la lode posso ancora, in qualche misura, godere lei, e posso già, in qualche misura, godere Lui. Meglio che niente.

Ma forse è un talento che non ho. Vedo che ho scritto di H. che è simile a una spada. È vero, certo. Ma così, da sola, è un’immagine del tutto insufficiente e fuorviante. Avrei dovuto completarla con un’altra. Avrei dovuto dire: «Ma anche simile a un giardino. Simile a un giardino fatto di tanti giardini uno dentro l’altro, con muri che cingono altri muri, siepi che racchiudono altre siepi, e via via che ci si addentra, sempre più segreto, sempre più pieno di una vita fertile e fragrante».

E poi, di lei, e di ogni cosa creata che lodo, dovrei dire: «In qualche modo, in un modo che le è unico, simile a Colui che l’ha fatta».

E così risalire dal giardino al Giardiniere, dalla spada al Fabbro. Alla Vita vivificante e alla Bellezza che dà bellezza.

«È nelle mani di Dio». L’idea ha una nuova energia quando penso a lei come una spada. Forse la vita terrena che ho diviso con lei era solo parte del processo di tempratura. Ora forse Egli stringe l’elsa, soppesa la nuova arma, ne fende l’aria traendo ne saette. «Una vera lama di Gerusalemme».

C’è stato un momento, la notte scorsa, che può essere descritto per similitudini; non c’è altro modo per tradurlo in parole. Immaginiamo un uomo immerso nel buio assoluto. Egli è convinto di essere in un sotterraneo o in una segreta. A un certo punto si sente un suono. L’uomo pensa che venga da lontano: onde, o alberi agitati dal vento, o qualche animale laggiù nei campi. Ma allora non è in un sotterraneo: è libero, fuori, all’aperto. Oppure il suono è molto più lieve e vicino: una risata sommessa. Ma allora accanto a lui, nel buio, c’è un amico. In entrambi i casi, il suono è dolce, dolcissimo. N on sono così pazzo da credere che una simile esperienza sia prova di alcunché. E solo l’improvviso prender vita nell’immaginazione di un’idea che avrei sempre accettato in via teorica: l’idea che sia possibile, a me come a qualunque altro mortale in qualunque momento, formarsi un’opinione totalmente errata della vera natura della propria situazione.

Cinque sensi; un intelletto inguaribilmente astratto; una memoria che seleziona alla rinfusa; un bagaglio di preconcetti e di assunti così numerosi che non posso mal esaminarne se non un piccolo numero - mai aver coscienza di tutti. Quanta parte della realtà totale può lasciar passare una macchina simile?

Non intendo, se posso evitarlo, imboccare né la via sassosa né quella piana. Due concezioni diversissime fra loro mi assillano sempre più. Una è che l’Eterno Veterinario sia ancora più inesorabile e le operazioni possibili ancora più dolorose di quanto non presagiscano le nostre più terribili fantasie. Ma l’altra, che «tutto sarà bene, tutto sarà bene e ogni genere di cose sarà bene».

Non importa se tutte le fotografie di H. sono brutte. Non importa (non molto) se il mio ricordo di lei è imperfetto. Le immagini, sulla carta o nella mente, non sono importanti in sé. Sono solo agganci. Prendiamo un parallelo da una sfera infinitamente più alta: domattina un prete mi darà una piccola cialda rotonda, sottile, fredda e insapore. E uno svantaggio, o non forse in qualche modo un vantaggio, che questa cosa non possa ambire alla benché minima somiglianza con ciò a cui mi unisce?

Io ho bisogno di Cristo, e non di qualcosa che Gli somigli. Voglio H., e non qualcosa che sia simile a lei. Una fotografia veramente bella potrebbe alla fine diventare una trappola, un orrore, e un ostacolo.

Le immagini, devo supporre, hanno una loro utilità, o non sarebbero così diffuse. (Non fa differenza che siano dentro o fuori la mente, ritratti e statue oppure costrutti dell’immaginazione). Ma per me è più evidente il loro pericolo. Le immagini del Sacro diventano facilmente immagini sacre, sacrosante. La mia idea di Dio non è un’idea divina. Deve essere continuamente mandata in frantumi. Ed è Lui stesso a farlo. Lui è il grande iconoclasta. Non potremmo quasi dire che questa frantumazione è uno dei segni della Sua presenza? L’esempio supremo è l’Incarnazione, che lascia distrutte dietro di sé tutte le precedenti idee del Messia. I più sono «offesi» dall’iconoclastia; e beati quelli che non lo sono. Ma la stessa cosa accade nelle nostre preghiere private.

Tutta la realtà è iconoclastica. L’amata terrena, già in questa vita, trionfa incessantemente sulla semplice idea che abbiamo di lei. E noi vogliamo che sia così: la vogliamo con tutte le sue resistenze, i suoi difetti, la sua imprevedibilità. Ossia, nella sua realtà solida e indipendente. Ed è questo, e non un’immagine, o un ricordo, che dobbiamo continuare ad amare, dopo che è morta.

«Questo», però, non è immaginabile ora. H. e tutti i morti sono, in questo senso, simili a Dio. In questo senso amarla è diventato, nella sua misura, come amare Lui. In entrambi i casi devo tendere le braccia e le mani dell’amore (gli occhi qui non servono) verso la realtà, sforzando mi di superare tutta la mutevole fantasmagoria dei miei pensieri, delle mie passioni, delle mie fantasie. Non devo tenermi pago della fantasmagoria, e adorarla al posto di Lui, o amarla al posto di lei.

Non la mia idea di Dio, ma Dio. Non la mia idea di H., ma H. Sì, e anche non la mia idea del mio prossimo, ma il mio prossimo. Forse che non facciamo spesso questo errore con chi è ancora vivo, con chi è accanto a noi nella stessa stanza? Rivolgendo le nostre parole e le nostre azioni non all’uomo vero ma al ritratto, al riassunto, quasi, che ne abbiamo fatto nella nostra mente? E bisogna che lui se ne discosti in modo radicale perché noi arriviamo ad accorgercene. Nella vita reale (è una delle differenze tra la vita e i romanzi) le sue parole e le sue azioni, a osservarle bene, non sono quasi mai perfettamente «in carattere» con l’immagine che abbiamo di lui. N ella sua mano c’è sempre una carta di cui non sapevamo nulla.

Ciò che mi fa supporre di comportarmi in questo modo con gli altri è il vedere quante volte gli altri si comportano palesemente in questo modo con me. Ci illudiamo tutti di conoscerci l’un l’altro a menadito.

Ma anche tutto questo, forse, non è altro che un ennesimo castello di carte. E se è così, Lui me lo butterà giù di nuovo. E poi ancora, e ancora, tutte le volte che sarà necessario. A meno che, alla lunga, non mi si lasci perdere, come un caso senza speranza, a costruire palazzi di cartapesta all’Inferno, per sempre: «libero tra i morti».

Per esempio, sto semplicemente cercando di riappacificarmi con Dio perché so che, se c’è una strada che porta a H., passa attraverso di Lui? Però so anche benissimo che Lui non può essere usato come strada. Se ti avvicini a Lui come a una strada e non come alla meta, come a un mezzo e non come al fine, in realtà non ti stai affatto avvicinando a Lui. Era questo l’errore di tutti quei quadretti di gioiosi ricongiungimenti «sull’altra riva»: non l’ingenuità e la terrestrità dei particolari, ma il fatto che essi offrono come Fine ciò che noi possiamo ricevere solo come conseguenza del vero Fine.

Signore, sono dunque queste le tue condizioni? Potrò ritrovare H. solo s’e imparerò ad amarti al punto che non mi importerà più se la ritrovo o no? Considera, Signore, come questo appare a noi. Che impressione darei se dicessi ai ragazzi: «Niente dolci, ora. Però, quando sarete grandi e i dolci non vi interesseranno più, potrete averne quanti ne vorrete» ?

Se sapessi che essere diviso da H. per l’eternità e per l’eternità dimenticato da lei accrescerebbe la gioia e lo splendore del suo essere, è chiaro che direi: «Ci sto!». Così come, qui in terra, se il non rivederla mai più avesse potuto farla guarire dal cancro, avrei fatto in modo di non rivederla mai più. Non avrei potuto fare diversamente. Qualunque persona di coscienza farebbe lo stesso. Ma no, non va bene. La situazione in cui mi trovo ora è tutt’altra.

Quando pongo queste domande davanti a Dio, non ricevo nessuna risposta. Ma è un «nessuna risposta» di tipo speciale. Non è la porta sprangata. Assomiglia piuttosto a un lungo sguardo silenzioso, e tutt’altro che indifferente. Come se Lui scuotesse il capo non in segno di rifiuto, ma per accantonare la domanda. Come a dire: «Zitto, bimbo; tu non capisci».

Può un mortale fare domande che Dio trova senza risposta? Facilissimo, direi. Ogni domanda senza senso non ha risposta. Quante ore ci sono in ~n metro? Giallo è quadrato o rotondo? E probabile che buona parte dei nostri interrogativi - buona parte delle nostre grandi questioni teologiche e metafisiche - siano domande di questo genere.

E ora che ci penso, davanti a me non c’è nessunissimo problema pratico. Conosco i due grandi comandamenti, ed è ora che cominci ad osservarli. Anzi, la morte di H. ha messo fine al problema pratico. Finché era viva, avrei potuto, in pratica, anteporla a Dio; ossia avrei potuto fare la volontà di lei, invece che quella di Lui; se fossero state in conflitto. Quello che resta non è un problema che riguardi l’agire. Riguarda solo il peso dei sentimenti, delle motivazioni, e simili. E un problema che mi pongo io. Non credo che Dio c’entri per niente.

La fruizione di Dio. Il ricongiungimento con i morti. Entrambi non possono figurare nel mio pensiero se non come gettoni. Assegni in bianco. L’idea che ho della prima (se si può chiamarla idea) è un’enorme e rischiosa estrapolazione da alcune poche e brevi esperienze qui sulla terra. Probabilmente esperienze di assai minor valore di quanto io creda. Forse addirittura inferiori ad altre cui non bado nemmeno. L’idea che ho del secondo è anch’essa un’estrapolazione. La realtà dell’una o dell’altro - la riscossione dell’uno o dell’altro assegno - manderebbe probabilmente in mille pezzi tutte queste idee su di loro, e a maggior ragione quelle sui loro rapporti.

L’unione mistica da un lato. La resurrezione del corpo dall’altro. lo non so raggiungere neppure la parvenza di un’immagine, di una formula, anche solo di una sensazione, che le combini. Eppure, secondo quello che ci viene detto, la realtà lo fa. La realtà, ancora una volta iconoclastica. Il cielo risolverà i nostri problemi, ma non, credo, mostrandoci sottili riconciliazioni fra tutte le idee che a noi apparivano contraddittorie. Quelle idee ci verranno strappate da sotto i piedi. Scopriremo che non c’era mai stato alcun problema.

E, più di una volta, quell’impressione che non so descrivere se non dicendo che è come il suono di una risatina nel buio. La sensazione che la vera risposta sia di una sconvolgente e disarmante semplicità.

Si pensa spesso che i morti ci vedano. E noi assumiamo, ragionevolmente o no, che, se è davvero così, essi ci vedono più chiaramente di prima. H. vede ora quanta superficialità o quanti orpelli c’erano in quello che lei chiamava, che io chiamo, il mio amore? Così sia. Guarda fino in fondo, cara. Non mi nasconderei nemmeno se potessi. Noi non ci siamo idealizzati l’un l’altro. Abbiamo cercato di non avere segreti fra noi. Tu già conoscevi gran parte delle mie zone guaste. Se ora vedi di peggio, posso sopportarlo. E anche tu. Rimprovera, spiega, canzona, perdona. Perché questo è uno dei miracoli dell’amore: che esso dà - a entrambi, ma forse soprattutto alla donna - la capacità di vedere al di là dei suoi incantamenti, ma senza che l’incanto scompaia.

Vedere, in qualche misura, come Dio. Il Suo amore e la Sua conoscenza non sono distinti l’uno dall’altra, né sono distinti da Lui. Potremmo quasi dire che Egli vede perché ama, e quindi ama benché veda.

A volte, Signore, viene la tentazione di dire che se tu ci volevi come i gigli della campagna avresti potuto darci un’organizzazione più simile alla loro. Ma proprio qui, immagino, sta il tuo grande esperimento. Anzi, no: non un esperimento, perché tu non hai bisogno di scoprire nulla. Meglio dire: la tua grande impresa. Fare un organismo che sia anche uno spirito; fare quel terribile ossimoro che è un «animale spirituale». Prendere un povero primate, una bestia coperta di terminazioni nervose, una creatura con uno stomaco che vuole essere riempito, un animale riproduttivo che ha bisogno di un compagno, e dire: «Avanti, forza! Diventa un dio».

Molti taccuini fa, ho detto che, anche se ricevessi ciò che potrebbe sembrare un’assicurazione della presenza di H., non ci crederei. Facile a dirsi. Anche adesso, però, non intendo accettare nulla del genere come prova. E la qualità dell’ esperienza di ieri notte, non ciò che prova ma ciò che era, che mi spinge a registrarla. E stata, incredibilmente, spoglia di qualsiasi emozione. Solo l’impressione della sua mente, per un attimo di fronte alla mia. Mente, non «anima» nel senso che comunemente intendiamo. E comunque il contrario di quel che si dice uno «slancio dell’animo». Tutt’altro che un estatico ricongiungimento di due amanti. È stato piuttosto come ricevere una sua telefonata o un telegramma su una questione concreta, fattuale. Non che ci fosse un «messaggio»: solo intelligenza e attenzione. Nessun senso di gioia o di mestizia. E nemmeno amore, nel senso corrente del termine. O dis-amore. Mai, in nessuno stato d’animo, avevo immaginato i morti così... così asciutti ed efficienti, ecco. E tuttavia c’era un’intimità fortissima e allegra. Un’intimità che non ~ra. passata attraverso i sensi o le emozioni.

Se è stato un rigurgito dell’inconscio, vuol dire che il mio inconscio è una regione più interessante di quanto non mi avessero indotto a credere gli psicologi del profondo. Tanto per cominciare, lo si direbbe molto meno primitivo del mio io cosciente.

Da qualsiasi parte sia venuto, ha dato alla mia mente una, diciamo così, bella ripulita. Questo potrebbero essere i morti: puro intelletto. Un filosofo greco non si sarebbe sorpreso di un’esperienza come la mia. Per lui era evidente che, se di noi resta qualcosa dopo la morte, deve essere quello e nient’altro. A me l’idea era parsa finora arida e raggelante. L’assenza di emozione mi ripugnava. Ma in questo contatto (reale o apparente che fosse) non c’è stato nulla del genere. Non c’era bisogno di emozione. L’intimità era già completa, e insieme corroborante e ristoratrice. È possibile che questa intimità sia puro amore, quell’amore che è sempre accompagnato, in questa vita, dall’emozione non perché sia un’ emozione o abbia bisogno della presenza di un’ emozione, ma perché questo è l’unico modo in cui possono reagire la nostra anima animale, il nostro sistema nervoso, la nostra immaginazione? Se è così, quanti preconcetti devo eliminare! Una società, una comunione, di pura intelligenza non sarebbe fredda, uggiosa, squallida. Ma nemmeno sarebbe ciò che di solito si ha in mente quando si usano parole come «spirituale», «mistico», «santo». Sarebbe, se davvero ne ho intravisto un barlume... ho quasi paura degli aggettivi che dovrei usare. Energica? allegra? penetrante? attenta? intensa? vigile? Ma soprattutto, solida. Assolutamente affidabile. Costante. I morti sono gente quadrata.

Quando dico «intelletto» includo la volontà. L’attenzione è un atto di volontà. L’intelligenza in azione è volontà par excellence. Ciò che mi è sembrato venirmi incontro era pieno di risolutezza.

Quando la fine fu vicina, le dissi: «Se puoi... se è permesso... vieni da me quando sarò anch’io sul letto di morte». «Se è permesso!» rispose. «Il Cielo avrebbe un bel daffare a trattenermi. Quanto all’Inferno, lo ridurrei in briciole». Sapeva di usare una sorta di linguaggio mitologico, con una nota di arguzia, perfino. Negli occhi, insieme alle lacrime, le brillava una risata. Ma non c’erano miti o scherzi nel lampo della volontà, più profonda di qualsiasi sentimento.

Tuttavia, l’esser giunto a fraintendere un po’ meno totalmente che cosa potrebbe essere una pura intelligenza non deve farmi sporgere troppo in là. C’è anche, qualunque ne sia il significato, la resurrezione della carne. Non possiamo capire. Il meglio è forse ciò che meno comprendiamo.

Non si disputava un tempo per stabilire se la visione finale di Dio fosse soprattutto un atto di intelligenza oppure di amore? E probabilmente una delle tante domande senza senso.

Che malvagità sarebbe, se ne avessimo il potere, richiamare in vita i morti! Non a me, ma al cappellano, disse: «Sono in pace con Dio». E sorrise, ma non a me. Poi si tornò all’etterna fontana.

Clive Staples Lewis

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